Legittimo il termine di 12 mesi per l’annullamento in autotutela ex art. 21-nonies L. 241/1990
Commento a Corte costituzionale n. 88/2025
Sommario: 1. Premessa: l’autotutela decisoria e la perenne tensione tra jus poenitendi e affidamento – 2. La disciplina dell’annullamento d’ufficio e l’evoluzione del “termine ragionevole” nell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 – 3. La vicenda e i dubbi di costituzionalità – 4. La decisione della Corte – 5. Conclusioni
1. Premessa: l’autotutela decisoria e la perenne tensione tra jus poenitendi e legittimo affidamento
Per autotutela amministrativa si intende l’attività con cui la pubblica amministrazione provvede a risolvere i conflitti, potenziali o attuali, che insorgono con altri soggetti relativamente ai suoi atti o alle sue pretese[1]. La dottrina[2] distingue due declinazioni di tale potere:
l’autotutela esecutoria, che consiste nel potere di eseguire unilateralmente e coattivamente i provvedimenti ed il cui riconoscimento generale si rinviene nell’art. 21-ter L. 241/1990;
l’autotutela decisoria, che consiste nel potere di riesaminare discrezionalmente i propri atti, sul piano della legittimità e/o dell’opportunità, al fine di confermarli, modificarli, revocarli (art. 21-quinquies L. 241/1990) o annullarli (art. 21-nonies L. 241/1990). Nell’autotutela decisoria la P.A. rivaluta l’interesse pubblico alla luce degli altri interessi coinvolti e ciò a prescindere dall’insorgere di una controversia.
È proprio in quest’ultima accezione che si manifesta la perenne tensione tra lo jus poenitendi dell’Amministrazione e il principio di tutela dell’affidamento del privato. Se, da un lato, l’ordinamento riconosce all’Amministrazione il potere-dovere di perseguire l’interesse pubblico attraverso il ripristino della legalità violata, correggendo i propri errori, dall’altro tale potestà non può essere illimitata. Essa incontra un argine insuperabile nei principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento di colui che ha ragionevolmente confidato nella stabilità e nella validità di un provvedimento a lui favorevole. L’atto amministrativo, infatti, non è un mero esercizio astratto di potere, ma un fattore concreto che orienta le scelte di vita e di investimento dei cittadini, la cui fiducia nella coerenza e stabilità dell’azione pubblica costituisce un bene giuridico di primaria importanza per l’intero ordinamento[3].
Questa intrinseca tensione ha alimentato per decenni un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale, culminato in una serie di interventi legislativi volti a positivizzare e circoscrivere l’esercizio del potere di riesame. La recente sentenza della Corte costituzionale n. 88 depositata il 26/06/2025, oggetto del presente commento, si inserisce in questo solco evolutivo.
2. La disciplina dell’annullamento d’ufficio e l’evoluzione del “termine ragionevole” nell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990
Il potere di annullamento d’ufficio, ovvero il potere dell’Amministrazione di ritirare con efficacia retroattiva (ex tunc) un proprio atto illegittimo, trova la sua disciplina positiva fondamentale nell’art. 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241. Tale disposizione, nella sua architettura originaria e nelle sue successive modificazioni, subordina l’esercizio di detto potere a tre presupposti concorrenti:
l’illegittimità originaria del provvedimento;
la sussistenza di ragioni di interesse pubblico, attuali e concrete, alla sua rimozione (che non possono esaurirsi nel mero ripristino della legalità);
l’esercizio del potere entro un “termine ragionevole”, tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
È proprio il requisito del “termine ragionevole” a rappresentare la chiave di volta del sistema. Inizialmente, la sua determinazione era rimessa a una valutazione casistica del giudice amministrativo, che ponderava la complessità della vicenda, il tempo trascorso, il consolidamento della situazione giuridica del privato e l’intensità dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto. Sebbene orientata a tutelare l’affidamento, questa impostazione lasciava ampi margini di incertezza, risolvendosi in una prognosi ex post non sempre prevedibile per il cittadino.
La spinta verso una maggiore certezza ha trovato un primo, decisivo approdo legislativo con la c.d. “Riforma Madia” (legge n. 124/2015), che ha modificato l’art. 21-nonies introducendo un termine massimo, fissato in diciotto mesi, per l’annullamento dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici. Tale intervento ha segnato una svolta epocale: il legislatore ha operato un bilanciamento ex ante tra l’interesse al ripristino della legalità e l’interesse alla stabilità dei rapporti, privilegiando quest’ultimo una volta decorso un lasso di tempo ritenuto congruo[4]. La “ragionevolezza” del termine, da clausola generale elastica, si è così cristallizzata in un dato normativo preciso, fatta salva la sola eccezione dei casi di provvedimenti ottenuti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione o di atto di notorietà false o mendaci, per le quali il termine non opera.
Questa tendenza è stata ulteriormente rafforzata dal c.d. “Decreto Semplificazioni” del 2021 (D.L. n. 77/2021), che ha ulteriormente ridotto il termine a dodici mesi, a conferma della volontà legislativa di circoscrivere in modo ancora più netto il potere di autotutela.
3. La vicenda e i dubbi di costituzionalità
Per cogliere appieno la portata della sentenza in commento, è opportuno ricostruire, seppur in termini essenziali, la vicenda fattuale e processuale da cui trae origine la questione di legittimità costituzionale:
2015: l’Ufficio esportazione del Ministero della cultura rilasciava un attestato di libera circolazione per un dipinto, consentendone l’uscita dal territorio nazionale. L’opera era stata presentata come un quadro del XVI secolo di scuola italiana, raffigurante una figura femminile.
2019: anni dopo, a seguito di un restauro e di un approfondito studio, la tela veniva attribuita a Giorgio Vasari e identificata con un raro dipinto di cui si erano perse le tracce. Il suo valore artistico e culturale si rivelava, dunque, immensamente superiore a quello originariamente dichiarato.
2021: venuta a conoscenza della nuova attribuzione, la Direzione generale competente del Ministero della cultura, dopo oltre sei anni dal rilascio dell’attestato, disponeva l’annullamento d’ufficio del provvedimento originario e ordinava il rientro dell’opera in Italia.
I proprietari dell’opera impugnavano l’atto di annullamento, deducendone la tardività per palese violazione del termine massimo di dodici mesi stabilito dall’art. 21-nonies, comma 1, L. n. 241/1990. Il Consiglio di Stato, investito della questione in appello, pur escludendo l’applicabilità dell’eccezione per “false rappresentazioni dei fatti” (ritenendo la descrizione originaria generica, ma non mendace), ha dubitato della costituzionalità di un termine così rigido, sollevando la relativa questione per contrasto con gli artt. 3, 9, 97 e 117 Cost., nella parte in cui la norma non prevede un regime differenziato per i provvedimenti incidenti su interessi “super-primari” come la tutela del patrimonio culturale.
In altri termini, secondo il giudice rimettente, il termine previsto porterebbe automaticamente a sacrificare l’interesse pubblico “tutela del patrimonio storico e artistico” al cospetto dell’interesse individuale “legittimo affidamento”, precludendo all’amministrazione l’apprezzamento delle peculiarità e dell’importanza del caso concreto, l’adeguata ponderazione degli interessi e l’eventuale riesercizio del potere di primo grado.
A tali conclusioni il giudice arriva, tra l’altro, osservando come all’interno della stessa L. 241/1990 alcuni istituti prevedano una disciplina differenziata per la tutela dei beni culturali, tra cui l’art. 20, comma 4 sul silenzio-assenso, l’art. 19, comma 1, sulla SCIA, gli artt. 14-bis, comma 2, lettera c), 14-ter, comma 2, 14-quinquies, comma 1, in tema di conferenza di servizi. Tutte le disposizioni sono accomunate dalla dilatazione dei tempi di valutazione riservati all’amministrazione in ragione della delicatezza dell’interesse coinvolto e della complessità dei relativi accertamenti.
4. La decisione della Corte
La Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni sollevate, salvando la regola del termine perentorio di dodici mesi anche nel settore dei beni culturali. La ratio decidendi si articola su tre snodi cruciali.
In primo luogo, la Corte riconosce che il termine di dodici mesi non è una svista, ma il frutto di un ponderato e non manifestamente irragionevole bilanciamento realizzato dal legislatore. Il Parlamento, modificando l’art. 21-nonies, ha fatto una scelta politica: ha messo sulla bilancia da un lato l’interesse pubblico relativo alla tutela del patrimonio culturale ex art. 9 Cost., e dall’altro l’interesse, di pari rango e caratura, alla certezza dei rapporti giuridici e alla tutela del legittimo affidamento (riconducibile agli artt. 3 e 97 Cost.). La fissazione di un termine fisso, trascorso il quale il potere di autotutela si consuma, rappresenta il punto di caduta di questo bilanciamento. Il legislatore ha ritenuto che l’incertezza perpetua dei rapporti giuridici costituisca un “costo” per l’intero sistema (danneggiando la circolazione dei beni, la fiducia degli operatori, gli investimenti) superiore al beneficio derivante dal poter rimediare sine die a un errore dell’amministrazione. Secondo la Corte questa scelta, lungi dall’essere irragionevole, risponde a un’esigenza fondamentale dello Stato: il legittimo affidamento è infatti «ricaduta e declinazione “soggettiva”» della certezza del diritto, la quale, a propria volta, integra un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto», connaturato sia all’ordinamento nazionale, sia al sistema giuridico sovranazionale (sentenze n. 36 del 2025, n. 70 del 2024, n. 188 del 2022 e n. 210 del 2021, 241 del 2019, n. 73 del 2017, n. 170 e n. 160 del 2013).
In secondo luogo, la Corte sottolinea come il legislatore abbia già previsto un correttivo per i casi in cui l’affidamento del privato non sia meritevole di tutela: l’eccezione di cui al comma 2-bis dello stesso art. 21-nonies. Tale norma, infatti, esclude l’applicazione del termine perentorio quando il provvedimento sia stato ottenuto sulla base di false rappresentazioni dei fatti o dichiarazioni mendaci. Questo, secondo la Corte, è l’unico temperamento al principio di certezza ammesso dal sistema: la stabilità viene meno solo quando la situazione è stata viziata all’origine da un comportamento doloso o gravemente colposo del privato, in altri termini in assenza di “buona fede”[5].
Infine, la Corte respinge l’argomento basato sulla presunta specialità della materia culturale. È vero che la legge 241/1990 prevede discipline differenziate per gli interessi sensibili in molteplici istituti (silenzio-assenso, SCIA, conferenza di servizi). Tuttavia, osserva la Corte, tali deroghe attengono tutte alla disciplina del procedimento di primo grado, dove l’interesse pubblico primario deve essere ponderato con particolare attenzione. L’autotutela, invece, è un procedimento di secondo grado, in cui entrano in gioco interessi diversi e ulteriori, primo fra tutti quello alla stabilità dei rapporti già consolidati. La scelta del legislatore di non prevedere una disciplina speciale in sede di autotutela è, pertanto, coerente con la diversa logica che presiede al riesame rispetto a quella che governa l’azione originaria[6].
Merita una sottolineatura particolare un passaggio logico che percorre tutto l’impianto motivazionale della sentenza. Nel dichiarare non fondate le questioni sollevate, la Corte non si limita a un’asettica difesa del bilanciamento operato dal legislatore, ma lancia un chiaro monito all’Amministrazione: la tutela più efficace degli interessi pubblici primari si realizza primariamente nel procedimento di primo grado, non attraverso la perpetua rincorsa di un potere di riesame in secondo grado. La Corte, infatti, nel respingere l’idea di una necessaria dilatazione del termine di annullamento, indirettamente “bacchetta” l’argomento secondo cui l’amministrazione avrebbe bisogno di più tempo per accorgersi dei propri errori. La ratio della decisione sembra essere la seguente: proprio perché l’interesse culturale (o ambientale, o sanitario) è di rango costituzionale, il legislatore ha già predisposto una fitta rete di garanzie e di strumenti procedurali “aggravati” nel procedimento originario. La disciplina speciale in materia di beni culturali, richiamata dalla stessa Corte, che impone obblighi informativi rigorosi al privato e assegna poteri di accertamento tecnico-discrezionali agli uffici specializzati, non è un orpello, ma è la sede naturale e privilegiata in cui l’interesse pubblico deve essere curato con la massima diligenza. Il richiamo del rimettente alle norme della L. 241/1990 che prevedono regimi differenziati per gli interessi sensibili viene, in un certo senso, rovesciato dalla Corte. Mentre il giudice a quo le invoca per dimostrare un’incoerenza del sistema rispetto all’art. 21-nonies, la Corte sembra suggerire che proprio quelle norme dimostrino la coerenza del disegno legislativo. Esse costituiscono un esplicito invito e, al contempo, un onere per l’Amministrazione a procedere con la massima attenzione in fase iniziale. Consentire un’autotutela sine die o con termini dilatati rischierebbe, paradossalmente, di depotenziare questo dovere di diligenza originaria, inducendo gli uffici a un controllo meno approfondito nella consapevolezza di poter sempre “rimediare” in un secondo momento.
5. Conclusioni
La sentenza consolida definitivamente l’idea che il potere di autotutela non sia un attributo ontologico e illimitato dell’Amministrazione, ma uno strumento funzionale che deve trovare il suo bilanciamento nella tutela della stabilità dei rapporti giuridici. Il trascorrere del tempo non è un fattore estrinseco, ma un elemento che modifica la stessa natura degli interessi in gioco: consolida l’affidamento del privato e, contestualmente, affievolisce l’interesse pubblico concreto alla rimozione di un atto, ancorché originariamente illegittimo.
Un’Amministrazione che agisce in modo trasparente, coerente e stabile non solo tutela il singolo cittadino, ma rafforza l’intero sistema, promuovendo un contesto di fiducia essenziale per lo sviluppo economico e sociale. L’incertezza, al contrario, rappresenta un costo per la collettività, paralizzando iniziative e generando contenzioso. La scelta del legislatore nazionale di fissare un termine certo e perentorio di dodici mesi viene quindi avallata dalla Corte in quanto frutto di una ponderata sintesi politica.
In sintesi, la decisione in commento rafforza un modello di amministrazione responsabile. La fissazione di un termine perentorio per l’autotutela non indebolisce la tutela dell’interesse pubblico, ma la sposta dove è più efficace e doverosa: nella fase genetica del rapporto, quando l’Amministrazione esercita il suo potere originario. L’efficienza e il buon andamento, sanciti dall’art. 97 Cost., si realizzano non nella facoltà di correggere all’infinito, ma nella capacità di decidere bene e subito, utilizzando appieno gli strumenti istruttori e valutativi che l’ordinamento mette a disposizione proprio per la delicatezza degli interessi in gioco. La stabilità del provvedimento, trascorso un tempo congruo, diviene così il sigillo finale di un’azione che si presume sia stata, sin dall’inizio, diligente e ponderata.
[1] BENVENUTI F., voce Autotutela (diritto amministrativo), in Enciclopedia del Diritto, Giuffré, 1959, p. 539. L’autore riconduceva all’autotutela ogni ipotesi in cui l’amministrazione risolvesse conflitti reali e potenziali e vi includeva non solo ciò che normalmente definiamo autotutela “decisoria” ed “esecutiva”, ma anche i controlli, le sanzioni amministrative, certe autorizzazioni e altro ancora.
[2] La definizione dei caratteri e dell’ambito dell’autotutela amministrativa è tra quelle che maggiormente dividono gli studiosi. Secondo una parte della dottrina l’autotutela era quasi sinonimo di esecutorietà del provvedimento amministrativo e designava solo le ipotesi di esecuzione forzata amministrativa. Questa concezione era propria di quegli autori che consideravano l’imperatività un carattere comune a tutti i provvedimenti pubblici, i quali trovavano in sé stessi il fondamento della loro efficacia ed esecutività. Cfr. GIANNINI M.S., Lezioni di diritto amministrativo, Giuffré, 1950, p. 417 ss.; LUCIFREDI R., Le prestazioni obbligatorie in natura dei privati alle pubbliche amministrazioni. La teoria generale, Cedam, 1934, p. 166; CARBONE C., Esecuzione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XV, Giuffré, 1966, p. 412 ss.; MONTESANO L., Processo civile e pubblica amministrazione, Morano, 1960, p. 172 ss.; FALCON G.D., Esecutorietà ed esecuzione dell’atto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., Torino, 1991, p. 140 ss. Non manca chi, tutto all’opposto, esclude dall’autotutela quella esecutiva e vi include solo quella decisoria (BASSI F., Lezioni di diritto amministrativo, Giuffré, 2008, p. 135).
[3] Per una ricostruzione, v. ALLA L., Il legittimo affidamento nel diritto europeo e nel diritto interno, in Amministrazione In Cammino, 2012 e GIURICKOVIC A., Sul principio del legittimo affidamento, in Diritto e processo amministrativo 1.XII, 2018, pp. 321-358.
[4] Cfr. Parere del Consiglio di Stato, comm. Spec., n. 839 del 30.3. 2016
[5] CASETTA E., Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè editore, 2019, p. 558; MATTARELLA B.G., Lezioni di diritto amministrativo. G Giappichelli Editore, 2018, p. 54
[6]La Corte sottolinea come sia da abbandonare quella risalente impostazione secondo cui il potere di riesame sarebbe espressione dello stesso potere esercitato in primo grado (o di un potere implicito da esso derivante), e quindi “inesauribile”. Il potere amministrativo “va esercitato nella misura in cui serve al soddisfacimento dell’interesse pubblico ed è proporzionatamente occorrente a tal fine, quindi con il minimo sacrificio dell’interesse del privato, ma anche degli altri interessi pubblici”. Nel procedimento amministrativo l’interesse pubblico “primario” (causa del potere) si confronta con gli altri interessi pubblici coinvolti e con gli interessi dei privati. Ebbene, “Il corretto confronto di questi interessi, secondo laformazione datane dalla legge, è garanzia di legittimità della decisione amministrativa, così formatasi, con la quale si esaurisce quel potere”. Pertanto “il riesame del provvedimento, pur mosso da ragioni di legittimità, non costituisce espressione di quel potere già esercitato, bensì di un altro potere riconosciuto in via generale all’amministrazione, quello dell’annullamento d’ufficio, che, proprio perché diverso da quello esercitato e su cui va a incidere, è assoggettata a regole specifiche, quanto a presupposti, a disciplina procedimentale e a portata della discrezionalità di cui la funzione di autotutela è espressione. In particolare […] in sede di riesame emerge l’esigenza di una regola di certezza e di correttezza nei rapporti tra i conl potere pubblico e i privati, che rende immodificabile l’assetto degli interessi che si è consolidato nel tempo.”
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Marco Paoloni
Funzionario amministrativo tributario a Agenzia delle Entrate - Direzione Provinciale di Fermo