
“Il danno è servito”: la pausa negata, il lavoratore turnista e la presunzione che fa giurisprudenza
Sommario: 1. Premessa – 2. Il caso concreto e le questioni giuridiche – 3. La motivazione della Corte di Cassazione – 4. Il valore sistemico della decisione – 5. Considerazioni conclusive e prospettiche – 6. Nota conclusiva
Abstract. La Cassazione riconosce che la mancata pausa nel lavoro turnista può generare un danno alla salute presunto, ove la condotta datoriale sia sistematica e intrinsecamente lesiva. La prova presuntiva, lungi dall’essere un mezzo probatorio debole, si conferma strumento logico e garantista, coerente con l’art. 2087 c.c. e con la funzione preventiva dell’art. 8 d.lgs. . 66/2003. Il contributo analizza la ratio della decisione, la natura del danno e le implicazioni assiologiche, proponendo una lettura evolutiva della presunzione nel diritto del lavoro.
1. Premessa
La sentenza n. 27307 del 13 ottobre 2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, rappresenta un momento significativo nel percorso di consolidamento del principio di tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore turnista. Il caso affronta la questione, tanto pratica quanto teorica, della prova presuntiva del danno da usura psicofisica, in situazioni in cui il lavoratore non sia in grado di offrire una dimostrazione diretta del pregiudizio subito. La Corte coglie l’occasione per ribadire la funzione protettiva dell’art. 2087 c.c. e l’importanza assiologica dell’art. 8 del d.lgs. n. 66/2003, secondo cui il diritto alla pausa non è un beneficio accessorio, ma uno strumento di salvaguardia della salute e della dignità della persona che lavora.
2. Il caso concreto e le questioni giuridiche
Il contenzioso trae origine dal ricorso di un gruppo di lavoratori turnisti che, sin dal 2008, erano stati sistematicamente assegnati a turni superiori alle sei ore senza fruire della pausa minima di dieci minuti prevista dalla legge.
Il Tribunale di Roma, e successivamente la Corte d’appello, avevano riconosciuto la lesione del diritto alla salute, ritenendo sussistente il danno da usura psicofisica in via presuntiva, sulla base della protrazione e della reiterazione della condotta datoriale.
L’azienda aveva impugnato la decisione, sostenendo che il danno non potesse essere considerato in re ipsa e che i lavoratori non avessero fornito alcuna prova specifica delle conseguenze subite. La Suprema Corte è stata quindi chiamata a chiarire se la presunzione del danno potesse ritenersi ammissibile in casi di violazione prolungata dell’obbligo di pausa, e quali fossero i limiti logici e giuridici del ragionamento presuntivo.
3. La motivazione della Corte di Cassazione
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando l’impianto motivazionale della Corte territoriale.
Secondo i giudici di legittimità, l’accertamento del danno fondato su presunzioni è pienamente legittimo quando il giudice di merito costruisce il ragionamento inferenziale nel rispetto dell’art. 2729 c.c., valorizzando fatti noti gravi, precisi e concordanti.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la condotta datoriale — turni continuativi oltre le sei ore per un periodo pluriennale, in assenza sistematica della pausa — costituisse un fatto oggettivamente lesivo e intrinsecamente idoneo a determinare un logoramento psicofisico.
Non si è trattato, quindi, di presumere automaticamente l’esistenza del danno, ma di desumerlo logicamente da una situazione organizzativa incompatibile con la tutela della salute prevista dal legislatore. La Corte sottolinea come la reiterazione della violazione, la sua durata e l’assenza di misure compensative integrino un quadro indiziario sufficientemente solido da fondare una presunzione grave e coerente di danno.
4. Il valore sistemico della decisione
La pronuncia conferma un orientamento giurisprudenziale che mira a riequilibrare la posizione probatoria del lavoratore, spesso penalizzato dalla difficoltà di documentare gli effetti concreti di una condotta aziendale lesiva.
Nel contesto del lavoro turnista, in cui la fatica e la deprivazione di pause regolari producono un’usura progressiva e spesso non immediatamente misurabile, la prova presuntiva diventa uno strumento di giustizia sostanziale.
La Cassazione afferma implicitamente che la tutela della salute non può dipendere da una prova clinica o documentale, ma può fondarsi su una inferenza logica e razionale, purché ancorata a elementi oggettivi e coerenti.
La sentenza, in questo senso, opera un bilanciamento tra forma e sostanza, restituendo centralità alla funzione protettiva dell’art. 2087 c.c. e riaffermando che la salute del lavoratore è un bene primario, non disponibile né comprimibile dalle esigenze organizzative dell’impresa.
5. Considerazioni conclusive e prospettiche
La sentenza n. 27307/2025 segna un passo ulteriore verso un modello probatorio più realistico e antropocentrico.
Il danno da usura psicofisica non è in re ipsa, ma può essere presunto in concreto quando l’ambiente di lavoro e le modalità organizzative risultino tali da impedire il recupero delle energie psico-fisiche. La Corte dimostra di voler abbandonare il formalismo probatorio, valorizzando invece un ragionamento induttivo fondato sulla verosimiglianza e sulla coerenza logica, capace di cogliere la realtà dell’esperienza lavorativa.
Sotto il profilo metodologico, la decisione sollecita una riflessione più ampia sul ruolo della presunzione come strumento epistemico di equità nel diritto del lavoro.
La prova presuntiva, in questa chiave, non è un indebolimento dell’onere probatorio, ma un meccanismo di compensazione dell’asimmetria conoscitiva che caratterizza il rapporto tra datore e lavoratore.
In prospettiva, tale impostazione potrebbe favorire un’evoluzione normativa o giurisprudenziale verso una codificazione esplicita della presunzione probatoria nel diritto del lavoro, intesa come garanzia di effettività della tutela della persona e di razionalità del giudizio di causalità.
6. Nota conclusiva
La sentenza n. 27307/2025 si inserisce in una tendenza sistemica che mira a rafforzare la dimensione cognitiva del processo del lavoro, riconoscendo che la verità giudiziale non può essere disgiunta dal contesto umano e organizzativo in cui si svolge la prestazione.
La presunzione del danno da usura psicofisica non rappresenta una deroga ai principi probatori generali, ma un adattamento del metodo probatorio alla realtà fattuale delle relazioni di lavoro, coerente con la funzione protettiva dell’art. 2087 c.c. e con l’esigenza di una giustizia effettiva.
In questo senso, la pronuncia non è soltanto un precedente giurisprudenziale: è un atto di cultura giuridica che apre la strada a un diritto del lavoro più consapevole, capace di misurare la complessità del lavoro contemporaneo con strumenti di equità conoscitiva e di tutela integrale della persona.
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Aldo Andrea Presutto
Avvocato & DPO
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