Il conflitto di interessi alla luce dell’art. 6-bis della Legge n. 241/1990 

Il conflitto di interessi alla luce dell’art. 6-bis della Legge n. 241/1990 

di Michele Di Salvo

In merito al tema del conflitto di interessi e dell’incompatibilità dei componenti di commissione di concorso, nonostante taluni importanti precedenti giurisprudenziali nonché una chiara svolta che il legislatore ha voluto imprimere con la L. 190/2012, e nonostante l’argomento tocchi da vicino principi fondamentali come il buon andamento e la trasparenza, continuano a manifestarsi alcuni pronunciamenti contrastanti del Consiglio di Stato.

Talvolta complice una manifesta genericità e/o inammissibilità delle censure mosse dai ricorrenti (come nella sentenza sez. VII del Consiglio di Stato, 18 marzo 2025, n. 2236), il Consiglio di Stato, tuttavia, spesso non entra nel merito delle questioni ignorando quelle che sono alcune recenti importanti prese di posizione del medesimo organo giudicante e continuando, per altro verso, a rimandare a sentenze più risalenti nel tempo e/o ancorate ad una visione “pre-Severiniana” del concetto stesso di conflitto di interessi.

Questo “effetto finale” trae origine da due tendenze: l’ampio volume di citazioni “copia-incolla” da parte delle difese della P.A. Che – chiaramete – si rifanno a precedenti risalenti e favorevoli “ante riforma”, e dalla talvolta scarsa volontà “innovativa” da parte del massimo organo di giudizio amministrativo.

In realtà sarebbe sufficiente una ricostruzione storica dei principi di imparzialità, buon andamento, conflitto di interessi, economicità dell’agire della PA., incompatibilità, per capire come, fin da circa un ventennio, il processo esegetico di tali principi abbia cominciato a direzionarsi verso una interpretazione, si badi, non rivoluzionaria, ma semplicemente più costituzionalmente orientata.

La circolare 3/2005 Dipartimento Funzione Pubblica, in netto anticipo con la legge anticorruzione del 2012, già prevedeva ed auspicava una applicazione teleologica dei doveri di astensione e della tutela del principio costituzionale ex art. 97 Cost. laddove afferma “… è opportuno precisare che le amministrazioni interessate sono chiamate a rispettare non solo i principi di ordine generale fissati dal legislatore ordinario in materia di incompatibilità dei componenti delle commissioni, come previste dal D.P.R. n. 487/1994, ma, in particolare, devono assicurare l’attuazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza in merito agli obblighi di astensione che gravano sui componenti medesimi.” 

Il Consiglio di Stato, ben prima dell’introduzione dell’art. 6 bis della L. 241/1990, attraverso l’interpretazione teleologica della disciplina applicabile (tra cui quella prevista dall’art. 51 del codice di rito civile) e l’elaborazione del c.d. criterio sintomatico di incompatibilità, aveva già avuto modo di censurare i casi più gravi ed evidenti, tra i quali vi rientrano quelli contrassegnati da peculiari rapporti di «conoscenza» tra candidato e commissario.

Sebbene la legislazione ordinaria vigente prima della legge anticorruzione non contemplasse una specifica disciplina sulle cause di incompatibilità nei pubblici concorsi, per pacifica giurisprudenza, erano e sono applicabili almeno analogicamente tutte le norme previste a tutela dei fondamentali precetti di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.; art. 51 c.p.c.; art. 36 c.p.p.; art. 19 R.D. 12 del 1941, etc.)

In riferimento a tali articoli – teleoloficamente e funzionalmente collegati – la stessa Consulta è intervenuta più volte, evidenziandone la stretta connessione funzionale con i valori di eguaglianza (art. 3 Cost.), di pari condizioni di tutti i cittadini nell’accesso ai pubblici uffici (art. 51 Cost.), di efficienza ed indipendenza dell’azione amministrativa (art. 97 e 98 Cost.).

Ed è in questo senso che va ribadita l’esigenza che il Consiglio di Stato si direzioni verso una interpretazione non rivoluzionaria, ma semplicemente più costituzionalmente orientata.

Per quanto concerne i “rapporti” tra i componenti delle commissioni di concorso e i candidati, principio consolidato è che deve farsi applicazione dell’art. 51 del Codice di procedura civile, sicché la ricorrenza di una causa di incompatibilità, ivi prevista, comporta l’obbligo di astensione del componente (o dei componenti) della commissione e, in caso di violazione di detto obbligo, l’illegittimità degli atti concorsuali.

In ordine all’effettivo ambito di operatività di detta disciplina un particolare ruolo è stato svolto dal massimo organo della giustizia amministrativa attraverso la formulazione del criterio sintomatico di incompatibilità che ha anticipato di fatto di parecchi anni la riforma post legge anticorruzione del 2012.

Ciò onde evitare soluzioni ermeneutiche formalistiche e restrittive, che bene potrebbero essere favorite dal carattere “tassativo” dell’elenco di cui all’art. 51 c.p.c.

Ci troviamo quindi in sintesi nuovamente di fronte ad un uso quantomeno distorto della tassatività come strategia elusiva dei principi ben chiari della norma – e verrebbe da dire quindi scelta coscientemente in mala fede (quasi a configurare un vero e proprio dolo).

In base a tale criterio sussiste l’incompatibilità quando “i rapporti personali fra esaminatore ed esaminando siano tali da far sorgere il sospetto che il candidato sia stato giudicato non in base al risultato delle prove, bensì in virtù delle conoscenze personali ovvero quando sia accertata la sussistenza di rapporti personali diversi e più saldi di quelli che di regola intercorrono tra maestro e allievo” (Cons. Stato, VI, 11 gennaio 1999 n. 8).

Si comprende appieno l’importanza di detto criterio, in base al quale anche quando il legame tra commissario e candidato non sia tale da essere riconducibile entro i casi tassativi di astensione obbligatoria ex art. 51 c.p.c., sussisterà, comunque, l’incompatibilità se tale rapporto sarà idoneo a generare anche solo il sospetto di parzialità, cioè se esso esporrà a pericolo (lesione potenziale) il bene giuridico protetto dall’ordinamento (l’imparzialità e il buon andamento della P.A.). In tal senso vedasi Cons. Stato, VI, 21 maggio – 23 settembre 2004, n. 7797.

Vale la pena soffermarci ed estendere i caratteri dei beni oggetto di protezione.

La PA. – come esplicitamente richiamato trasversalmente, e in forma esplicita quando definiamo l’agire della magistratura (che pure è un’amministrazione dello Stato) – deve non solo essere, ma anche apparire imparziale.

Oltre all’imparzialità ed al buon andamento, non possiamo non ricordare i principi tutti di cui all’art. 1 della legge 241/90 e fare un riferimento all’economicità dell’agire pubblico, in questo caso anche con uno sguardo “ex post”.

Il perseverare in attività palesemente in conflitto di interessi genera un contenzioso che di per sé è un onere per la PA procedente, oltre che – laddove porti ad un annullamento della procedura concorsuale – rende l’intera procedura concorsuale quattro volte onerosa: la prima per la realizzazione della procedura, la seconda per il ricorso e l’annullamento, la terza per la ripetizione, la quarta per il ritardo con cui si esplicitano e raggiungono i risultati cui la procedura mirava.

È forse questa quadrupla onerosità che il Consiglio di Stato – consapevole – vuole evitare, cercando di ridurre al massimo il numero di sentenze difformi da un lontano e non più giuridicamente attuale passato-

Il massimo organo della giustizia amministrativa ha specificato che in presenza dei legami idonei a radicare il sospetto di parzialità, non è necessario comprovare che questi si possano concretizzare in un effettivo favore verso il candidato, essendo sufficiente a radicare l’incompatibilità anche il solo pericolo di una compromissione dell’imparzialità di giudizio.

In tal caso, l’effetto invalidante della procedura si verifica sulla base del mero giudizio in astratto ed ex ante circa gli effetti potenzialmente distorsivi del sospetto del difetto di imparzialità, ricollegato alla situazione specificata dal legislatore e dai principi generali cristallizzati dall’art. 97 della Carta fondamentale, senza che assuma rilievo alcuno il profilo fattuale ex post dell’esito inquinante in concreto sortito.

Anzi viene a porsi in posizione di incompatibilità il soggetto, chiamato a provvedere sia come autorità monocratica sia quale membro di un organo collegiale, che risulti portatore di un proprio interesse, e ciò anche quando la determinazione adottata non avrebbe potuto conseguire altro apprezzabile esito o perfino quando la scelta sia, in concreto, la più utile ed opportuna per l’interesse pubblico (Cons. Stato, VI, 11 gennaio 1999 n. 8 e 13 luglio 2004 n. 6912).

Stanti i rapporti che generano l’incompatibilità del commissario, l’obbligo di astensione opererà inoltre oggettivamente. La giurisprudenza, infatti, ha chiarito come in tal caso a nulla rilevi la «buona fede» del soggetto incompatibile (Cons. Stato, V, 13 agosto 1996, n. 920) e sia, comunque, parimenti irrilevante ogni qualsivoglia «prova della resistenza».

Il mutato quadro normativo risultante dalle modifiche apportate alla L. 241/1990 da parte della L.190/2012 (cd legge anticorruzione) ha comportato una consacrazione dell’applicazione teleologica e costituzionalmente orientata della disciplina inerente agli obblighi di astensione per conflitto di interesse.

Il nuovo art. 6 bis L. 241/1990 ha introdotto un più generale obbligo di astensione “onnicomprensivo” di qualsiasi potenziale situazione di conflitto di interessi che possa inficiare il buon andamento e l’imparzialità della PA, ponendosi quindi come norma giuridica finalizzata ad una più vasta ed efficace applicazione dei principi di cui all’art. 97 Cost. rispetto a quanto potrebbe garantire l’elenco tassativo previsto dall’art. 51 cpc.

In più casi, infatti, l’ANAC ha chiarito come la volontà del legislatore, dopo l’emanazione della L.190/2012, sia quella di “impedire ab origine il verificarsi di situazioni di interferenza, rendendo assoluto il vincolo dell’astensione, a fronte di qualsiasi posizione che possa, anche in astratto, pregiudicare il principio di imparzialità” (delibera n. 421 del 13 aprile 2016).

L’immanenza del dovere di astensione nell’ordinamento, anche a prescindere da un’esplicita previsione normativa è stata, tra l’altro, rimarcata da una sentenza della Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. 13 novembre 2012, n. 19704) coeva alla legge n. 190/2012, che assurge quindi a principio generale che opera indipendentemente dalla cd. prova di resistenza, venendo meno l’interesse di salvaguardare la volontà espressa nel provvedimento viziato.

A tali orientamenti risulta di recente essersi adeguato anche il Consiglio di Stato che con la sentenza n. 178 dell’8 gennaio 2019 si è occupato della questione inerente ai conflitti di interesse tra membri della commissione di un concorso e partecipanti. 

Partendo dall’esame dell’art. 11 del d.P.R. n. 487 del 1994, recante “Adempimenti della commissione”, si è focalizzato sul fatto che i componenti di questa, prima dell’inizio delle prove, presa visione dell’elenco dei partecipanti, sottoscrivono la dichiarazione che non sussistono situazioni di incompatibilità tra essi ed i concorrenti, ai sensi degli artt. 51 e 52 c.p.c. In buona sostanza, secondo i Giudici amministrativi i membri della commissione sono tenuti ad astenersi qualora ricorra uno dei casi di conflitto di interesse di cui all’art. 51 c.p.c.

Il Consiglio di Stato, tuttavia, non si limita all’esame di questa norma, ma va oltre. Infatti, esso afferma che le situazioni di incompatibilità, attualmente, hanno una portata più ampia rispetto alla disposizione appena citata. E ciò grazie all’art. 6 bis della Legge n. 241/1990, introdotto dall’art. 1, comma 41, della Legge n. 190/2012 (legge anticorruzione).

Dalla giurisprudenza che si è sinora formata in merito al regime predisposto dall’art. 6-bis della legge n. 241/1990 si evince che «in materia di conflitto di interessi può farsi tuttora applicazione, in quanto non contraddetto dalla disciplina attualmente vigente, del costante orientamento giurisprudenziale, per cui le situazioni di conflitto di interessi, nell’ordinamento pubblicistico non sono tassative, ma possono essere rinvenute volta per volta, in relazione alla violazione dei principi di imparzialità e buon andamento sanciti dall’art. 97 Cost., quando esistano contrasto ed incompatibilità, anche solo potenziali, fra il soggetto e le funzioni che gli vengono attribuite. Per l’effetto, al di là delle singole disposizioni normative, ogni situazione che determini un contrasto, anche solo potenziale, tra il soggetto e le funzioni attribuitegli, deve comunque ritenersi rilevante a tal fine» (TAR. Piemonte, sez. I, sentenza 14 agosto 2019, n. 948). 

Vi è stato, tuttavia, un recente pronunciamento del Consiglio di Stato, che offre spunti ancora più importanti ed utili per definire i lineamenti ontologici e funzionali del conflitto di interessi “procedimentale”: ci si riferisce al parere 5 marzo 2019, n. 667 che il CdS è stato chiamato ad esprimere sullo schema delle Linee Guida Anac in tema di conflitto di interessi nelle procedure di gara (Linee guida successivamente adottate dall’Autorità anticorruzione con la delibera n. 494/2019).

In questo parere il CdS osserva che, da un punto di vista logico-giuridico (e lessicale), la situazione di conflitto, prefigurata dall’art. 6-bis della legge n. 241/1990, riguarda propriamente gli interessi, “vale a dire la tensione verso un bene giuridico che soddisfi un bisogno”; la relativa disciplina attiene, quindi, “non a comportamenti ma a stati della persona”.

Il conflitto di interessi non consiste, dunque, in una condotta dannosa per l’interesse pubblico, ma in una condizione giuridica o di fatto dalla quale può scaturire il rischio che siano posti in essere comportamenti pregiudizievoli per l’amministrazione.

Di conseguenza, per la configurabilità dell’obbligo di astensione prescritto dalla disposizione da ultimo indicata, è sufficiente che il funzionario pubblico abbia «…l’opportunità di anteporre propri interessi privati ai propri interessi professionali…indipendentemente dal concretizzarsi di un vantaggio».

Secondo il Consiglio di Stato, la rilevanza del semplice “pericolo di interferenza” discende direttamente dal principio d’imparzialità dell’azione amministrativa, espresso dall’art. 97 Cost., anche «sub specie del principio ‘della moglie di Cesare’ che deve non solo essere onesta, ma anche apparire onesta».

Inoltre il Consiglio di Stato si sofferma, sempre nel parere n. 667/2019, nell’analizzare la previsione per cui l’obbligo di astensione sussiste anche nel caso in cui sia ravvisabile un “conflitto potenziale”. Sul punto fa notare che l’espressione “conflitto potenziale”, utilizzata nel precetto, costituisce una mera tautologia, posto che «il conflitto di interessi è, di per sé, una situazione di pericolo e qualunque pericolo è, per sua natura, una potenza e non un atto».

Il Consiglio di Stato – al fine di attribuire un significato effettivo e concreto alla suindicata previsione normativa – teorizza che, con essa, il legislatore abbia voluto, in realtà, estendere il regime dettato alle ipotesi di conflitto non tipizzate – ovvero a quelle ipotesi di conflitto diverse da quelle conclamate, palesi e, soprattutto, codificate (quali i rapporti di parentela o di coniugio e le altre posizioni personali puntualmente elencate dall’art. 7 del d.p.r. n. 62 del 2013) – che siano comunque idonee a determinare il rischio di condizionamenti dell’interesse privato sulle scelte pubbliche.

Tali ipotesi, non definite dalla legge, ma qualificate teleologicamente, sono sostanzialmente identificabili con le “gravi ragioni di convenienza”, contemplate dall’art. 7, ultimo periodo, del d.p.r. n. 62 del 2013, e dall’art. 51 c.p.c.

Per il medesimo Giudice, nella categoria dei “conflitti potenziali” sarebbero, inoltre, annoverabili le posizioni e le relazioni soggettive che, seppur passate, esaurite o non più attuali, siano comunque in grado di influire ancora sull’operato del funzionario e di provocare interferenze indebite nell’attività amministrativa. Si pensi ad una pregressa frequentazione abituale o ad un precedente rapporto di lavoro/collaborazione.

Nel parere in esame il Consiglio di Stato giunge, quindi, alla conclusione che «la qualificazione ‘potenziale’ e le ‘gravi ragioni di convenienza’ sono espressioni equivalenti, perché teleologicamente preordinate a contemplare i tipi di rapporto destinati, secondo l’id quod plerumque accidit, a risolversi (potenzialmente) nel conflitto per la loro identità o prossimità alle situazioni tipizzate».

Più recentemente il Consiglio di Stato, Sez II, 10 settembre 2020 n. 5423, nell’affermare che l’amministratore pubblico deve sostanzialmente astenersi al minimo sentore di conflitto di interessi, testualmente recita: “l’obbligo di astensione, tipizzato dall’art. 51 c.p.c., rappresenta un corollario del principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., di cui assume portata generale, sicché le ipotesi di astensione obbligatoria non sono tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha carattere immediatamente e direttamente precettivo. L’obbligo di astensione rinviene la sua ragione giustificativa nel pieno rispetto del principio costituzionale del buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione, posto a tutela del prestigio della pubblica amministrazione e che non tollera alcun tipo di compressione” (Consiglio di Stato, Sez. II, 21 ottobre 2019 n. 7113; Sez. II, 9 marzo 2020, n. 1654).

E’ significativo che la “Guida pratica per i dirigenti – Individuazione dei conflitti di interessi nelle procedure d’appalto nel quadro delle azioni strutturali” elaborata da un gruppo di esperti degli Stati membri dell’Unione Europea con il coordinamento dell’unità dell’OLAF “Prevenzione delle frodi” affermi che “I conflitti di interessi e la corruzione non sono la stessa cosa. La corruzione prevede solitamente un accordo tra almeno due partner e una tangente/un pagamento/un vantaggio di qualche tipo. Un conflitto di interessi sorge quando una persona potrebbe avere l’opportunità di anteporre i propri interessi privati ai propri obblighi professionali.” 

Il Consiglio di Stato ha richiamato più volte la non necessaria coincidenza tra conflitto e corruzione, affermando che “Quanto all’interesse rilevante per l’insorgenza del conflitto, la norma … va intesa come operante indipendentemente dal concretizzarsi di un vantaggio”. (Cons. Stato, Sez. V, 11 luglio 2017, n. 3415; Cons. Stato, Sez. V, 14 maggio 2018, n. 2853; Sez. III, 2 aprile 2014, n. 1577). 

In definitiva, con la novella introdotta nella legge n. 241/1990 ad opera della legge n. 190/2012, il legislatore ha voluto evitare che potesse sorgere negli amministrati il semplice sospetto di una eventuale influenza sull’agire dell’autorità procedente di interessi personali riferibili a organi coinvolti nella formazione della decisione autoritativa. Tale situazione di pericolo è giudicata, infatti, di per sé capace di minare, oltre che l’imparzialità, anche l’immagine della pubblica amministrazione (con tutto ciò che ne deriva anche in termini di danno erariale), la credibilità della stessa e, in ultima analisi, l’affidamento dei cittadini sul comportamento imparziale dei pubblici apparati. Per questi motivi la norma ha generalizzato il dovere di astensione, imponendolo anche per i motivi meno gravi (ovvero per le ipotesi di conflitto meramente teorico, indiretto o addirittura solo apparente).

Il conflitto di interessi non consiste, o non dovrebbe consistere, quindi in comportamenti concretamente dannosi per l’interesse pubblico, ma in una condizione giuridica o di fatto dalla quale scaturisce un rischio di danno. L’essere in conflitto e abusare effettivamente della propria posizione sono due aspetti distinti. Tutto ciò deriva dal principio generale dell’imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. che, si ribadisce, è “posto a tutela del prestigio della pubblica amministrazione e che non tollera alcun tipo di compressione (Consiglio di Stato, Sez. II, 21 ottobre 2019 n. 7113; Sez. II, 9 marzo 2020, n. 1654)”.

In questo senso lascia ancora più perplessi quindi l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, anch’esso rientrante in numerosi richiami in termini di corruzione e trasparenza della Pubblica Amministrazione.

D’altro canto se la norma e la giurisprudenza superiore che abbiamo esaminato fanno esplicito riferimento alla materia concorsuale, appare evidente che i medesimi principi debbano essere estesi – per coerenza sistemica costituzionalmente orientata – all’intero agire della pubblica Amministrazione, ad esempio in sede di nomina dei consulenti esterni, nella nomina delle commissioni concorsuali, nella nomina delle commissioni di valutazione.

Appare infatti sin troppo semplice eludere la norma di fatto: nominando un sostituto formale ed incidendo sul procedimento ugualmente.

Sarebbe molto semplice in concreto risolvere il problema, creando ad esempio un elenco di commissari esterni (non per nomina ma per requisiti), verificare quindi ex ante la mancanza di conflitti di interessi, e lasciare ad una estrazione cieca i nomi tratti da questo elenco per comporre ex post una qualsiasi commissione, tanto concorsuale quanto di valutazione.

Ciò ridurrebbe enormemente non solo i conflitti di interessi (è poco prevedibile chi farà parte di una commissione tra un anno, se i dieci nomi, per esempio, sono estratti casualmente da un elenco di trecento) ed al contempo la corruzione, darebbe ex ante e in maniera rafforzata l’immagine – oltre alla sostanza – di una PA trasparente ed efficiente, e limiterebbe l’ingerenza politica, anche solo teorica.


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