
I presupposti applicativi per un legittimo esercizio del diritto di critica e cronaca come scriminanti del reato di diffamazione
In assenza di una disciplina normativa che definisca un bilanciamento tra l’onore in senso oggettivo (reputazione), tutelato attraverso la fattispecie incriminatrice della diffamazione, e la libertà di manifestazione del pensiero, i Giudici sono chiamati a stabilire i presupposti e i confini entro il quale l’esercizio del diritto di critica e cronaca possano dirsi legittimi senza scadere in una offesa alla reputazione altrui penalmente rilevante. Si evidenzia che i limiti dettati dalla giurisprudenza sono “mobili” poiché dipendono dal contesto storico, sociale e culturale del periodo di riferimento in quanto il linguaggio si evolve e muta nel tempo, in particolare mutano i significati che l’opinione comune attribuisce a determinati gesti, parole o comportamenti.
La valutazione da parte dell’interprete circa l’applicabilità di una causa di giustificazione è un’operazione successiva rispetto all’accertamento degli elementi costitutivi del reato ex art. 595 c.p., per cui il Giudice prima accerta che il reato si configuri in tutti i suoi elementi e poi valuta se è presente una norma nell’Ordinamento Giuridico che facoltizza quel comportamento. In conclusione, solo dopo aver valutato che il contenuto diffuso o espresso sia oggettivamente offensivo si valuterà se tale condotta rientra nella scriminante della critica o della cronaca.
I presupposti che devono sussistere affinché si possa ritenere legittimo l’esercizio del diritto di critica e cronaca sono la verità, la continenza formale e l’interesse pubblico. Tali condizioni trovano una diversa applicazione a seconda che si tratti del diritto di cronaca o critica. Ad esempio, nel diritto di cronaca il requisito della verità deve essere presente con un’intensità maggiore rispetto al diritto di critica.
Il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta e strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione “che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ritenendosi superato in presenza dell’utilizzo di termini che non abbiano, alla luce del complessivo contesto in cui i medesimi vengano utilizzati, significato di mero giudizio critico negativo”(1).
La giurisprudenza di legittimità ha altresì specificato che nel caso di critica politica, ma vale anche per altre tematiche di varia natura, le offese che trasmodino in degli attacchi gratuiti alla persona a cui si riferiscono, a mancare non è solo il requisito della continenza formale (opinione espressa in una forma civile) ma viene meno anche lo stesso pubblico interesse, poiché non c’è interesse a venire a conoscenza di insulti gratuitamente offensivi senza che tali espressioni siano finalizzati ad esprimere una certa critica su determinati comportamenti o fatti(2).
La giurisprudenza ha avuto modo nel corso del tempo di affinare e chiarire la portata di tali presupposti elaborati attraverso la risoluzione di casi concreti.
L’oscillazione da orientamenti più stringenti a tutela della reputazione a orientamenti più estensivi a tutela della libertà di espressione, cui la giurisprudenza di legittimità è giunta nel corso del tempo, ci deve far comprendere la complessità e difficoltà di definire un equilibrio tra la tutela dell’onore e la libertà di espressione del pensiero.
Ad oggi in dottrina c’è chi sostiene che la giurisprudenza tende a realizzare una commistione tra il momento di accertamento degli elementi costitutivi del reato e il momento di accertamento dell’applicabilità della scriminante, ma tali momenti dovrebbero essere tenuti distinti(3).
Altri ritengono che la verità, la continenza e l’interesse pubblico non dovrebbero essere qualificati come presupposti applicativi delle cause scriminanti ma dovrebbero essere ricondotti negli elementi costitutivi della fattispecie del reato di diffamazione(4). Secondo tale posizione non esiste un’unica diffamazione, ma la diffamazione è rappresentata da tante dimensioni quanti sono i bilanciamenti-risultato a seconda dei settori in cui essa si verifica, ad esempio ci sarà un bilanciamento-risultato in caso di diritto di critica politica e tutela della reputazione o in caso di cronaca e tutela della reputazione ecc.
Questi diversi bilanciamenti-risultato che realizzano una tutela differente della reputazione a seconda del settore (critica politica, critica sindacale, satira ecc.) sono equilibri determinati a livello giurisprudenziale giacché non esiste un bilanciamento normativo effettuato dal legislatore e cristallizzato nella norma(5), anche perché la tipicità del reato di diffamazione non è una tipicità fissa e statica ma mobile e dinamica. L’art. 595 c.p. pur essendo una norma di dettaglio finisce per atteggiarsi come una norma di principio. E’ chiaro che la norma è posta a tutela del bene giuridico dell’onore in senso oggettivo ma non è chiaro quale sia il livello di intensità della tutela(6); secondo tale orientamento dalla fattispecie incriminatrice non sono desumibili né le forme né i limiti entro cui tale bene giuridico viene tutelato, pertanto, di fatto è il Giudice che in sede interpretativa attraverso il bilanciamento tra interessi contrapposti determina un equilibrio che a sua volta stabilisce il livello di tutela del bene giuridico dell’onore.
1. Sentenza Corte di Cassazione, sez. V, 24/06/2016 n.37393
2. Sentenza Corte di Cassazione, sez. V, del 23 giugno 2010, n.37220
3. F. VERRI V. CARDONE, 2007, pp.21-22
4. A. TESAURO, Il bilanciamento nella struttura della diffamazione tra teoria del reato e teoria dell’argomentazione giudiziale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, fasc.4, 2004, pag. 1083
5. Ibidem
6. Ibidem
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