Err…orr…ori… di diritto penale
Tra le espressioni più abusate nel linguaggio quotidiano c’è il famigerato “reato penale”, un ossimoro travestito da formula ufficiale, un’illusione semantica che fa sorridere chiunque abbia anche solo sfogliato un codice: i reati sono, per definizione, penali.
Non esistono reati civili, né amministrativi, eppure l’aggettivo “penale” continua ad apparire come una specie di timbro intimidatorio, come se bastasse la ripetizione per rendere tutto più grave.
Ma questo è solo l’inizio di una lunga teoria di fraintendimenti che infestano la percezione pubblica del diritto penale, e che alimentano una narrazione distorta dove il garantismo è visto come furbizia, la precisione come cavillosità, e la legge come una zavorra di ostacoli tecnici al trionfo dell’“ovvia” verità.
Si continua a credere che l’arresto equivalga alla colpevolezza, come se la custodia cautelare fosse una sorta di pre-condanna anticipata, e non invece un provvedimento eccezionale, disciplinato da presupposti rigorosissimi, pensato per tutelare esigenze processuali e non certo per soddisfare il bisogno sociale di vedere qualcuno “pagare subito”. E non importa quante volte l’articolo 27 della Costituzione ribadisca la presunzione d’innocenza: se l’arresto avviene, per l’opinione pubblica il processo è superfluo, l’imputato è già colpevole e l’avvocato che lo difende, ovviamente, “complice”.
Poi c’è la credenza che tutto ciò che esce dalla bocca della Cassazione abbia valore di legge: altro errore. Viviamo in un sistema di civil law, non di common law, e sebbene i precedenti giurisprudenziali abbiano un peso, la legge resta scritta, e il giudice non è vincolato a replicare automaticamente ciò che la Suprema Corte ha affermato in altri casi. Le sentenze orientano, non legiferano. Ma guai a spiegarlo a chi, leggendo “lo dice la Cassazione”, scambia una pronuncia per una norma.
E che dire dell’immortale “assolto per cavilli”? Dove i “cavilli” sono, di volta in volta, regole sul contraddittorio, sull’onere della prova, sull’utilizzabilità degli atti, sulla nullità delle notifiche: in sostanza, il cuore del giusto processo, che si liquida con disinvoltura come ostacolo tecnico per “farla franca”. Eppure quei cavilli sono garanzie costituzionali, non trucchetti di prestigiatori del foro.
Ancora oggi resiste l’idea che la confessione sia la regina delle prove, come se fossimo in un processo inquisitorio, e ci si dimentica che l’ordinamento impone la necessità di riscontri, di verifiche, di logica probatoria, perché le confessioni possono essere sbagliate, forzate, manipolate o addirittura frutto di suggestione. Ma l’eco mediatica della “confessione shock” resta irresistibile, soprattutto se registrata con tanto di intercettazione, altro totem contemporaneo, spesso assunto come verità assoluta e incontestabile, come se bastasse una voce fuori campo per distruggere l’impianto delle garanzie.
Le intercettazioni, invece, sono prove come tutte le altre: soggette a regole, a limiti, a contestazioni, e non sono né verità rivelata né giustizia divina in formato audio.
Allo stesso modo, la prescrizione viene trattata come una scappatoia, una furbata degli avvocati, ignorando che è una garanzia di civiltà giuridica, concepita per evitare che il tempo trasformi l’accertamento in tortura, che l’oblio sostituisca la prova, e che lo Stato dimentichi il dovere di processare in tempi ragionevoli. Ma questa distinzione non fa audience, e si preferisce evocare l’immagine del colpevole che scappa grazie a un cavillo, o a un giudice indulgente, o – peggio – a un avvocato troppo bravo.
L’ergastolo, infine, viene raccontato come una pena illusoria, che “tanto dopo vent’anni si esce”, come se la pena non avesse più significato, eppure basterebbe leggere le condizioni dell’ergastolo ostativo, e le reali percentuali di accesso ai benefici, per capire che dietro questa leggenda urbana si nasconde solo mancata conoscenza e voglia di vendetta.
Il punto è che il diritto penale non è uno strumento di punizione rapida, né un teatro morale, né un’arma simbolica per rassicurare i cittadini: è un sistema tecnico, complesso, fondato su regole formali che non sono orpelli, ma strumenti di controllo del potere. Il diritto penale non si piega al “sentimento popolare”, non deve accontentare la pancia del Paese, e non funziona per slogan.
È fatto di proporzione, tipicità, tassatività, presunzione d’innocenza, prova al di là di ogni ragionevole dubbio, e se tutto questo appare eccessivo a chi vorrebbe “giustizia rapida”, allora forse non ha ancora capito che giustizia rapida è quasi sempre sinonimo di ingiustizia certa.
Chi lavora ogni giorno in questa materia sa bene che dietro ogni errore linguistico si nasconde un fraintendimento giuridico, e dietro ogni fraintendimento, un rischio per le libertà fondamentali. E allora vale la pena ripeterlo con calma, con ironia e con fermezza: nel diritto penale, le parole non sono mai solo parole. Sono garanzie. E chi le sbaglia, spesso, non sbaglia solo il linguaggio. Sbaglia il bersaglio.
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Valentina Mellino
Valentina Mellino, avvocato penalista.
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