La verità processuale ed i suoi “limiti” (sul diritto al confronto tra accusato e accusatore)

La verità processuale ed i suoi “limiti” (sul diritto al confronto tra accusato e accusatore)

Sommario: 1. Introduzione: Quid est veritas? – 2. Il ripristino del fatto storico nel processo: impossibilità ontologica – 3. La verità storica e la verità processuale – 4. L’oltre ogni ragionevole dubbio – 5. Dal modello inquisitorio a quello accusatorio “temperato” – 6. La riforma costituzionale dell’art. 111 Cost.

 

1. Introduzione: Quid est veritas?

Il diritto al confronto fra accusatore e accusato possiamo considerarlo come una delle più rilevanti innovazioni del nuovo codice di procedura processuale (ormai sarebbe anacronistico definirlo ancora nuovo, dato che sono passati più di 30 anni).

Questo istituto lo possiamo identificare come quell’insieme di regole con le quali le parti possono formulare domande direttamente alla persona esaminata.

Sicuramente frutto dell’influenza americana, il diritto al confronto permette la possibilità per le parti, accusato e accusatore, di potersi confrontare face to face all’interno del processo penale.

In Italia, il diritto al confronto è stato introdotto il 22 settembre 1988 ed ha seguito le orme dell’ormai storico modus operandi giudiziario nel sistema Americano. Letteralmente, il termine “cross-examination” non significa esame incrociato, ma controesame, che è sicuramente parte integrante dell’esame incrociato. Indipendentemente da questo, comunque si suole utilizzare tale termine per descrivere tutto l’apparato strutturale che disciplina il principio del contradditorio.

Rispetto al modello angloamericano, possono essere riprodotte solo alcune regole. Infatti, nel sistema americano, le domande vengono poste anche dal giudice che interagisce in maniera diretta e partecipativa. Ciò, però, non avviene nel sistema italiano, in cui il giudice ha “solo” la funzione di analizzare la pertinenza delle domande e delle risposte, secondo quanto previsto dall’art. 499, comma 6. [1]

Già questo può essere uno spunto per identificare i limiti posti in essere da tale sistema. Il giudice, è primus inter pares, è colui che giudica in maniera imparziale e indiscriminata. Primus in quanto, all’interno di una scala gerarchica di potere, occupa il primo posto: infatti possiede pieno potere decisionale senza che vi sia nessun tipo di influenza.

È primo, ma fra le parti: in quanto tale, proprio per questo, dovrebbe avere anche il potere di interagire fra le parti soprattutto in questa delicata fase del processo, ossia il dibattimento. L’interazione con il giudice potrebbe anche servire per rendere chiare alcune dinamiche e delineare alcuni aspetti confusi della vicenda.

Le fasi dell’esame incrociato lo possiamo distinguere in tre categorie:

  1. Esame diretto: in questa prima fase, l’avvocato si adopera per ottenere informazioni dai testimoni chiamati a esporre ciò di cui ne è a conoscenza. Ovviamente chi avvia l’esame diretto è quell’avvocato che ha già informato preventivamente il testimone (da lui chiamato) delle domande che gli verranno fatte. Nel caso in cui, infatti, i testimoni verranno chiamati dalla controparte, allora l’avvocato potrà intervenire per il controesame e non più per l’esame diretto. La ratio è semplice: lo scopo è quello di ottenere più informazioni possibili a suo vantaggio, che potranno essere utili per avvalorare la tesi del proprio assistito.

  2. Controesame: come già accennato in precedenza, il controesame è condotto dalla parte che ha un interesse contrario a quella che ha chiesto l’esame del testimone (o altro dichiarante). Sicuramente questa fase è molto più delicata, rispetto a quanto descritto in precedenza: l’avvocato della controparte non conoscerà le domande del collega e si ritroverà quindi “impreparato”. Ecco perché questa fase è eventuale. L’avvocato potrà anche decidere di non fare domande. Questo perché? Perché, nolente o dolente, il ruolo dell’avvocato e il suo lavoro di difesa altro non è che una previa approfondita preparazione. L’avvocato non può arrivare sprovveduto in udienza, ma dovrà essere pronto ad affrontare ogni ostacolo, e per farlo è fondamentale uno studio approfondito sul caso, cercando di analizzare i punti a favore e insistere su quelli. Dinanzi a domande che non conosce, quindi, può decidere di non controbattere. Nulla però è perduto: il controesame può essere anche un vantaggio per l’avvocato della controparte. Perché? Beh sicuramente le giuste domande possono aiutare a mettere in dubbio la credibilità del testimone. L’art. 194, comma 2 esplica che il controesame sulla credibilità tende a far dichiarare al testimone fatti che dimostrano la non credibilità di quest’ultimo. La ratio è quello di far cadere in contraddizione il testimone, di far dichiarare un qualcosa di diverso rispetto a quanto detto nell’esame diretto, di ottenere una spiegazione alternativa o far ammettere fatti a contraddizione dell’esame diretto. Una tecnica sicuramente efficace, quanto complessa. È nella capacità dell’avvocato a saper entrare a gamba tesa e a captare al meglio i punti di debolezza dell’altra parte e intervenire con intuito e lucidità. La capacità di trarre in inganno è ingannare la controparte è alla base del principio per la quale resistere alle suggestioni garantisce la realizzazione di prove più accreditate. Diciamolo subito. Il controesame è inutile e dannoso. È inutile quando il difensore, nella maggior parte dei casi, non sapendo a cosa appigliarsi, si limita a far ripercorrere il contenuto dell’esame, sperando che possa esserci qualcosa da poter sfruttare e, sostanzialmente, facendo “sprecare” tempo processuale. È dannoso quando la controparte vuole sfruttare la situazione concernente la portata offensiva dell’espressione utilizzata dal proprio assistito.[2] Gli errori dell’avvocato possono essere tanti. Non sono stati pochi i casi in cui il difensore abbia fatto domande “a risposta multipla”, completamente dannosi in quanto non si riesce a delineare in maniera chiara e precisa la risposta favorevole. Non sono stati neanche pochi i casi in cui il difensore abbia chiesto al testimone una propria interpretazione sulle percezioni della vittima, o di chiarire eventuali contraddizioni. Il difensore non deve chiedere spiegazioni, ma trarre vantaggio da ciò che la contraddizione può produrre. Ovviamente ci sono dei casi in cui può essere utile, come abbiamo detto in precedenza: far cadere in contraddizione il testimone, far dichiarare un qualcosa di diverso rispetto a quanto detto nell’esame diretto, ottenere una spiegazione alternativa o far ammettere fatti a contraddizione dell’esame diretto.

  1. Infine, l’ultima fase è il riesame. Come la chiusura di un cerchio, il riesame è condotto dalla stessa persona che ha avviato l’esame diretto. Ma a che pro? Sicuramente a “riprendere” la situazione a suo favore, recuperando la “sequenza” dei fatti, dopo che il controesame ha cercato di ostacolare la loro esistenza. Può anche servire per spiegare come mai il testimone è caduto in contraddizione.

Quando l’avvocato del querelante ha finito di interrogare un testimone, l’avvocato dell’imputato può controinterrogarlo. Il controinterrogatorio è generalmente limitato alle domande su questioni sollevate durante l’esame diretto. Le domande guida possono essere poste durante il controinterrogatorio, poiché lo scopo di quest’ultimo è quello di testare la credibilità delle dichiarazioni rese durante l’esame diretto. Un’altra ragione per consentire le domande guida è che il testimone è di solito interrogato dall’avvocato che non l’ha chiamato originariamente, quindi è probabile che il testimone si opponga a qualsiasi suggerimento che non sia vero. Quando un avvocato chiama un testimone avverso o ostile (un testimone il cui rapporto con il cliente dell’avvocato è tale che la sua testimonianza potrebbe essere pregiudizievole) all’esame diretto, l’avvocato può porre domande guida come nel controinterrogatorio.

Nel controinterrogatorio, l’avvocato può cercare di mettere in dubbio la capacità del testimone di identificare o ricordare o cercare di mettere in dubbio il testimone o le prove. In questo senso, impeachment significa mettere in dubbio o ridurre la credibilità del testimone o della prova. L’avvocato potrebbe cercare di dimostrare un pregiudizio o un’inclinazione del testimone, ad esempio la sua parentela o amicizia con una delle parti o il suo interesse per l’esito del caso. Ai testimoni può essere chiesto se sono stati condannati per un reato o per un crimine che implica turpitudine morale (disonestà), poiché ciò è rilevante per la loro credibilità.

L’avvocato della controparte può opporsi a determinate domande poste in controesame se queste violano le leggi dello Stato in materia di prove o se si riferiscono a questioni non discusse durante l’esame diretto.

Analizziamo il diritto al confronto perché è la base per ottenere il tema della verità processuale. Ma si riesce appieno ad ottenere tale obiettivo? Il diritto a confronto soggiace a tale scopo o è ampiamente lacunoso?

Nel processo penale, a differenza di quello civile, si opera “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ciò significa che qualsiasi dubbio, qualsiasi perplessità a favore dell’imputato, non porterà a condannarlo. Nel processo civile parliamo attraverso la locuzione “più probabile che no”, in quanto non si opera con certezza di prova, ma con più prove a favore che contro.

Nel processo penale prevale la verità processuale che, come vedremo successivamente in maniera più approfondita, tende ad ottenere una verità limitata, accertabile al caso concreto. Seppur giurisprudenza contraria ha constatato come la verità processuale non può essere sempre certa, quanto piuttosto approssimativa (si veda, ad esempio la sentenza della Cassazione penale, quinta sezione, 25 giugno 1996),  la verità è una e come tale deve essere ricostruita nell’ambito del processo penale e deve essere certa: tutte le discrasie che possono rinvenirsi nel corso dell’istruttoria dibattimentale sono evenienze processuali cui rimediare con le regole decisorie proprie del processo penale.

2. Il ripristino del fatto storico nel processo: impossibilità ontologica

Il quantum della pena si distingue fra processo civile e penale. Nel processo civile prevale la regola del “più probabile che no”. L’attore deve convincere il giudice attraverso una ricostruzione che appaia più probabile rispetto ad ogni ipotesi contraria (secondo quanto previsto dall’art. 2697 comma 1 c.c.). Nel caso in cui le prove siano insufficienti o, addirittura, contraddittori, i giudici non ne terranno conto e rigetteranno la domanda. Idem nel caso in cui sia il convenuto ad intervenire per provare la propria innocenza.

Nel processo penale, invece, chi accusa ha il dovere di provare “oltre ogni ragionevole dubbio” i fatti in causa. Con la legge n. 46 del 2006, il Parlamento ha modificato il comma 1 dell’art. 533 stabilendo che il giudice deve pronunciare la sentenza senza che vi siano possibili dubbi sulla storicità dei fatti.

La ratio sulla differenza fra i due processi, è facilmente intuibile. Il processo civile non ha lo stesso peso rispetto a quello penale: sicuramente le pene sono quantitativamente diverse. Non solo. Una sentenza penale ha degli effetti maggiori sulla vita di un condannato piuttosto ad una sentenza civile. Un processo civile sicuramente non implicherebbe una pena inflittiva come il carcere, ma “al massimo” una sanzione pecuniaria. Per quanto possa essere invasiva una sanzione pecuniaria, non potrà mai equiparare gli effetti di una sanzione penale.

Ecco perché è fondamentale la certezza delle prove, oltre ogni ragionevole dubbio, in modo tale che una pena così invasiva possa essere frutto di una certezza probatoria.

Ma si riesce, con certezza, a ricostruire il fatto storico nel processo?

Negli ultimi anni, i riferimenti allo standard del ragionevole dubbio si susseguono ininterrotti. Tra di essi merita una menzione particolare uno studio di Alessandro Malinverni in materia di assoluzione per insufficienza di prove, in cui, nuovamente, si propone la codificazione di tale criterio.[3]

Il principio del libero convincimento, ricorda Malinverni, non elimina la necessità che la decisione sia motivata in modo razionale, anche in ordine alla esistenza e al valore delle prove raccolte. La razionalità della motivazione è un requisito essenziale della decisione: «dunque il “dubbio”, anche se rimane un fatto psichico proprio del giudice, deve avere fondamento oggettivo. La formula “in dubio pro reo” deve essere integrata mediante la definizione oggettiva del dubbio stesso. La qualificazione di esso come “ragionevole” attribuisce questo carattere oggettivo al dubbio».

Il percorso giurisprudenziale in merito a tale standard è stato lungo e complesso. Senza dilungarsi molto sull’analisi di tale evoluzione, è d’uopo ricordare che il ragionevole dubbio fa la sua comparsa nella giurisprudenza della Cassazione negli anni ’70.[4]

Peraltro, va osservato che gli istituti del processo penale con riferimento ai quali viene più spesso utilizzata la formula nel periodo del garantismo inquisitorio sono la prova indiziaria e l’assoluzione per insufficienza di prove: gli stessi ambiti in cui, in altre pronunce, compare ancora il riferimento alla certezza morale. In particolare, per quanto qui rileva, è opportuno ricordare che, già negli anni ’80 alcune decisioni attribuiscono allo standard un significato specifico, affermando che un dubbio ragionevole sia identificabile con un’“indeterminatezza probatoria” e non con mere congetture psicologiche.

Così, in una sentenza del 1981, prima si sostiene che il giudizio di responsabilità dell’imputato fondato su indizi «non deve avere contro di sé alcun ragionevole dubbio», e poco dopo si afferma che la tesi formulata dai giudici di primo grado non può valere, in quanto «tale ipotesi […] si rivela una mera congettura, fondata su motivi di dubbio che, in quanto riflettono un fatto psicologico del giudice e non già l’obiettiva incertezza delle prove processuali, non sono ragionevoli nel senso indicato». [5]

Ancora, in una decisione del 1984, si afferma che è legittima l’applicazione della formula dubitativa di assoluzione quando le prove consentano plurime interpretazioni ovvero quando «vi siano elementi di prova a favore o contro l’imputato in modo che nessuno dei due tipi [riesca] a sopravanzare né ad elidere quello avverso, così ingenerando nel giudice un ragionevole dubbio fondato non su supposizioni meramente soggettive, bensì su obiettivi e logici fattori processuali».[6]

A seguito dell’adozione del codice Vassalli le pronunce nelle quali compare la formula aumentano esponenzialmente, anche se lo stesso non viene inizialmente codificato in alcuna disposizione. Oltretutto, in tale percorso giocano un ruolo importante i lavori dei primi anni 2000 di Federico Stella, che insiste fortemente sulla necessità di applicare in Italia lo standard del ragionevole dubbio, sostenendo – insieme a un nutrito gruppo di studiosi – che lo stesso fosse già ricavabile dalla normativa vigente.

La vera svolta, però, è comunque riferibile alla sentenza Franzese delle Sezioni Unite della Cassazione. Dopo la sentenza Franzese, il numero delle decisioni in cui compare lo standard aumenta ulteriormente, sino a quando il legislatore, prendendo atto del diritto vivente, con l’art. 5 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, decide di novellare il primo comma dell’art. 533 c.p.p. e di prevedere espressamente che «il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole […] al di là di ogni ragionevole dubbio».[7]

Ricostruire i fatti certi in processo è la base del principio di ogni ragionevole dubbio, ma ciò non può essere fattibile, anzi. Possiamo anche dire che è impossibile.

Già la terminologia è incerta: i termini “dubbio” “ragionevolezza” sono ambigui e controversi. Quando utilizziamo il vocabolo “dubbio”, ad esempio, possiamo intendere:

  1. una opinione o credenza incerta, ossia non sufficientemente determinata;

  2. mancanza di motivi per credere ad un determinato fatto non compatibile.

Il principio, inoltre, non stabilisce un criterio preciso della valutazione della prova. Rimane comunque diffusa l’idea che quando si parla di certezza di ricostruzione di fatti attraverso prove, si parla di quantificazioni in termini percentuali. La quantificazione più comune è in misura superiore al 95%. Ma anche tale quantificazione è arbitraria, in quanto il “grado di tolleranza dell’errore” è un elemento che andrebbe riscontrato nella coscienza sociale, ma che non ha nulla a che vedere con la valutazione delle prove nei singoli casi particolari.

La certezza dei fatti potrebbe essere ottenuta attraverso le frequenze statistiche, ma neanche questo può essere fattibile per due motivi:

  1. non sempre esistono, anzi nella maggior parte dei casi non accade;

  2. le frequenze statistiche servono a fare previsioni, ma non servono a determinare la probabilità che un evento non noto si sia già verificato. La percentuale costituisce la frequenza tendenziale di un evento, ma non corrisponde al grado di prova circa il verificarsi di quell’evento.

Sicuramente le nuove tecnologie hanno (e ancora sono in continua evoluzione) influito sull’ausilio della ricerca di prove. Se non vi fossero state le videoriprese, i tabulati telefonici, l’analisi del DNA, le intercettazioni, molti colpevoli sarebbero ancora a piede libero.

Le nuove tecnologie sono state anche criticate per invasione della sfera privata sia del reo che dei familiari e amici ad esso riconducibili: la questione, a mio parere, non deve neanche essere ad oggetto di discussione. La verità al di sopra di tutto, anche se questo potrebbe invadere la privacy altrui o addirittura potrebbe provocare comportamenti fraudolenti da parte della polizia di Stato.

Un esempio recente è stato l’abuso di utilizzo dei virus trojan. Il virus trojan (o trojan horse) consiste in un file malevolo che ha lo scopo di impossessarsi delle informazioni dei dispositivi altrui. La polizia ovviamente lo utilizza per avere maggiori prove sul reo. La recente sentenza
della Cassazione Penale Sez. IV, del 24 settembre 2020, n. 32428 l’ha considerato come un metodo diverso di intercettazione e si è fermamente opposto nel ritenere tale strumento un metodo invasivo e incontrollabile sul rispetto della libertà domiciliare. Sentenza più che conforme ai nostri tempi, il cui unico scopo è quello di trovare strumenti sempre più precisi che servano per la ricerca di prove.

Alcuni autori hanno criticato tale scelta della Corte.[8] A mio parere, invece, doveva essere l’unica soluzione possibile per garantire lo svolgimento di un lavoro di ricerca (seppur effettivamente un po’ invasivo) che potesse però garantire certezza di prove. Ricordiamo che la difesa, nella maggior parte dei casi (dato che ci troviamo all’interno di un processo penale) consiste in una vittima che sperare solo nella giustizia e che i suoi diritti siano rispettati.

Anche la Banca Dati nazionale del DNA, introdotta con la legge n. 85 del 2009, ha contribuito ad una concertazione maggiore di prove. Consiste, sostanzialmente, nella raccolta del DNA dei criminali per identificarli più facilmente o per essere strumento di comparazione.

Di conseguenza, le banche dati del DNA contenenti un numero crescente di profili genetici di sospetti criminali costituiscono “centri di calcolo” la cui installazione segna la crescente estensione e intensità della sorveglianza burocratica nella società contemporanea – come uno dei molteplici modi in cui le moderne forme di governo cercano e usano la conoscenza dei loro cittadini in generale e dei “cittadini sospetti” in particolare.

In questo caso, i profili del DNA, archiviati come conoscenze apparentemente solide e resistenti su tali cittadini, sono caratterizzati come parte di un apparato di bio-sorveglianza a cui possono essere sottoposti i residui materiali della condotta criminale passata, presente e potenzialmente futura della persona profilata.

L’incorporazione della conoscenza genetica in tali tecniche di sorveglianza è semplicemente un modo utile per garantire maggiore controllo del crimine e il complesso di controllo avviene attraverso la raccolta di dati sul DNA come parte di un’infrastruttura tecnologicamente facilitata di raccolta di informazioni finalizzata all’individuazione efficace, alla riduzione del crimine e alla gestione del rischio.

Da qui potrebbero avviarsi delle riflessioni. Se effettivamente l’archivio di dati genetici può essere utile a garantire una più certa identificazione del reato, perché non farlo per ogni cittadino? Una soluzione che potrebbe essere salvifica per il sistema giudiziario penale. In un mondo utopico, infatti, sarebbe altrettanto giusto raccogliere informazioni genetiche di tutti per maggiore certezza delle prove. In questo modo sicuramente si potrebbe parlare di un concreto aiuto alla certezza della ricostruzione dei fatti. Questo però potrebbe intaccare l’autoderminazione della libertà dei cittadini, anche se, a mio parere, potrebbe invece essere una concreta ed efficace svolta.

Negli ultimi anni, il progresso tecnologico ha cercato in tutti i modi di garantire la certezza della ricostruzione dei fatti (invano). Si è parlato, per la prima volta, di neuroscienza forense, che si occupa di studiare in che modo variazioni anatomiche o fisiologiche all’interno del cervello possano influenzare il comportamento.

I pilastri del processo penale li possiamo così sintetizzare:

a) il libero convincimento del giudice, da cui deriva il principio anacronistico dello iudex peritus peritorum;

b) la parità di armi tra accusa e difesa, che è l’elemento cardine di un processo fra parti;

c) la c.d. asimmetria probatoria: l’accusa vince se supera la soglia altissima dell’al di là di ogni ragionevole dubbio; la difesa vince se supera la bassa soglia del dubbio ragionevole (per una rappresentazione numerica: la prima soglia si colloca oltre il 95% di probabilità, per la seconda basta raggiungere il 5%);

d) la centralità della prova dichiarativa (cioè della confessione o del teste che ha visto o ha sentito o ha parlato ed è stato intercettato).

Le neuroscienze sono rilevanti in quanto contribuiscono a garantire maggiore certezza giuridica, con dati sempre più oggettivi rispetto al mero parere clinico a sostegno della costruzione della sua decisione nel rispetto del principio del libero convincimento del giudice.

Tuttavia, giurisprudenza autorevole ammette opinione contraria, ossia che le neuroscienze non siano un aiuto per il giudice, anzi in alcuni casi può trarre maggiormente dubbi. Senza contare che le neuroscienze possono essere esposte a distorsioni.

Le decisioni di un giudice non si possono ritenere immuni dal condizionamento prodotto dall’«arricchimento neuro» delle informazioni utilizzate per decidere, anche se quell’arricchimento fosse del tutto irrilevante.

Tale condizionamento potrebbe essere anche la conseguenza di una “ignoranza”, intesa come mancanza di conoscenza del sapere scientifico. Si sa, ad ognuno la sua competenza. Ecco perché il giudice, dinanzi alle nuove evolute forme di “neuroimaging cerebrali” potrebbe perdersi o addirittura confondersi. Ciò che si pensava essere il percorso più sicura per ricostruire con certezza i fatti, in realtà si dimostra ancora più confusionario. Non riesce a governare una materia troppo specialistica e ciò è del tutto comprensibile.

Le neuroscienze hanno portato a determinare la realizzazione di figure (non ancora pienamente presenti in Italia, quanto piuttosto nel Regno Unito) dell’expert witness. Noi potremmo identificarlo come il nostro perito. In realtà, le neuroscienze aggiungono un tassello in più in quanto è una figura considerata come il giudice esperta a scoprire l’errore.

Il giudice tradizionale è addestrato a scovare il dolo, ma trascura, nella maggior parte dei casi, la scoperta dell’errore. In futuro si prevedono tecniche sempre più precise che mirano a rintracciare gli eventi nella memoria immagazzinati nel del teste e dell’imputato. La prospettiva futura (si spera, anche se ad oggi sembra solo un’utopia) è quella di riuscire ad identificare il reo attraverso la traccia presente nel cervello. Il dolo è un fatto interiore che ora si ricostruisce solo tramite una pluralità di indizi e che diventerà ben presto un fatto interiore riconoscibile tramite specifici strumenti.

Da quanto detto sino ad ora, potrebbe sembrare che le neuroscienze siano “a favore” della difesa. L’accusa, infatti, dovrà provare la sua innocenza. Il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio pone alla difesa l’onere di provare la realizzazione del fatto costituente reato in una percentuale superiore al 90%.

Il che significa che le prove poste dalla difesa potrebbero essere insufficienti per provare la colpevolezza. Si tratta di un error rate del 5 o 10%. Dobbiamo ricordare però che la prova scientifica non deve essere vista singolarmente, ma va valutata insieme alle altre prove, pertanto anche un metodo scientifico che abbia una percentuale di errore ridotta può essere comunque utile all’accusa. [9]

Ciò è assolutamente vero ma è assurdo che tale percentuale possa essere superiore. Un margine di errore del 20% porta a perdere di credibilità all’interno del processo. C’è da dire però che nel nostro sistema è stato utilizzato in passato.

Per esempio nel processo di Perugia la prova del DNA è stata espunta dal processo perché c’era una probabilità di contaminazione del reperto: probabilità non quantificata ma certo non preponderante rispetto alla probabilità di non contaminazione. Ed infatti gli imputati sono stati assolti.

Nel processo di Garlasco l’error rate di inattendibilità di un’altra prova scientifica c’era e non era trascurabile. Ma la prova è stata ammessa. E l’imputato è stato condannato. I criteri della Daubert maturati nel processo anglosassone e trapiantati meccanicamente nel nostro processo possono portare ad esiti opposti.

Ecco perché le neuroscienze possono essere una svolta per il futuro ma possono anche essere pericolose e traballanti.

Come in tutte le novità d’altronde, bisogna andare cauti e attenti. Introdurre nuovi strumenti cognitivi potrebbe servire a ricostruire il fatto storico di reato, ma non siamo ancora giunti ad una piena e certa attendibilità.

3. La verità storica e la verità processuale

Perché abbiamo definito un’impossibilità ontologica la ricostruzione del fatto di reato? Semplice.

Perché la verità è intangibile e, soprattutto, inattingibile. La verità nel processo, azzardiamo, la possiamo definire come relativa: creata in base a determinati contesti, a determinate metodologie e alla qualità e quantità di informazioni.

Ogni tipo di ricerca che è volta a determinare che tale comportamento sia in linea con la fattispecie della tipicità di reato può sempre presentare, seppur in soglia minima, un margine di errore.

La verità processuale quindi è approssimativa, si può anche avvicinare alla certezza assoluta ma non può mai raggiungerla. Tuttavia, quando si parla di verità processuale si fa sempre riferimento (vuoi per prassi, vuoi per mantenere alta la “reputazione” processuale) ad una verità certa, facente parte dei più alti livelli della scala della probabilità.

La mancata certezza della verità vale sia per la verità processuale che in quella cd. storica. Il rapporto fra queste due tipologie ha riempito fiumi di inchiostro di autorevole dottrina.

Calogero e Calamandrei hanno sicuramente contribuito a garantire un’analisi approfondita su tale argomentazione.

Un esempio che potrebbe chiarire appieno la differenza che intercorre fra le due verità è sicuramente l’omicidio di Luigi Calabresi il 17 maggio 1972. È importante ricordare questo fatto storico. Infatti, in questo contesto si è palesata la differente metodologia e il differente approccio che intercorre fra un giudice e uno storico. Uno storico non avrebbe mai condannato il reo solo attraverso la presenza di una sola prova, ossia la testimonianza di un pentito.

Di esempi potremmo farne molti ma ciò che è fondamentale rilevare è che storia e diritto sono due discipline simili per alcune aspetti e completamente opposte in altre.

Simili perché basano la loro ricostruzione dei fatti attraverso le prove presenti e su questo nulla quaestio. Opposti perché, nel riuscire a raggiungere tale obiettivo utilizzano modi e tempistiche diverse.

Il giudice ha una scadenza, deve prendere una decisione (soprattutto in ragione al principio della ragionevole durata del processo); lo storico invece non ha pressioni, non ha scadenze e non decide nulla.

Nel processo penale, il giudice ha lo scopo di verificare l’ipotesi accusatoria, non ha alcun interesse nel ricercare l’individuazione della verità reale.

La verità ottenuto la potremmo definire addirittura verità politica e non invece verità storica. La verità politica, infatti, serve a giustificare il motivo per la quale viene commesso quel fatto che costituisce reato per poi arrivare a decidere sulla sanzione (in relazione al principio di proporzionalità).

Per ottenere tale verità bisogna tener contro di un iter regolamentare che riguarda l’ammissione, l’assunzione e la valutazione delle prove.

Addirittura possiamo dire che la metodologia che regola l’ammissibilità delle cose è limitante, in quanto ostacola la conoscenza della verità.

Il paradosso è che alla sentenza, avendo un potere di autorità sulla cosa giudicata, le verrà attribuita la qualità di verità assoluta. La verità storica, invece, non potrà mai ottenere tale qualifica, quindi non potrà mai avere l’autorità di cosa giudicata.

Secondo quanto detto dallo storico P. Pezzettino[10], “. La ricerca storica infatti è necessariamente improntata ad uno spirito di autentica revisione. Quando emergono nuove fonti o acquisizioni lo storico deve rimettere in discussione quello che in un dato momento è parso lo stato “definitivo” della questione, perché la revisione è il motore primo dell’avanzamento della conoscenza, nella storia e in tutti i campi del sapere umano.”

L’interrelazione fra verità processuale e verità storica può portare a due conseguenze: ci sono stati casi in cui lo storico utilizza informazioni ottenute nel processo e casi in cui invece il giudice si aiuta attraverso l’utilizzo di fatti storici.

Prendiamo il primo caso, quando gli storici decidono di utilizzare informazioni processuali: in questo caso, dovendo lo storico ricercare la verità “assoluta”, potrà utilizzare queste informazioni con estrema suscettibilità. Sarà difficile dosare l’utilizzo delle fonti processuali proprio per la mancanza (totale) della loro attendibilità. La verità storica è una verità scientifica, e in quanto tale è in continua evoluzione ed è sempre suscettibile di revisione.

Nel secondo caso in questione, ossia il momento in cui i giudici utilizzano la storia, invece, l’approccio è diverso.

La prima volta in cui la verità processuale si è intersecata in quella storica è stata nel processo di Norimberga, il processo che giudicò i crimini di guerra di ventiquattro capi nazisti ancora in vita.

In quel caso si parlò per la prima volta di “tribunalizzazione della storia” dove per la prima volta la verità storica e quella processuale si sono sovrapposte.

In questo caso, infatti, è stata utilizzata la storia per arrivare ad una verità processuale che ha condotto ad una condanna, legando indissolubilmente i principi di giustizia, storia e politica.[11]

Da allora diviene realtà l’idea che un tribunale possa analizzare un fatto storico atroce e avviare un procedimento giudiziario. Un altro evento rilevante è stato sicuramente il processo di Israele ad Eichmann, che ha inaugurato per la prima volta la nuova stagione del processo cine-televisivo.

Più recentemente sono stati importanti anche i processi in Ruanda e dei musulmani in Bosnia-Erzegovina.

Tale cambio di rotta ha indotto molte agenzie della giustizia a chiedere aiuto agli storici sul tipo di verità da condividere. Nulla di più sbagliato. In questo modo, infatti, si è portato ad identificare la verità storica come un assioma presente nei processi giudiziari. Si è andato quindi a credere che ormai la verità storica sia presente anche all’interno dei Tribunali. Ma in questo modo verrebbe meno l’oggettività della verità storica, confondendola con quella processuale. La verità processuale sarà sempre una verità approssimativa e, in quanto tale, non potrà mai essere accostata alla verità storica.

4. L’oltre ogni ragionevole dubbio

Come detto nel paragrafo precedente, il principio dell’oltre ogni ragionevole è stato introdotto con la legge n. 46 del 2006, nella quale il Parlamento ha modificato il comma 1 dell’art. 533. Da ciò emerge che la prova d’accusa è la conditio sine qua non per la quale si può accertare il fatto che costituisce reato. La mancata prova provoca la mancanza dell’applicazione di tale principio.

Autorevole dottrina definisce l’aggettivo ragionevole “comprensibile da una persona razionale” e dunque valida se e solo se è presente una motivazione che faccia riferimento ad argomentazioni logiche nel principio di non contraddizione.[12]

Non si parla quindi di supposizioni, di mere congetture. Il giudice deve decidere su fatti oggettivamente avvenuti e su prove oggettivamente valide. Non si basa quindi su dubbi o congetture meramente soggettive del giudice.

L’accusa riesce ad adempiere al proprio compito solo se ogni diversa spiegazione rispetto al fatto addebitato appare non ragionevole. Di contro l’accusa non riesce ad adempiere all’onore quando le prove non sono sufficienti a ricostruire i fatti in maniera ragionevole sulla base delle prove acquisite.

Il principio costituisce sia regola probatoria, sia regola di giudizio.[13] È una regola che vale sia per l’assunzione delle prove, che nella fase decisiva.

Sotto il primo profilo, il ragionevole dubbio è correlato al quantum della prova che è a carico del pubblico ministero.

Sotto il secondo profilo, il ragionevole dubbio è correlato alla regola di giudizio che il giudice ha l’obbligo di applicare. Il giudice infatti dovrà considerare la reità come non provata e quindi assolvere l’imputato.

La cosa interessante è che, in relazione al principio del dubio pro reo, il dubbio va comunque a favore dell’imputato anche quando questo ha il compito di comprovare l’esistenza di un fatto favorevole.

Il dubbio sull’esistenza o meno di un fatto impeditivo o estintivo va sempre a favore dell’imputato. Facendo un parallelismo, l’imputato può essere accostato al “convenuto” del processo civile.

L’imputato riuscirà a convincere il giudice se proscioglierà il dubbio ragionevole sull’esistenza di una possibile scriminante.

Nel nostro sistema, però, l’imputato non avrà il potere coercitivo di ricerca delle fonti di prova, essendo destinato solo al pubblico ministero ed alla polizia giudiziaria. Al massimo però potrà intervenire per asserire un fatto estintivo o per introdurre nel processo un principio di prova.

Questo assioma, come è facilmente intuibile, trae origine dal sistema inquisitorio, che limitava il potere delle parti a favore del giudice. Ciò è sicuramente la conseguenza di quello che è stato definito sistema accusatorio temperato.

5. Dal modello inquisitorio a quello accusatorio “temperato”

Quando parliamo di sistema inquisitorio e accusatorio, parliamo di due tipologie di processo penale, con determinate caratteristiche. All’origine logica della distinzione vi è la fondamentale contrapposizione tra principio di autorità e principio dialettico.

Il sistema inquisitorio consiste in quel modello caratterizzato da due principi fondamentali: il principio di autorità: vengono attribuiti maggiori poteri al giudice. Da ciò emerge che ad un unico soggetto viene attribuito pieno potere in ordine sia all’iniziativa del processo, sia alla formazione della prova; il principio di cumulo delle funzioni giudiziarie: vengono infatti attribuiti pieni poteri sulle funzioni processuali di accusa, difesa e di giudizio.

È sufficiente una denuncia anonima a mettere in funzione il giudice inquisitore. Non serve un organo pubblico o privato di accusa, né la polizia: il sistema inquisitorio può farne a meno, pur ottenendo alti livelli di efficienza coattiva, a volte, purtroppo, anche con coercizione fisica.

Infatti non vi è nessun limite all’ammissibilità delle prove: non conta il modo in cui vengono ottenute, ma il risultato.

Nel corso della storia si è passati a torture di ogni genere, da quelle fisiche a quelle morali con l’unico scopo di ottenere la confessione dell’imputato. La ricerca delle prove non deve aspettare alle parti, bensì al giudice stesso, perché egli ha più poteri e meglio può conoscere il vero e il giusto. E già così si può osservare quanto questo sistema sia invasivo e limitante, e intacchi pericolosamente la sfera privata dell’individuo, arrivando anche a torture. Il sistema inquisitorio è assolutamente autoritario, senza margini di paragone e senza che nessuno possa attivamente intervenire all’interno del processo.

La verità è una sola e la decide il giudice sulla base di prove da lui ottenute, senza l’intervento di nessuno. Tale sistema è contrario ad ogni tipo di democrazia, quindi non sarebbe conforme a nessun tipo di Stato che si reputa democratico.

Tutto il processo si basa sulla scrittura, nel senso che tutte le deposizioni vengono raccolte attraverso la redazione di un verbale. Nel sistema inquisitorio prevale la presunzione di colpevolezza (o reità) per la quale è sufficiente avere qualche indizio o una denuncia anonima per poter incolpare il malcapitato.

Anche un mero indizio induce a credere alla colpevolezza del reo piuttosto che nella presunzione della sua innocenza (come avviene nei sistemi accusatori).  Poiché l’imputato è presunto colpevole, in mancanza di prove di innocenza può essere sottoposto a custodia preventiva in carcere. Per concludere su tale aspetto, è d’uopo ricordare anche quanto il regime totalitario dia ampio spazio ad una molteplicità di impugnazioni che vanno oltre i tipi casi di impugnazione previsti nel nostro attuale sistema.

Per quanto concerne invece il sistema accusatorio, vediamo che questo è costituito come un modello contrapposto a quello inquisitorio. Esso si basa su un principio opposto a quello di autorità, e cioè sul principio dialettico[14]. Tanto più la verità è accertata, tanto più spazio viene dato alle parti. Solo attraverso l’interrelazione fra le parti si può parlare di equità e di giusto processo.

Chiunque accusa una persona deve convincere il giudice, mediante prove, che la controparte è colpevole. Solo fino a che non abbia accertato la reità, l’imputato si considera presunto innocente. Il processo su cui si basa tale accertamento deve essere regolato dalla legge rispettando il principio cardine del diritto di difesa. Se l’imputato è presunto innocente fino alla condanna definitiva, non può essere trattato come un colpevole; pertanto la sanzione penale non può essere anticipata in via provvisoria.[15] La custodia in carcere viene considerata come un’extrema ratio.

La storia contemporanea vede molti Stati che sostengono di essere garantisti e poi, di fatto, accolgono sistemi processuali dove prevale il sistema inquisitorio. Si potrebbe discutere a lungo su quale sistema sia maggiormente efficace. Il sistema inquisitorio utilizza una sorta di terrorismo per ottenere i suoi obiettivi. L’inconveniente è che comunque non garantisce sufficiente tutela contro il rischio che sia condannato un innocente, anzi permette al potere politico di utilizzare il processo penale uno strumento per poter ottenere limitazioni alla libertà del cittadino. Occorre tenere presente anche gli svantaggi che possono derivare da un sistema accusatorio.

Ad esso si addebita un’eccessiva combattività che potrebbero provocare situazioni sgradevoli come il linciaggio del testimone. Inoltre, gli ampi poteri di cui gode l’accusa pubblica impediscono al giudice di effettuare un efficace controllo soprattutto nei momenti anteriori al dibattimento. Le regole che escludono le prove raccolte fuori di tale fase tutelano i diritti di libertà del cittadino, ma tendono ad ostacolare l’accertamento del fatto di reato. Già da queste prime osservazioni si può ricavare come sia necessario porre temperamenti rispetto ad un recepimento intransigente delle caratteristiche esaminate.

Nel corso degli anni si è visto un frequente avvicendarsi tra il sistema inquisitorio e accusatorio che ha coperto tutta la fascia storica del diritto comune europeo che va dal XII al XVIII secolo.

Il sistema inquisitorio ha subito un mutamento: infatti, dal carattere eccezionale che lo caratterizzava, è divenuto un processo comune e molto utilizzato, fino a vedere il suo tramonto definitivo nella prima metà del XVI secolo[16]. Seppur in disuso, ha comunque lasciato le sue tracce. Infatti, non si vi è l’abbandono definitivo dell’accusa e questo ha permesso il mantenimento e la continuazione di un rapporto dialettico sempre più articolato, che subirà la sua definitiva modifica solo dopo la codificazione. Il periodo altomedievale ha visto la prevalenza del sistema accusatorio con un processo penale molto simile a quello civile. Infatti, l’attore cita in giudizio il convenuto per ottenere un risarcimento danni. Sono stati utilizzati altri metodi particolari per la risoluzione della controversia coma il duello o la c.d. compurgatio, che consiste nel giuramento decisorio mediante il quale l’accusato si discolpa dalle proprie responsabilità. Tale particolare proceduta era caratterizzata dal fatto che l’accusato fosse accompagnato da amici e parenti che avranno lo stesso compito. Se però un reato provocava un interesse pubblico, potevano essere applicati elementi di matrice inquisitoria.

Anche il periodo che intercorre fra XI e XIII secolo vede consolidarsi il sistema accusatorio, soprattutto grazie il fiorire delle consuetudini e degli statuti comunali.  Sarà poi attraverso un nuovo sviluppo di organizzazione politica più complessa e conferma, in un primo tempo, un certo favore per i moduli accusatori e la maggiore attribuzione di potere giurisdizionale nei confronti degli organismi municipali, che andrà ad insediarsi il sistema inquisitorio. Nello stesso tratto di tempo, con l’istituzione della Scuola della Glossa e della nuova scienza del diritto si trova ad affrontare un panorama problematico in relazione alla disciplina processuale-penalistica. Infatti, da un lato troviamo un diritto romano-giustinianeo che pone le sue basi su un sistema accusatorio, attraverso il Corpus Iuris Civilis.

Dall’altro lato, si afferma sempre di più il diritto canonico, che è di base inquisitoria attraverso le sue base teleologiche. L’iniziativa del giudice ottiene la medesima importanza dell’iniziativa delle parti. Proprio da questo momento si inizia a costruire uno schema dell’iter inquisitorio. Il ruolo dei sacerdoti è fondamentale perché ad essi vengono attribuiti poteri inerenti al processo, quale la benedizione delle ordalie unilaterali o i duelli giudiziari. Con il XIII secolo il sistema accusatorio viene definitivamente surclassato. In Italia, tale passaggio è avvenuto per la conseguenza di cinque fattori:

  1. Il primo sicuramente incentrato sulla maggiore attribuzione dei poteri pubblici e amministrativi con particolare attenzione per le funzioni giudiziarie;

  2. Lo sviluppo sempre più prorompente della legislazione canonistica che ha esteso notevolmente le competenze del corti ecclesiastiche.

  3. L’estensione semantica di nuovi concetti poco utilizzati in passati quali fama, infamia, vox publica, crimen notorium. Se dobbiamo prendere come riferimento ad esempio il concetto di fama vediamo che questa poteva essere la condizione necessaria e sufficiente per un magistrato per attribuire al soggetto un necessario grado di sospetto.

  4. Lo sviluppo di nuove forme processuali come quelle della denuncia. Infatti, autori come Guillaume Durand avevano già definito la denuncia come un elemento essenziale all’interno del sistema inquisitorio.

  5. Infine, anche la stessa compilazione giustinianea era strutturata con elementi riconducibili al sistema inquisitorio[17].

Tra XIII e XIV secolo si avvia così a quel processo che verrà definito “processo inquisitorio romano-canonico” che prenderà sede per lungo tempo nel panorama giurisdizionale dell’Europa continentale. In questo periodo, si consolida ormai sia l’idea della presenza di più strutture processuali differenziate e sia la consapevolezza della fine della prassi scaturita dal sistema accusatorio. Fra le varie modifiche, vediamo sicuramente il venir meno delle forme di ispirazione civilistica e il graduale affievolirsi dell’autorità del rito accusatorio romanistico. Ciò che emerge è che l’accusa perde il suo significato originario, andando a conformarsi con la denuncia. l’accusa tende non solo a trasformarsi nella querela della parte lesa, ma anche a confondersi con la semplice denuncia[18].

Nel XVI secolo le procedure inquisitorie appiano sempre più marcate non solo nel territorio italiano ma anche in tutti i territori europei aperti ad applicare le nuove disposizioni del diritto comune. Tale innovazione si è consolidata grazie anche agli affinamenti tecnici elaborati dalla dottrina che ha garantito la realizzazione di un nuovo modello favorevole all’inquisitio. Ed è proprio nel corso del Cinquecento, che la reazione di dissenso dei giuristi non tardò ad arrivare.  L’insorgere nei confronti di tali sistemi processuali violenti, ha provocato una vera e propria rivolta alla tendenza dominante.  che si manifestano le prime decise voci di aperto dissenso rispetto alla tendenza dominante. I giuristi si dimostrano particolarmente attenti alla nuova cultura e alle nuove sensibilità umanistiche, e saranno proprio queste ad influire ad un cambiamento futuro. Molte sono state le opere pubblicate in questo periodo: fra queste, una fondamentale rilevanza ebbe il De Criminibus scritto dal giurista Anton Matthaeus.

Il suo ruolo è stato sicuramente quello di mettere radici per un concreto cambio di rotta sul processo penale che vedrà la sua piena manifestazione durante il periodo illuminista. Matthaeus realizza un’attenta analisi basandosi sui principi delle strutture accusatorie romane al fine di garantire una lunga e articolata trattazione del modello accusatorio[19]. Da tale trattazione emerge la precisa convinzione che l’accusatio debba essere considerata metodo regolare e ordinario non solo in ordine all’avvio del procedimento, ma anche per tutte le fasi dello stesso fino all’esecuzione della sentenza. Pone maggiore attenzione sull’accusa e sull’oralità di cui deve essere caratterizzato il processo.

I contenuti del De Criminibus costituiscono il segnale più evidente che i tempi e la stessa cultura giuspenalistica europea stanno rapidamente evolvendosi, tanto nel metodo quanto nei contenuti, verso forme e atteggiamenti nuovi, destinati a trovare piena maturazione e compiuta espressione durante l’Età dei Lumi[20].

L’età dei Lumi fino a tutto il medioevo è stata caratterizzata da un preminente modello accusatorio. Sarà poi l’800 e il ‘900 che porterà il progressivo accentrarsi in senso assolutistico di monarchie e di principati, prendono vita ideologie e dottrine dirette a legittimare il governo autocratico.

Con il nuovo codice di procedura penale del 1988 si è avviato definitivamente quel processo “democratico” che ha indotto il sistema penale ad essere definito come un sistema accusatorio “temperato”. Nulla di più giusto in effetti. In media stat virtus. Il sistema accusatorio, per quanto molto democratico e garantista, può avere i suoi svantaggi, come abbiamo esplicato in precedenza. In effetti, ad esso si addebita un’eccessiva combattività che potrebbero provocare situazioni sgradevoli come il linciaggio del testimone. Inoltre, gli ampi poteri di cui gode l’accusa pubblica impediscono al giudice di effettuare un efficace controllo soprattutto nei momenti anteriori al dibattimento. Le regole che escludono le prove raccolte fuori di tale fase tutelano i diritti di libertà del cittadino, ma tendono ad ostacolare l’accertamento del fatto di reato. Ecco perché è stato fondamentale raccogliere gli elementi maggiormente vantaggiosi per poter creare un sistema misto, che raccogliesse il meglio del sistema inquisitorio e il meglio di quello accusatorio.

In effetti, il nostro sistema penale giudiziario italiano è, nella fase dibattimentale, prevalentemente accusatorio, basato sulla contraddizione fra le parti, ma è temperata da determinati principi inquisitori (come ad esempio il fatto che solo gli avvocati delle parti può proporre domande ai testimoni, oppure possono essere utilizzati dal giudice gli atti ottenuti in segreto prima del dibattimento stesso).

6. La riforma costituzionale dell’art. 111 Cost.

L’articolo 111 della Costituzione italiana stabilisce che i processi sono basati sul confronto paritario delle parti davanti a un giudice indipendente e imparziale.

La legge deve definire limiti di tempo ragionevoli per il processo; nel processo penale, la legge prevede l’informazione tempestiva e riservata dell’imputato sulla natura e sui motivi delle accuse mosse nei suoi confronti; gli sono concessi il tempo e i mezzi per la sua difesa; ha il diritto di interrogare o far interrogare coloro che testimoniano contro di lui; coloro che possono testimoniare a favore dell’imputato devono essere convocati ed esaminati alle stesse condizioni concesse al pubblico ministero; ogni prova a favore dell’imputato deve essere riconosciuta; l’imputato può avvalersi dell’aiuto di un interprete se non comprende o non parla la lingua del procedimento; nei processi penali, le prove possono essere stabilite solo secondo il principio del confronto tra le parti. [21]

Nessun imputato può essere provato colpevole sulla base di testimonianze rese da testimoni che hanno liberamente e volutamente evitato il controinterrogatorio della difesa.

Durante il processo, tutti i testimoni devono deporre ancora una volta, così come i periti. Si tratta (fondamentalmente) di un procedimento contraddittorio e l’avvocato dell’imputato ha il diritto di interrogare i testimoni dell’accusa. Inoltre, tutti gli esperimenti condotti durante le indagini preliminari devono essere ripetuti dove possibile, in modo da permettere all’imputato di partecipare effettivamente al processo di formazione della prova.

La vittima può diventare parte del processo attraverso un atto formale: in tal caso, l’avvocato della vittima può presentare (e controinterrogare) i testimoni, combattendo a fianco del procuratore, e chiedendo i danni. Le vittime hanno il diritto di essere informate sul perseguimento del crimine commesso contro di loro, di ricevere una consulenza e, se richiesto formalmente, il diritto di partecipare al processo e al risarcimento.

Se il giudice del processo è convinto oltre ogni ragionevole dubbio che l’imputato sia colpevole, deve condannarlo; in caso contrario, deve assolverlo. Il giudice deve anche pubblicare spiegazioni scritte delle sue decisioni.

Il confronto paritario fra parti, però, è un concetto alquanto utopistico: le parti non decidono, non interagiscono (almeno non direttamente) e devono sottostare alla decisione unanime del giudice (o dei giudici, in caso di reati più gravi).

Ciò che le parti possono fare è appellarsi contro le sentenze della Corte di Appello, che decidono nel merito, o dinanzi alla Corte di Cassazione, che decide sulla legittimità, senza addentrarsi all’interno del fatto costituente reato.

L’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999 n. 2 ha permesso l’aggiunta di nuovi cinque commi dell’art. 111, lasciando inalterati gli altri e cambiandoli solo di posizione.

Il nuovo primo comma disciplina il principio del giusto processo regolato dalla legge, mentre il secondo introduce il principio del contraddittorio, proprio per accentuare che il nostro sistema penale si basa sul diritto del confronto fra accusato e accusatore.

In realtà, la riforma costituzionale ha inciso non solo nel processo penale, ma in tutto il sistema giudiziario.
La dottrina si è divisa: alcuni[22], hanno ritenuto tale riforma una conferma di qualcosa di già esistente, esplicando il fatto che non vi fosse stato introdotto nulla di nuovo; altri, invece, hanno visto addirittura un nuovo modello processuale[23]. L’abisso fra questi due tipi di interpretazioni è evidente.

Autori come Chiarloni hanno addirittura dichiarato che l’art. 111 avesse una vena polemica, in quanto si volesse insinuare che prima il processo non era considerato giusto.

Tale interpretazione non può essere considerata valida, in quanto la nozione “giusto processo” era insita (seppur non espressamente indicata) nel nostro sistema costituzionale, quindi tale postulato risulta privo di fondamento.

Prendiamo ad esempio l’art. 24 della Costituzione, che prevede la garanzia del principio del giusto processo attraverso il diritto di azione e di difesa (rispettivamente al primo e secondo comma) che è attribuibile ad ogni individuo. Alla norma viene assegnata la funzione del process of law clause, tipica della Costituzione nordamericana.

Non è quindi condivisibile questo approccio dottrinale polemico, in quanto l’art. 111 costituisce un contenuto innovativo volto ad accentuare concetti già preventivamente esplicati (seppur in maniera diretta). L’art. 111, anzi, è destinato ad essere il punto cardine della giurisdizione italiana, con grandi potenzialità espansive.

Con la nozione di giusto processo si vuole applicare una nuova clausola completamente innovativa e essenziale nel sistema delle garanzie costituzionali. Le garanzie costituzionali non devono essere limitanti, un luogo chiuso privo di espansione, ma anzi deve essere sempre oggetto ad un’integrazione estensiva e sempre in continua evoluzione. Solo in questo modo si riesce a garantire la piena tutela dell’individuo.
Detto ciò, d’uopo ora analizzare l’art. 111 in relazione al contraddittorio. Anche in questo caso, potrebbero esserci interpretazioni contrastanti.

Nel primo caso, infatti, ci si basa su un’interpretazione meramente restrittiva, per la quale possono essere utilizzate solo le prove ottenute in dibattimento.[24]

Nel secondo caso, invece, attraverso un’interpretazione estensiva, viene esteso il significato del contraddittorio, esplicando che possono essere utilizzate prove diverse rispetto a quelle ottenute in contraddittorio, quindi anche tutto ciò che si ottiene durante le indagini preliminari.[25]

Al testimone, in questo modo, possono essere chieste spiegazioni in caso di mancata difformità delle dichiarazioni all’interno delle due diverse fasi processuali.

Seppur limitatamente, in realtà, la Costituzione non impone un netto inutilizzo delle prove ottenute precedentemente durante le indagini preliminari.

Isolando il caso dell’incidente probatorio (che pone la possibilità solo in casi di necessità e urgenza di anticipare le dichiarazioni durante le indagini preliminari che non potrebbero essere ottenute durante la fase dibattimentale), il comma 5 dell’art. 111 pone tre eccezioni in cui è possibile l’utilizzo:

  • Il consenso dell’imputato

  • Accertata impossibilità di natura oggettiva

  • La provata condotta illecita.

Nel primo caso viene garantito tale utilizzo solo se vi è il previo consenso dell’imputato. Il che non mi sembra possa essere vantaggioso per l’accusa, in quanto ci si pone in una condizione di estrema libertà a favore dell’imputato, non tutelando appieno la vittima (o presunta tale). Ovviamente dipende da caso a caso, in quanto nulla vieta che magari l’accusa potrebbe da ciò ottenere vantaggio. Tale interpretazione per così dire “negativa” nasce dalla presunzione che vi sia effettivamente una vittima del reato, in quanto come ben sappiamo all’evidenza il reale controinteressato è il pubblico ministero, che si trova comunque in posizione antagonista rispetto all’imputato.

Due sono gli ambiti applicativi distinti: nel caso di riti semplificati, in quanto, proprio per la struttura tipica di tale rito, non è presente la fase dibattimentale. L’imputato rinuncerà al contraddittorio in via anticipato o in via successiva.

Nel caso, invece, di consenso di acquisizione di prove fuori dal contraddittorio, può essere garantito all’imputato la possibilità di ottenere al dibattimento prove ottenute al di fuori di esso. In realtà ciò potrebbe effettivamente porre un limite alla sfera giuridica altrui: ecco perché, per evitare ciò, l’imputato può consentire l’acquisizione di atti ottenute da altre parti, non da lui stesso. Ciò anche allo scopo di evitare conflitti di interessi.[26]

Nel secondo caso, vengono assunte prove al di fuori del contraddittorio soltanto in caso di cause oggettivamente imprevedibili. Quando parliamo di “oggettività” prendiamo come riferimento cause che avvengono autonomamente e indipendentemente dalla propria volontà che possiamo equiparare alle cause di forza maggiore. L’impossibilità oggettiva deve essere oggetto di prova e discussione fra le parti.

In questo caso tale eccezione può essere abbastanza ragionevole in quanto le cause imprevedibili (come dice la parola stessa, senza preavviso) non posso essere controllabili e monitorabili.

Infine, il terzo caso costituisce l’ultima eccezione, quella riconducibile alla provata condotta illecita. È d’uopo notare che il comma 5 dell’art. 111, quando parla di “provata condotta illecita” prende come riferimento tutti quei comportamenti contrari al diritto finalizzati ad indurre il dichiarante a sottrarsi al contraddittorio.[27]

Anche in questo caso è abbastanza intuibile quanto la riforma dell’art. 111 della Costituzione sia stata una boccata di aria fresca nella struttura giurisdizionale italiana con lo scopo di garantire piena tutela delle parti senza che vi sia discrepanza paritaria.

 

 

 

 

 

 

[1] P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2017, p. 731.
[2] L. Ponzoni, Cross examination: un bilancio e un (tentativo di) rilancio ad un quarto di secolo dall’introduzione del nuovo codice di rito, in diritto penale contemporaneo, 2022, p. 3.
[3] F. Carnelutti, Verso la riforma del processo penale, Napoli, Morano, 1963, p. 33. Cfr. anche M. Pisani, Sulla presunzione di non colpevolezza, in «Foro penale», 1965, p. 3.
[4] G. Canzio, L’“oltre il ragionevole dubbio” come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 2004, pp. 303 ss.
[5] C. Conti, Al di là del ragionevole dubbio, in A. Scalfati, a cura di, Novità su impugnazioni e regole di giudizio. Legge 20 febbraio 2006, n. 46 “legge Pecorella”, Milano, Ipsoa, 2006, pp. 87 ss.
[6] J. Della Torre, Standard di prova e condanna penale: una ricostruzione metateorica e metagiurisprudenziale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2015, p. 387.
[7] J. Della Torre, Standard di prova e condanna penale: una ricostruzione metateorica e metagiurisprudenziale, cit., p. 387.
[8] L. Filippi, Il virus trojan: uno strumento nelle mani incontrollabili della polizia giudiziaria, in penale diritto e procedura, 2020, p. 1.
[9] Schweitzer N., Saks M., Murphy E., Roskies A., Sinnott-Armstrong W., Gaudet L. (2011). Neuroimages as evidence in a mens rea defense: No impact. Psychology, Public Policy, and Law, 17, 357-393.
[10] P. Pezzettino, Sant’Anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, 2008, p. 3 e ss.
[11] I. Rosoni, Verità storica e verità processuale. lo storico diventa perito, in Acta Historiae, Vol. 1-2, p. 130.
[12] C. Conti, Al di là ogni ragionevole dubbio, Milano, 2006, p. 102 ss,
[13] G. Canzio, L’oltre ogni ragionevole dubbio come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in Riv. It. Dir. proc. Pen., 2004, pp. 304-305.
[14] E. Dezza, o.u.c., p. 2.
[15] P. Tonini, Manuale, cit., p. 10.
[16] E. Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia, 2013, p. 2.
[17] E. Dezza, Lezioni, cit., p. 15.
[18] E. Dezza, Lezioni, cit., p. 13.
[19] E. Dezza, o.u.c., p. 90.
[20] E. Dezza, Lezioni, cit., p. 90.
[21] G. Vignera, Il “giusto processo” nell’art. 111, comma 1, cost.: nozione e funzione, in Ambietediritto.it, p. 1.
[22] S. Chiarloni, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile, in Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di Civinini e Verardi, Milano, 2001, 13 ss.
[23] N. Trocker, Il nuovo articolo 111 della costituzione e il “giusto processo” in materia civile: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 381 ss., 383 ss.
[24] P. Ferrua, L’avvenire del contraddittorio, in Critica dir., 2000, p. 25.
[25] P. Tonini, Necessario garantire spazi per un vero contraddittorio, in il sole24ore, 200, p. 28.
[26] P. Tonini, Manuale, cit., p. 742.
[27] P. Tonini, Manuale, cit., p. 743.

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Maria Virginia Petracca

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