La responsabilità oggettiva nel diritto penale italiano

La responsabilità oggettiva nel diritto penale italiano

Sommario: 1. Premessa – 2. La responsabilità oggettiva e la Costituzione – 3. Le principali ipotesi di responsabilità oggettiva – 3.1. Il delitto preterintenzionale – 3.2. Morte o lesioni in conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.) – 3.3. Il concorso anomalo (art. 116 c.p.) – 3.4. I reati aggravati dall’evento – 4. Conclusioni

 

1. Premessa

Uno degli istituti penalistici maggiormente dibattuti in dottrina e giurisprudenza è quello della responsabilità oggettiva. Questa, nel dettaglio, rappresenta un criterio di imputazione della responsabilità penale in deroga ai principi di colpevolezza, applicandosi a prescindere dalla sussistenza di dolo o colpa, dall’imputabilità, dalla conoscenza o conoscibilità della legge penale e dalla presenza di scusanti. Si è dunque in presenza di un’ipotesi di responsabilità oggettiva in tutti i casi in cui una legge consente di attribuire un determinato fatto-reato all’autore in mancanza dei predetti elementi soggettivi. Dal punto di vista normativo, tale istituto trova fondamento nel terzo comma dell’art. 42 c.p., secondo cui “la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, come conseguenza della sua azione od omissione”. Sotto il profilo pratico, le ipotesi più frequenti sono quelle che si realizzano in deroga al dolo e alla colpa, consentendo l’attribuzione soggettiva di un delitto al suo autore sulla sola base del nesso causale tra l’evento lesivo e la condotta criminosa volontaria. Tali fattispecie sono sintetizzabili nel brocardo latino “versanti in re illicita imputantur omnia quae sequuntur ex delicto”, secondo cui “a colui che ha commesso il fatto illecito volontario, si imputano tutte le conseguenze che derivano dal delitto”. In tale ottica la responsabilità oggettiva sostanzia nient’altro che una forma di rimprovero all’agente per il fatto doloso iniziale che ha compiuto.

2. La responsabilità oggettiva e la Costituzione

A partire dal 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione, sono sorti seri dubbi circa la compatibilità delle ipotesi di responsabilità oggettiva con i principi fondamentali sanciti dalla Carta. Tali dubbi sono stati affrontati dalla Corte Costituzionale, che ha esaminato la questione per la prima volta con la nota sentenza n. 364/1988[1]. In quell’occasione, intervenendo su un’eccezione di incostituzionalità  riguardante l’art. 5 c.p., la Corte ha valorizzato il collegamento sistematico tra l’art. 27, co. 1, Cost.[2] e l’art. 25, co. 2, Cost.[3], chiarendo che l’accertamento della responsabilità penale deve coinvolgere la libertà di scelta dell’individuo in relazione alla commissione del reato. La lex previa, scritta e precisa, invero, ha il compito di garantire tale libertà al consociato, punito solo quando sceglie consapevolmente  di commettere un reato. In questa prospettiva, il comma 3 dell’art. 27 Cost.[4], che stabilisce la funzione rieducativa della pena, rafforza l’idea secondo cui la sanzione penale deve mirare a rendere il reo capace di optare per il fatto lecito, e ciò può avvenire solo se la pena consegue a una responsabilità colpevole. La Corte ha così affermato che, per rispettare il principio di personalità della responsabilità penale, è necessario verificare in ogni singolo caso che gli elementi più significativi del fatto tipico siano almeno coperti dalla colpa. A pochi mesi di distanza, la sentenza n. 1085/1988[5] ha confermato il medesimo principio, affermando che, per garantire il pieno rispetto dell’art. 27, co. 1, Cost., tutti gli elementi del fatto tipico devono essere soggettivamente riconducibili all’autore, ossia sorretti da dolo o colpa. Le sentenze richiamate, di conseguenza, ricoprono un ruolo centrale in quanto hanno provveduto a riconoscere rango costituzionale al principio di colpevolezza. Qualche anno dopo, con la sentenza n. 322/2007[6], la Corte ha ribadito la centralità del principio di colpevolezza, precisando che esso vincola non solo il legislatore, ma anche il giudice nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme incriminatrici. L’organo giudicante, perciò, ha il compito di verificare se la fattispecie astratta applicabile sia interpretabile in coerenza con il principio di colpevolezza, evitando così una violazione dell’art. 27, co. 1, Cost.. Le summenzionate decisioni della giurisdizione costituzionale hanno quindi inaugurato un percorso di revisione delle ipotesi di responsabilità oggettiva nella legislazione, per ricondurle entro i confini della responsabilità colpevole.

3. Le principali ipotesi di responsabilità oggettiva

3.1. Il delitto preterintenzionale

Il delitto preterintenzionale è un criterio di imputazione soggettiva della responsabilità secondario rispetto al dolo, essendo applicabile solo nei casi espressamente previsti dalla legge (art. 42, co. 2, c.p.[7]). La sua definizione è contenuta nell’art. 43, co. 2, c.p., secondo cui “il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”. Le caratteristiche fondamentali della preterintenzione, pertanto, sono la volontà dell’agente rispetto all’evento minore (percosse o lesioni), che costituisce la base dolosa del delitto e  la non volontà dell’evento più grave (morte o aborto), quale conseguenza diretta della condotta criminosa iniziale. Si fa riferimento alla morte e all’aborto quali eventi più gravi in quanto i casi di delitto preterintenzionale contemplati dal codice penale sono solamente due: l’omicidio preterintenzionale (584 c.p.) e l’interruzione di gravidanza non consensuale (593 ter, co.1, c.p.). La giurisprudenza della Cassazione ha discusso ampiamente circa la natura del delitto preterintenzionale, soprattutto in merito alla necessità o meno di accertare la colpevolezza dell’agente in relazione all’evento più grave. Un primo orientamento ritiene che si tratti di una piena ipotesi di responsabilità oggettiva, bastando l’accertamento del nesso causale tra evento non voluto e condotta dolosa iniziale. Tale teoria, in palese contrasto con il principio di colpevolezza, ha conosciuto una variante secondo cui la prevedibilità dell’evento lesivo più grave è insita nella legge stessa (ad esempio, nello schiaffo è implicita la possibilità di causare la morte). A fronte di siffatto orientamento, ancora molto chiuso sui meccanismi del “versari in re illicita”, si è sviluppato un secondo e più recente indirizzo. Questo, in particolare, sostiene che i casi di delitto preterintenzionale devono essere sottoposti ad un’interpretazione costituzionalmente conforme all’art. 27, co.1, Cost.. Così, ad esempio, l’art. 584 c.p. che disciplina l’omicidio preterintenzionale, deve essere letto come se contemplasse gli atti diretti a ledere o percuotere dai quali deriva “per colpa” la morte della persona offesa. È da evidenziare che in questa seconda lettura, l’evento non voluto è imputabile per colpa, previo accertamento della prevedibilità in concreto dell’evento stesso. V’è da dire che ad oggi quest’ultimo orientamento non è prevalente, ma coesiste e contrasta con il primo. Resta da vedere se un futuro intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sarà in grado di risolvere il contrasto giurisprudenziale.

3.2. Morte o lesioni in conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.)

La fattispecie di cui all’art. 586 c.p. sussiste quando da un delitto doloso (spesso lo spaccio) deriva non voluta la morte o le lesioni di un soggetto. Tradizionalmente, il reato veniva considerato come piena ipotesi di responsabilità oggettiva, essendo richiesto solo l’accertamento del nesso causale tra fatto doloso ed evento lesivo ai fini dell’imputazione di quest’ultimo all’agente. Tuttavia, con la sentenza n. 22676/2009[8], le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che la norma deve essere interpretata in conformità al principio di colpevolezza, richiedendo l’accertamento della colpa in concreto dell’agente. Da questo momento, conseguentemente, la morte o le lesioni non sono più imputate unicamente sul nesso causale con la condotta dolosa, ma soprattutto in relazione alla sussistenza della colpa. Responsabilità colposa dell’autore del fatto tipico che deve essere accertata in concreto: ciò significa che il giudice è tenuto a motivare in sentenza il perché della rilevanza della colpa. Così, attraverso la sopraindicata sentenza, il reato di cui all’art. 586 c.p. è stato espulso dal “regno” della responsabilità oggettiva per approdare nell’ambito della responsabilità colposa.

3.3. Il concorso anomalo (art. 116 c.p.)

Si parla di concorso anomalo ogni qualvolta viene a concretizzarsi un reato diverso rispetto a quello voluto da taluno dei concorrenti. L’esempio tipico è quello in cui due soggetti organizzano una rapina e uno dei due uccide il negoziante. L’altro, pur non avendo né dolocolpa per l’omicidio, risponde comunque del reato ai sensi dell’art. 116 c.p.. Il concorso anomalo, dunque, integra “tout court” un’ipotesi di responsabilità oggettiva in quanto l’evento diverso da quello voluto viene imputato senza accertare la colpevolezza del partecipe. La Corte Costituzionale, già con la sentenza n. 42/1965[9], ha chiarito che l’art. 116 c.p. richiede un coefficiente minimo di colpevolezza, inizialmente identificato come prevedibilità in astratto dell’evento lesivo non voluto. Successivamente, con la sentenza n. 55/2021[10], la Corte ha aggiornato l’interpretazione, stabilendo che la responsabilità penale per l’evento diverso richiede la prevedibilità in concreto dello stesso, valutabile sulla base delle modalità esecutive del delitto voluto e del piano criminoso condiviso. In tal modo, grazie a questi interventi della giurisprudenza costituzionale, anche il concorso anomalo è stato ricondotto nell’alveo della responsabilità per colpa.

3.4. I reati aggravati dall’evento

Rientrano tra questi reati fattispecie come l’abbandono di minore incapace da cui deriva la morte, i maltrattamenti con esito letale, il sequestro di persona da cui deriva la morte del sequestrato. In origine, l’evento aggravatore veniva attribuito all’agente a titolo di circostanza aggravante sulla base del solo nesso causale con il fatto doloso. In seguito, però, una riforma del 1990[11], intervenuta sull’art. 59, co. 2, c.p.[12], ha stabilito che l’applicazione delle circostanze aggravanti richiede la sussistenza di dolo o colpa. A partire da questo momento, quindi, per imputare l’evento aggravatore al soggetto attivo del reato, non è sufficiente il nesso causale con il fatto illecito volontario, ma è altresì richiesto l’accertamento della colpa dell’agente. Di conseguenza, i reati aggravati dall’evento, parimenti alle fattispecie cristallizzate agli artt. 586 e 116 c.p., sono stati ricondotti nel contesto della colpa. Ciononostante, tale linea interpretativa incontra un limite di non poco conto il quale potrebbe influire in via determinante sul dosaggio sanzionatorio. Nello specifico, l’evento aggravatore, essendo imputato all’agente come aggravante, potrebbe essere neutralizzato, all’esito di un eventuale giudizio di comparazione, dalla presenza di una circostanza attenuante.

4. Conclusioni

Il presente contributo ha approfondito la natura e le caratteristiche della responsabilità oggettiva nel sistema penale italiano. A partire dalle sentenze della Corte Costituzionale del 1988, si è assistito a un progressivo processo giurisprudenziale di adeguamento delle ipotesi di responsabilità oggettiva al principio costituzionale di colpevolezza. In alcuni casi, come l’art. 586 c.p., si è giunti a un effettivo superamento della responsabilità oggettiva. In altri, come nel delitto preterintenzionale, la strada è ancora incerta, nonostante l’elaborazione della teoria della colpa per l’evento non voluto, subordinata alla prevedibilità in concreto. L’affermazione di questa teoria, in particolare, incontra due ostacoli principali: – è difficile ipotizzare una violazione di una regola cautelare in un contesto doloso; – l’ammissione di una responsabilità per colpa implicherebbe una scomposizione della fattispecie in due reati distinti e concorrenti (ad esempio: percosse dolose e omicidio colposo), con conseguente riduzione della pena complessiva rispetto a quella prevista dall’ 584 c.p., che punisce l’omicidio preterintenzionale con la reclusione da quattro a diciotto anni.

In definitiva, il percorso giurisprudenziale intrapreso dalla Corte Costituzionale ha determinato un progressivo ridimensionamento dell’area della responsabilità oggettiva, favorendo un ritorno al principio di colpevolezza quale fondamento imprescindibile della responsabilità penale. Resta tuttavia aperto il confronto, teorico e pratico, su talune fattispecie, a dimostrazione di quanto il tema sia ancora oggi centrale nel diritto penale contemporaneo.

 

 

 

 

 

 

[1] Sentenza Corte Costituzionale N° 364 del 24 marzo 1988.
[2] L’art 27, co. 1 Cost. sancisce il principio della personalità della responsabilità penale.
[3] L’art 25, co. 2 Cost. identifica il fondamento normativo del principio di legalità, stabilendo che “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
[4] Il quale afferma che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
[5] Sentenza Corte Costituzionale N° 1085 del 13 dicembre 1988.
[6] Sentenza Corte Costituzionale N° 322 del 24 luglio 2007.
[7] Il comma 2 dell’art. 42 c.p. sancisce “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”.
[8] Cassazione penale, Sezioni Unite, sentenza N° 22676 del 29 maggio 2009 (Ronci).
[9] Sentenza Corte Costituzionale N° 42 del 13 maggio 1965.
[10] Sentenza Corte Costituzionale N° 55 del 31 marzo 2021.
[11] Legge N° 19 del  7 febbraio 1990 recante “Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti”.
[12] L’art. 59, co. 2, c.p. disciplina il regime di applicazione delle circostanze aggravanti, stabilendo che “Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa”

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Andrea Bacchi

Andrea Bacchi è dottore in giurisprudenza e praticante avvocato. Impegnato nelle aule di giustizia, coniuga la pratica forense con una profonda passione per il diritto, che lo spinge a riflettere, approfondire e condividere i propri pensieri attraverso la scrittura. Il suo obiettivo è quello di contribuire al dibattito giuridico con spirito critico e rigore professionale.

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