“Diritto al sole e alla primavera” al tempo del Covid-19: è un diritto costituzionalmente tutelabile?

“Diritto al sole e alla primavera” al tempo del Covid-19: è un diritto costituzionalmente tutelabile?

Quello che stiamo vivendo è un momento storico unico in tutta la sua drammaticità.

Le sue infauste conseguenze e l’impatto socio-economico sono stati a ragione paragonati agli effetti di un conflitto, ancorché si tratti di una guerra senza armi, senza nemico e senza un esito chiaro.

L’avvento improvviso di questo nemico nella vita degli esseri umani, già dal momento della sua genesi nella provincia cinese dell’Hubei, ha messo in crisi un sistema esistenziale, sociale e relazionale ormai saturo di libertà.

A prescindere dal sistema politico degli Stati in cui esso ha colpito con più ferocia, Cina, Italia, Spagna, USA, è indubbio che l’effetto negativo che ne è scaturito abbia precluso radicalmente l’esercizio di certi diritti essenziali, se non addirittura vitali, posti alla base non tanto dello stato di diritto, quanto invece dell’ “essere uomo”.

In questa corsa senza meta, l’Italia, impreparata ma non inesperta, si è resa l’apri fila occidentale di un meccanismo di autodifesa completamente originale, costruito quanto più possibile nel solco del sistema ordinamentale e valoriale, che al momento esige di mettere al vertice il diritto alla salute consacrato nell’art. 32 Cost.

Ciò, non solo per lenire la gravità dell’epidemia e la sua irrazionale capacità di diffusione, quanto piuttosto per scongiurare il collasso del sistema sanitario nazionale, stremato dall’impossibilità di far fronte ad un numero impressionante di contagi e decessi, soprattutto nell’Italia del nord.

Nel giro di pochi giorni, abbiamo così assistito all’incedere di una serie Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, la cui funzione è stata quella di dare attuazione al Decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6: tali decreti, in maniera graduale e attenta, quanto possibile, al bilanciamento dei diritti confliggenti, hanno ridotto le nostre libertà o, più propriamente, quei piccoli piaceri quotidiani di cui ci eravamo viziati e deliziati nel corso della nostra esistenza.

Siamo stati spettatori sbalorditi di un contenimento fisico e spirituale della libertà di “fare” e di “essere” che ci rendeva traboccanti di pretesi e indiscussi diritti, alcuni del tutto immaginari, forti nella convinzione della loro intangibilità assoluta.

Questa pretesa, o forse presunzione, non ha mai indotto, noi cittadini liberi, a domandarci se, quando e perché questi diritti sarebbero stati legittimamente limitati, né a voler accettare che un diritto trascendente, come quello alla salute collettiva, potesse imporsi sulle nostre situazioni particolari ed egoistiche.

È altrettanto indubbio che tale difesa delle nostre pretese, questa ostinata indisciplina dinnanzi alla nuova situazione, trova forse una sua legittima ratio in anni e anni di implementazione giurisprudenziale di quell’art.2 Cost., che è ragione e compendio di tutti i diritti fondamentali meritevoli di tutela.

Negli anni, siamo stati deliziati da un’esegesi della norma alquanto elastica, comprensiva di una pluralità di diritti non espressamente tipizzati nella Carta costituzionale, che trovano il loro addentellato nel concetto di “diritti inviolabili dell’uomo”.

In essi si raccolgono i diritti intangibili che l’individuo possiede sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art.2 Cost.).

È proprio nel concetto di formazione sociale che risiede il focus dell’essenza umana, l’essere cioè la persona proclive all’assembramento, alla socialità e socilizzazione, al rapporto verbale e materiale con gli altri.

In altre parole lo svolgimento della personalità nel contesto delle formazioni sociali, ivi comprese quelle famigliari e affettive, è l’elemento irrinunciabile alla vita, che l’emergenza COVID 2019 ha seriamente dissestato.

Alla luce di tutto questo, le persone hanno iniziato a domandarsi con indignazione se, nel ventaglio di questi diritti, rientri anche quello che la stampa ha curiosamente definito “diritto al sole e alla primavera” di cui, in particolare, sarebbero titolari i bambini che, forse più di tutti, risentono psicologicamente di questa improvvisa cattività.

Per comprendere questo bisogna intenderci sull’esatta portata dei diritti fondamentali della persona e sull’operatività del loro rispettivo bilanciamento.

In sostanza è necessario porsi due quesiti: il primo concerne l’ammissibilità e quindi la riconducibilità di un diritto atipico, quale quello per cui si discute, nel novero di quei diritti inviolabili che devono sempre essere garantiti; il secondo quesito attiene invece al bilanciamento e alla soccombenza dello stesso rispetto alla salute collettiva di cui all’art.32 Cost.

Per quanto il nomen appare eccentrico, il “diritto alla primavera” può essere sussunto nel combinato disposto degli artt.2 e 13 Cost., per esso intendendosi un’esplicazione della libertà personale di poter godere della natura, dell’ambiente, dell’effetto benefico della bella stagione che, scientificamente, produce effetti ciclici positivi nello svolgersi della vita umana.

Questa prerogativa diviene ulteriormente potenziata se la si concepisce riferita ai bambini, anziani o ai soggetti diversamente abili, per i quali l’esigenza di stare all’aperto è assolutamente imprescindibile.

Non serve una esegesi tecnico-giuridica di tali norme per asserire che, senza ombra di dubbio, l’interesse personale al godimento dell’aria e del sole non è solo una condizione apparentemente incoercibile, ma addirittura connessa alla salvaguardia dell’equilibrio psico-fisico dell’individuo preservato dall’art.32 Cost.

Del resto, come si è accennato in precedenza, l’art.2 Cost. deve essere inteso come precetto posto a chiusura di tutto ciò che attiene all’essenza umana e allo sviluppo della personalità e nel quale confluiscono tutti quei diritti altrettanto irrinunciabili che non trovano espresso richiamo nelle norme costituzionali.

Viene in risalto, non tanto il diritto inviolabile come mezzo mediato allo scopo finale, quanto come valore-uomo, autonomo, dotato di esistenza ed attuazione propria, come tale risarcibile per il sol fatto dell’ingiusta lesione.

Il problema si pone nel momento in cui tali libertà – che in condizioni normali sono indiscutibili poiché preesistenti allo stato diritto – si pongono in conflitto con un interesse altrettanto pari: la salute collettiva.

Questo bilanciamento non si è mai posto tanto in evidenza quanto in questo momento storico, dove la tutela della salute collettiva è divenuta il fulcro delle priorità nazionali.

La vexata quaestio ha toccato il suo apice a seguito della Circolare del Ministero dell’Interno datata 31 marzo 2020 con cui, tra numerose polemiche, si è tentato di puntualizzare in maniera espansiva le restrizioni governative circa la possibilità, per i bambini ed anziani, di poter passeggiare all’aria aperta nel rispetto di precisi limiti e condizioni.

Senonché la presa di posizione di talune amministrazioni locali, già destabilizzate dagli effetti “a macchia di leopardo” scaturiti dai summenzionati decreti, hanno indotto il Viminale a ribadire l’esigenza di contenimento assoluto, rivedendo restrittivamente le puntualizzazioni di cui sopra.

Se da un lato, infatti, taluni hanno affermato l’irriducibilità delle garanzie minime di libertà, ora denominate diritto alla primavera, dall’altro si è ritenuto di dover impedire categoricamente qualunque forma di accondiscendenza, indipendentemente dai destinatari delle nuove direttive.

Quale delle due posizioni debba prevalere non dovrebbe trovare risposta tanto nel comune sentire individuale, quanto nelle scelte più convenienti e opportune al superamento dello stallo emergenziale.

Allo scopo appare evidente che, nel bilanciamento d’interessi, debba prevalere, a ragione, la tutela della salute pubblica.

L’art.32 comma 1 Cost. prevede che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.

Il bene salute si pone dunque su due livelli: quello individuale e inviolabile, correlato alla gratuità del sistema sanitario nazionale e quello collettivo, il quale ben potrebbe giustificare il ricorso a misure estreme incidenti anche sulla libertà individuale, di cui all’art.13 Cost.

Le misure in questione sono state quelle adottate con i DPCM che, come noto, hanno natura di atti formalmente riconducibili al potere regolamentare, la cui potestà è consacrata nell’art.17  L.400/1988.

In tal senso, gli atti in questione devono ritenersi coerenti sia con il principio di legalità sostanziale che plasma il potere esecutivo, quale è quello del Presidente del Consiglio, sia con il principio di riserva di legge di cui all’art.32 Cost., ravvisandosi la fonte primaria proprio nella L.400/88.

Nel caso di specie, i DPCM si sono posti come misure attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6 recante “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.52 del 1 marzo 2020.

In tale senso la fonte primaria di riferimento all’esercizio del potere regolamentare è individuata nella decretazione d’urgenza, ai sensi dell’art.17 comma 1, let.a) L.400/1988, la cui forza di legge è suffragata dall’art.77 Cost.

Talché, quale forma di esercizio del potere d’attuazione, gli ultimi DPCM si sono imposti come  atti con cui l’organo preposto è stato autorizzato a ponderare la tutela della salute pubblica – in termini di efficienza, efficacia e potenziamento – e il diritto alle libertà individuali, tenuto conto “dell’evolversi della situazione epidemiologica, del carattere particolarmente diffusivo dell’epidemia (rectius pandemia) e dell’incremento dei casi sul territorio nazionale”.

E proprio tra le libertà sacrificate possono, a ben vedere, essere ricondotti il diritto di camminare all’aria aperta, ma soprattutto la ben più importante esigenza di assistere l’integrità psico-fisica delle categorie sociali deboli, quali i bambini, gli anziani e i portatori di handicap, per i quali l’attività fisica all’aperto costituisce presupposto, non della libertà, ma della salute vera e propria.

Inidonea a tale scopo è la Circolare del Ministero dell’Interno, la cui natura pacificamente non normativa, ma amministrativa autonoma, rende l’atto un mero documento d’enunciazione, certamente inadeguato a produrre effetti fuori dell’ordinamento d’appartenenza, circoscritto all’autoregolamentazione degli uffici e degli organi; ad un tempo, anche all’interno di tale ordinamento, essa non ha alcuna forza derogatoria rispetto agli atti regolamentari.

Sarebbe stato quindi appropriato un contenuto della Circolare che si fosse limitato a mere puntuazioni dei Decreti governativi (come poi si è avuta la premura di specificare), onde consentire una quanto più possibile omogeneità interpretativa da parte delle amministrazioni locali delle prescrizioni ivi contenute sul territorio nazionale.

Altro è ritenere che le direttive contenute nella Circolare si aggiungono, o addirittura deroghino, alle disposizioni dei decreti, incidendo sul contenuto e introducendo – come in apparenza è sembrato – un regime più elastico e non univocamente interpretabile dalla cittadinanza.

Cosicché, tornando alla questione del bilanciamento di interessi, ciò che è stato definito diritto al sole e alla primavera, non potrà essere oggetto di valutazione e disposizione per mezzo di un tale atto, la cui natura non solo esula dalla competenza richiesta, ma nemmeno riveste il rango di fonte del diritto.

L’incidenza su interessi costituzionalmente rilevanti potrà esservi però per mezzo dei decreti governativi che, in quanto atti regolamentari, e dunque fonti del diritto, sono ontologicamente idonei a realizzare scelte d’opportunità così importanti ed estreme.

Siffatti decreti, trovando legittimazione nella fonte legale primaria si rendono strumenti idonei, alla gestione tempestiva di situazioni c.d. d’urgenza e necessità che, talvolta, impongono una scelta volta al sacrificio dell’uno o dell’altro diritto in gioco, quantunque entrambi siano diritti fondamentali, ossia ordinariamente di pari grado.

In un tale contesto la tutela della salute collettiva viene così a prevalere, non solo sulle libertà esistenziali, ma anche sulla salute individuale connessa al bisogno impellente di aria e di sole; bisogno del quale si era già compiuto opportuno bilanciamento nei summenzionati decreti, senza necessità di ulteriori specificazioni.

In definitiva è possibile asserire che, sebbene il diritto alla salute pubblica rientri tra i diritti fondamentali, per i quali la Costituzione non stila certo una gerarchia, esso, in questo momento storico, deve ritenersi prevalente rispetto agli altri.

La custodia dell’integrità sanitaria collettiva, necessita d’essere anteposta a quei diritti particolari legati al libero sviluppo dell’essere umano e alla sua capacità d’aggregazione, per quanto questi siano essenziali e intangibili in condizioni non extra ordinem.

Tra questi anche la salute individuale, la quale deve essa stessa conformarsi al pubblico interesse, nei limiti della ragionevolezza, ma non viceversa.

Ciò, quante volte l’esposizione all’aria e al sole di bambini, anziani e altri soggetti fragili, renda serio e concreto il rischio d’un pregiudizio generale, che può rendersi incontrollato a causa delle scarse conoscenze scientifiche in materia di diffusione del virus, dell’impossibilità materiale per le strutture sanitarie di far fronte al sovra affollamento e del differente (quanto pericoloso) modo delle persone di interpretare il contenuto di disposizioni non proprio chiare e univoche.


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