Il potere discrezionale del Giudice nella commisurazione della pena ex art. 132 c.p.

Il potere discrezionale del Giudice nella commisurazione della pena ex art. 132 c.p.

Il principio di legalità e di tassatività della normativa penale impone la previa determinazione della pena, poiché chi commette un reato deve conoscere le conseguenze che ne derivano.

Durante l’era dell’Illuminismo, il concetto di tassatività fu estremizzato fino a creare un sistema di pena fissa da parte del legislatore: il giudice era chiamato ad accertare solo l’atto commesso, senza alcuna discrezionalità sulla quantità e sulla tipologia della sanzione.

Al contrario, prima dell’era delle codificazioni, vigeva un sistema “a discrezione assoluta” in cui il giudice stabiliva la sanzione da infliggere senza alcun limite: il legislatore delegava al giudice la scelta della pena, configurando così una “sovranità giurisdizionale”.

La soluzione intermedia, adottata oggi nei codici moderni, è chiamata “principio della discrezionalità vincolata”, che rappresenta un punto di incontro tra il principio di precisione della legge penale e la necessità di individualizzare la giusta pena caso per caso. Infatti, è impossibile per il legislatore disciplinare e descrivere tutte le possibili manifestazioni di un determinato reato e stabilire una pena adeguata al caso concreto. Pertanto, la soluzione consiste nel prevedere un limite massimo e minimo o la possibilità di scegliere tra diverse pene per il reato, lasciando al giudice il potere di discrezione nella determinazione della pena.

Quando si parla di commisurazione della pena, si fa riferimento sia alla misura della pena da infliggere (commisurazione in senso stretto), nel rispetto dei limiti imposti dal legislatore, sia alla scelta tra diverse pene previste per un reato (commisurazione in senso lato)

Secondo l’articolo 132 del codice penale, l’esercizio della discrezionalità rappresenta un obbligo per il giudice e non una facoltà, poiché deve necessariamente analizzare gli elementi specifici del caso e motivare la sua scelta. D’altro canto, l’obbligo di motivazione rappresenta la possibilità di controllare l’esercizio del potere discrezionale del giudice.

Tuttavia, nella pratica, l’obbligo di motivazione risulta attenuato secondo un principio consolidato nella giurisprudenza: il giudice può non motivare in modo dettagliato o utilizzare espressioni come “pena equa” o “pena adeguata” per considerare soddisfatto l’obbligo di motivazione quando viene inflitta la pena minima prevista o comunque una pena vicina al minimo stesso. Al contrario, se la pena inflitta risulta superiore alla media prevista, secondo un principio della Corte Suprema, si richiede una motivazione specifica e dettagliata. Secondo questo principio, si può affermare che quanto più il giudice esercita il potere discrezionale, tanto più sarà obbligato a motivarlo.

Ai sensi dell’articolo 132 del codice penale, il giudice deve determinare la pena da infliggere tenendo conto della gravità del reato e della capacità del reo di commettere reati. Il giudice deve quindi effettuare una doppia valutazione che non si limita solo agli elementi di fatto, ma analizza anche la personalità di chi commette il reato.

Secondo il primo comma dell’articolo citato, la gravità del fatto deve essere valutata:

– in base alla natura, alla specie, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo e ad ogni altra modalità dell’azione (ad esempio, la crudeltà, i mezzi, il luogo e il tempo dell’esecuzione influiscono);

– in base alla gravità del danno o del pericolo causato alla persona offesa dal reato (ad esempio, nel caso di un tentato omicidio, il grado di lesioni causate nel tentativo di uccidere la vittima);

– in base all’intensità del dolo o al grado di colpa. La capacità delinquenziale, invece, deriva dagli elementi forniti dal legislatore nel secondo comma:

– dai motivi e dal carattere del reo, intendendo con motivo lo stimolo che spinge il reo a commettere il reato e con carattere il rapporto tra fattori interni ed esterni dell’autore che contribuiscono a formare la sua personalità;

– dagli precedenti penali e giudiziari e, in generale, dalla condotta e dalla vita del reo prima del reato;

– dalla condotta contemporanea o successiva al reato;

– dalle condizioni di vita individuali, familiari e sociali del reo.

Sul tema della capacità delinquenziale, la dottrina è divisa sul dibattito riguardante il rapporto temporale tra tale capacità e l’azione criminosa: secondo una corrente, la capacità delinquenziale deve essere valutata “nel passato”, come una sorta di predisposizione al reato commesso; un’altra parte della dottrina, considerando la capacità delinquenziale “nel futuro”, tende a identificarla come una predisposizione a commettere eventuali nuovi reati.

In definitiva, nell’applicare la pena ai sensi dell’articolo 133 del codice penale, il giudice, a sua discrezione, deve tenere conto sia della funzione retributiva della pena, sia del grado di capacità delinquenziale del reo. Pertanto, valutando la gravità del fatto (in senso oggettivo), il giudice determinerà la misura iniziale della pena, che potrà poi essere aumentata o diminuita valutando la gravità dal punto di vista soggettivo (grado di dolo o colpa). Solo successivamente e in maniera complementare, il giudice analizzerà la capacità delinquenziale del reo, aumentando o diminuendo ancora una volta la pena, in un’ottica di retribuzione e prevenzione connessa alla pena inflitta.


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