La confisca: un istituto dalla natura variegata

La confisca: un istituto dalla natura variegata

Sommario: 1. Premessa – 2. La confisca tra le misure di sicurezza – 3. Confisca come pena – 4. La confisca tra le misure di prevenzione – 4.1 Segue: confisca allargata e questioni giurisprudenziali

1. Premessa

La confisca consiste nell’espropriazione, da parte dello Stato, di cose attinenti a un reato o di per sé criminose.

Nell’attuale codice essa è esplicitamente qualificata come misura di sicurezza patrimoniale, ciononostante la sua natura è da sempre un tema dibattuto in dottrina e giurisprudenza sia nell’ambito delle misure patrimoniali sia nell’ambito delle misure di sicurezza personali.

Ed, invero, parte della dottrina esclude che la confisca rappresenti una misure di sicurezza, preferendo altresì la qualificazione di pena con la conseguente applicazione di tutte le garanzie previste in tema di pene.

A sostegno di tale tesi si adduce, anzitutto, che la confisca risulta svincolata dal normale accertamento della pericolosità sociale del reato (previsto per le misure di sicurezza), sul fondamento che l’art. 236, co. 2°, c.p. afferma esplicitamente «alla cauzione di buona condotta si applicano altresì le disposizioni degli artt. 202-203 c.p. …», escludendo implicitamente che tale accertamento (ossia quello inerente al concetto di pericolosità sociale del reo) debba svolgersi anche con riguardo alla confisca.

Si è, inoltre, evidenziato che, contrariamente a quanto avviene per le misure di sicurezza personali, l’applicazione della confisca è strettamente collegata alla punibilità dell’individuo e non anche alla sua pericolosità, posto che essa può essere disposta solo nel caso di condanna, salvo che si tratti dell’ipotesi di cui al 240, co. 2, n. 2 c.p..

Ulteriore argomento a sostegno della tesi che esclude la configurabilità della confisca in termini di misura di sicurezza è dato dalla caratteristica della sua irrevocabilità, a dimostrazione implicita di un atteggiamento di generale indifferenza rispetto al successivo comportamento tenuto dal soggetto nei cui confronti è stata disposta.

A conclusioni opposte giunge altra parte della dottrina e la giurisprudenza unanime, ritenendo che la pericolosità sociale caratterizzante la confisca (in quanto concetto non unitario) non avrebbe ad oggetto la persona come normalmente avviene per le misure di sicurezza, bensì la cosa e la relazione tra la cosa e il soggetto che la possiede.

La qualificazione della confisca in termini di misura di sicurezza e non di pena comporta l’applicazione di una serie di principi, tra cui quello del tempus regit actum di cui all’art. 200 c.p. e non l’opposto principio di irretroattività in peius della norma penale ai sensi dell’art. 25, co. 2 Cost.

Nonostante ciò, da sempre la giurisprudenza comunitaria, sul presupposto che il concetto di sanzione non va riferito a un criterio formale bensì a un criterio sostanziale, ha via via rafforzato il sistema di tutele applicabile alla confisca, influenzando la giurisprudenza nazionale e conducendo ad una riqualificazione in termini di pena di alcune tipologie di confisca, ossia la c.d. confisca per equivalente, la confisca urbanistica e la confisca dell’autoveicolo ex art 186, co. 2, lett. C), cod. strada.

2. La confisca tra le misure di sicurezza

Anzitutto, il comma 1° dell’art 240 c.p. disciplina la c.d. confisca facoltativa ossia i casi in cui il giudice «può ordinare» la confisca dei beni a seguito di una decisione discrezionale, la cui ratio si ravvisa nella necessità di svolgere una concreta valutazione sull’idoneità delle cose a costituire uno stimolo per il reo alla commissione di nuovi reati.

Essa può avere ad oggetto le cose effettivamente utilizzate dal reo e che servirono a commettere il reato, il prodotto del reato (inteso come risultato fattuale dell’esecuzione del reato) e il profitto del reato ossia il vantaggio economico derivante dalla sua commissione.

Particolarmente problematico è stato il concetto di profitto del reato, oggetto di numerosi dibattiti interpretativi che possono essere sintetizzati nei termini che seguono.

Una prima questione ha riguardato la possibilità di aggredire esclusivamente il vantaggio direttamente e immediatamente derivante dal reato o, anche, tutti quei vantaggi derivanti in via indiretta e mediata.

Sul punto, inizialmente la dottrina adottava una tesi restrittiva richiedendo che fosse necessaria la presenza di un nesso eziologico con il reato commesso, per evitare un’applicazione eccessivamente estesa e indeterminata.

Diversamente, le S.U. [1]hanno accolto una nozione allarga di profitto del reato, assoggettando a confisca non solo i beni che l’autore del reato ottiene come effetto diretto e immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia una semplice conseguenza mediata e indiretta dell’attività criminosa.

Tale tesi è stata sottoposta a un leggero correttivo da parte di un successivo intervento delle S.U. nel 2008 le quali, pur confermando la tesi estensiva, hanno comunque evidenziato la necessità di un rapporto causale tra profitto e reato.

Ulteriore questione interessante è quella riguardante la confisca del denaro, ponendosi il problema se essa possa essere qualificata come confisca diretta o come confisca per equivalente, attesa la fungibilità del denaro e, dunque, la commistione tra denaro lecito e illecito.

Sul tema, la giurisprudenza di legittimità [2]ha affermato che la confisca delle somme depositate in conto corrente, ammessa in qualità di confisca del profitto illecito derivante dall’attività criminosa, è sempre confisca diretta, indipendentemente dalla natura del denaro come bene fungibile.

In altre parole, anche laddove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro che depositata nel conto corrente si confonde con altro denaro lecito, il giudice potrà comunque disporre la confisca di quel tot di denaro, prescindendo dalla prova che esso sia lecito o sia proprio quello che proviene dal fatto illecito.

Ciò che rileva è esclusivamente che la massa monetaria dell’autore dell’illecito si sia accresciuta di una somma illecita, non essendo necessario verificare se il denaro che viene confiscato è quel denaro frutto dell’attività illecita o se sia altro denaro di provenienza lecita, perché ad essere confiscato è pur sempre il denaro e non un bene diverso.

Diversamente, la confisca per equivalente avrà luogo solamente nell’ipotesi in cui non vi sia la materiale disponibilità della somma di denaro sul conto corrente, poiché in tal caso la legge ammette la possibilità di confiscare altri beni di disponibilità dell’imputato e per un valore corrispondente al prezzo o profitto del reato.

Si tratta di un tema caldo atteso che la questione è stata recentemente riproposta all’attenzione delle S.U., chiedendosi se il principio appena analizzato possa trovare applicazione anche se vi sia la prova certa che il denaro che si va a confiscare non proviene dal reato. Al riguardo, a parere dei giudici rimettenti, ammettere la confisca del denaro anche in tale ipotesi sarebbe espressione di una finalità punitiva, il che la renderebbe assimilabile alla confisca per equivalente.

Le S.U. si sono espresse sul tema ribadendo che «la confisca del denaro è sempre confisca diretta, anche se la parte fornisce la prova che deriva da un titolo lecito»[3]. Più precisamente le S.U., ribadendo l’orientamento espresso dalle S.U. Lucci 2015, affermano che «qualora il profitto derivante dal reato sia costituito dal denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l’ablazione del denaro comunque rivenuto nel patrimonio del soggetto fino alla concorrenza del valore del profitto medesimo e deve essere qualificata come confisca diretta e non per equivalente».

L’art. 240, co. 2, n. 1 c.p. disciplina la c.d. confisca obbligatoria, prevedendo che sia sempre ordinata la confisca delle cose che costituiscono il prezzo del reato, dei beni e degli strumenti informatici o telematici che sono stati utilizzati per la commissione di una serie di reati elencati dalla norma, nonché la confisca delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato.

In conclusione, la confisca diretta (che sia facoltativa o obbligatoria), secondo l’orientamento tradizionale, assume i tratti di una misura di sicurezza avente la finalità di neutralizzare la pericolosità sociale della res, nel rapporto con l’autore del reato, proprio perché caratterizzata da questo rapporto di pertinenzialità tra beni e reato

3. Confisca come pena

Anzitutto la confisca per equivalente o per valore ex art 322-ter è espressione di un maggiore tasso di afflittività del sistema processuale penale, che però trova applicazione solamente nei casi espressamente previsti dalla norma e solamente laddove la confisca diretta non è utilizzabile.

Tale istituto permette allora di confiscare un bene diverso e di operare, dunque, in assenza di un nesso di pertinenzialità tra oggetto della misura e reato, assumendo i caratteri propri di una pena, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di garanzie procedurali.

In altre parole, la possibilità di aggredire anche beni lecitamente appresi fino al concorrente con quanto dall’autore illecitamente appreso, ha condotto a riconoscere alla confisca di valore un carattere sanzionatorio, con l’applicabilità delle garanzie previste dall’art 7 CEDU per le sanzioni penali e dalla Costituzione, all’art. 25 co. 2, per le pene, e particolarmente il divieto di applicazione retroattiva in peius.

Altrettanto può dirsi per quanto concerne la confisca urbanistica di cui all’art. 44, co. 2, T.U. edilizia il quale dispone che «la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite».

In passato si sosteneva la natura amministrativa di tale misura, indipendentemente dalla condanna nel processo penale, scaturendone tutta una serie di conseguenze rilevanti dal punto di vista pratico come il fatto che poteva essere disposta anche in assenza di una formale pronuncia di condanna dell’autore della lottizzazione e quindi pure nel caso di un procedimento penale estinto per prescrizione oppure che non necessitava dell’accertamento di alcun coefficiente soggettivo a dimostrazione della personale rimproverabilità dell’autore del fatto illecito.

Successivamente la Corte EDU (20 gennaio 2009 e 10 maggio 2012) è intervenuta sul tema riconoscendo la natura di sanzione sostanzialmente penale alla confisca urbanistica, atteso il suo carattere punitivo e del collegamento con la commissione di un reato.

Nonostante il riconoscimento della natura sostanzialmente penale della confisca urbanistica, la giurisprudenza nazionale continuava a farne applicazione in assenza di una formale sentenza di condanna che esprimesse la responsabilità penale dell’autore della lottizzazione abusiva, ritenendo che fosse sufficiente un mero accertamento della responsabilità, valido «anche se per una causa quale l’intervenuto decorso della prescrizione non si pervenga alla condanna del suo autore e all’inflizione della pena»[4].

Di avviso completamente opposto, la Corte Edu nel caso Varvara c. Italia (29 ottobre 2013) ha affermato che occorreva non un mero accertamento della responsabilità, bensì una condanna, in assenza della quale si configura una violazione del principio di legalità della pena di cui all’art 7 della Convenzione.

Con un successivo intervento, in opera chiarificatrice, la Grande Camera della Corte Edu (sentenza 28 giugno 2018) ha chiarito il significato di condanna precedentemente inteso, affermando che sia sufficiente e necessaria solamente una condanna in senso sostanziale. Più precisamente, è stata dichiarata la compatibilità con l’art 7 della Convenzione della confisca urbanistica disposta a seguito di un accertamento che, pur non avendo le caratteristiche formali della condanna, ne presenti tutti i requisiti sostanziali.

Da ultimo, è intervenuta nuovamente la Cassazione[5] ribadendo che il proscioglimento per intervenuta prescrizione non osta alla confisca del bene lottizzato allorquando sia stata accertata, con adeguata motivazione, la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva nei suoi elementi oggettivi e soggettivi.

4. La confisca tra le misure di prevenzione

Scopo delle misure di prevenzioni patrimoniali e, in particolar modo, della confisca è quello di sottrarre alla criminalità organizzata beni e denaro di origine illecita, tutelando al contempo il corretto funzionamento del mercato che verrebbe alterato all’ingresso di beni illeciti.

Essa si differenzia dalla confisca-misura di sicurezza in quanto la sua operatività è subordinata non al verificarsi di un fatto di reato, bensì a un giudizio positivo di pericolosità espresso nell’ambito di un procedimento di prevenzione. Questa caratteristica permette, altresì, di sganciare la confisca dall’accertamento del nesso di pertinenzialità beni-reato, potendo diversamente avere ad oggetto qualsiasi bene nella disponibilità del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, purché ricorra un ulteriore requisito.

Ed, invero, ulteriore presupposto applicativo della confisca di prevenzione è «la ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita», operante allorquando vi è una sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o all’attività economico dell’individuo.

In altre parole, il legislatore presume che la ricchezza, accumulata dal soggetto in un rapporto di connessione temporale e ragionevole rispetto al reato di cui è sospetto, sia stata ricavata svolgendo un’attività criminale, anche in virtù del fatto che l’individuo non riesce a giustificarne la provenienza.

Recentemente la Corte cost. con la sentenza n. 33 del 2018, in tema di rapporti tra la confisca classica e la confisca di prevenzione, ha affermato che quest’ultima nasce proprio in funzione «dell’esigenza di superare i limiti efficacia della confisca penale classica: limiti legati all’esigenza di dimostrare l’esistenza di un nesso di pertinenza tra i beni da confiscare e il singolo reato per cui è pronunciata condanna. Le difficoltà cui tale prova va incontro hanno fatto sì che la confisca tradizionale si rivelasse inidonea a contrastare in modo adeguato il fenomeno dell’accumulazione di ricchezze illecite da parte della criminalità…».

Stesso discorso vale per la confisca c.d. «allargata» oggi prevista dall’art. 240-bis c.p., la quale si fonda, per l’appunto, «sulla presunzione che le risorse economiche, sproporzionate e non giustificate, rinvenute in capo al condannato derivino dall’accumulazione di illecita ricchezza che talune categorie di reati sono ordinariamente idonee a produrre»[6].

Insomma, in entrambi i casi, la presunzione che determinati beni siano stati acquistati con i proventi di attività illecite (come tali confiscabili) si fonda sul riscontro della sproporzione tra i beni da confiscare e il reddito o l’attività economica del soggetto, con l’unica differenza che la confisca ex art 240-bis c.p. è legata alla condanna di alcuni reati c.d. spia.

Ricostruita la ratio di entrambi le tipologie di confisca in tali termini, la giurisprudenza nel corso degli anni ha tentato di circoscrivere i beni oggetto di confisca, delimitandoli a quelli acquisiti in un arco temporale ragionevolmente correlato a quello in cui il soggetto risulta aver realizzato l’attività criminosa.

Infatti, la Cassazione[7] ha, per l’appunto, chiarito che la connessione temporale è funzionale a individuare un limite all’ambito di applicazione tanto della confisca di prevenzione quanto della confisca allargata, presumendo a tal fine che il reato è stato commesso con riferimento al lasso temporale nel quale si è verificato l’incremento patrimoniale.

Ed infine, circa la loro natura giuridica, è ormai pacifico che la presunzione relativa di origine illecita dei beni non è sufficiente a giustificare la natura sostanzialmente sanzionatoria-punitiva delle confische in analisi[8].

Difatti, scopo di tali misure non è tanto quello di punire il soggetto che abbia realizzare una condotta illecita, bensì di prevenire l’alterazione del mercato e ripristinare la legalità eliminando quei beni illeciti dal circuito economico.

Da ciò se ne deduce il carattere meramente ripristinatorio delle misure in analisi, inteso come finalità di ripristinare la situazione che si sarebbe avuta in assenza dell’illecita acquisizione del bene.

Nonostante, come appena detto, sia stata espressamente esclusa la natura penale della confisca di prevenzione e della confisca allargata, trattandosi, tuttavia, di misure in grado di incidere sui diritti di proprietà e sulla libertà di iniziativa economica, tutelati a livello costituzionale e convenzionale, esse devono rispettare una serie di condizioni di legittimità che possono essere sintetizzate nei termini che seguono.

È necessaria una previsione legislativa e una base legale in grado di garantire la loro futura possibile applicazione; il rispetto dei requisiti di necessarietà e di proporzionalità rispetto agli obiettivi che devono essere perseguiti ed infine la necessità che vengano applicate all’esito di un procedimento che garantisca il rispetto dei canoni del giusto processo.

4.1 SEGUE: confisca allargata e questioni giurisprudenziali

Di particolare interesse, è il tema dei presupposti applicativi della c.d. confisca allargata (istituto che si è precedentemente analizzato), dato il recente intervento delle S.U.[9] le quali hanno affermato che il criterio della ragionevolezza temporale opera anche nella fase esecutiva.

Invero, in motivazione si osserva che senza il criterio della ragionevolezza temporale rispetto al reato presupposto verrebbero sostanzialmente meno le differenze con la confisca di prevenzione.

Al riguardo la Cassazione afferma che «il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di confisca ex art 240-bis c.p., può disporla esercitando gli stessi poteri attribuiti al giudice della cognizione, nel rispetto tuttavia del principio di «ragionevolezza temporale» in ordine ai beni che sono entrati nella disponibilità dl condannato fino al momento della pronuncia della sentenza per il c.d. «reato spia».

Se fosse consentita la conduzione sine dis di indagini patrimoniali per l’individuazione dei beni pervenuti al condannato anche in tempi ad essa successivi, si consentirebbe un’esplorazione continua ed illimitata analoga a quella che l’art 19 d.lgs. 159 del 2011 consente per la formulazione della proposta di applicazione della misura di prevenzione reale».

È stato correttamente osservato in dottrina che tale criterio impedisce la abnorme dilatazione della sfera di operatività dell’istituto in analisi e al contempo impedisce anche il monitoraggio patrimoniale dell’intera vita del soggetto, sebbene condannato per un singolo reato compreso nella lista.

A detta della Cassazione il medesimo criterio della ragionevolezza temporale, con analoghi effetti e finalità, deve essere riferito anche alle situazioni in cui l’acquisizione patrimoniale si collochi in un momento successivo alla perpetrazione del reato spia e l’intervento ablatorio sia richiesto al giudice dell’esecuzione.

Diversamente da quanto osservato dalla Sezione rimettente, lo scrutinio sulla ragionevolezza temporale non è estraneo e non opera su un piano diverso rispetto all’ambito oggettivo della confiscabilità dei beni in sede esecutiva. Inoltre, nella prassi giudiziaria non è infrequente che i tempi di avvio e di definizione anche solo in primo grado del processo si distacchino notevolmente dalla consumazione dell’illecito sorgente.

Dalle premesse poste deve pervenirsi alla conclusione che il momento dell’acquisto dei beni da sottoporre a confisca non è indifferente alla dimensione temporale del reato presupposto, ma deve risultare a distanza ragionevole dallo stesso, tanto se antecedente, come se successivo.

Tale limitazione temporale concorre anche ad individuare nella emissione della sentenza di condanna o di patteggiamento, non nella data di irrevocabilità, il termine ultimo ed invalicabile di operatività della presunzione di provenienza illecita dei beni del condannato di valore sproporzionato al reddito o all’attività svolta, che il giudice deve sempre rispettare sia se si pronunci nella fase di cognizione, sia che intervenga in sede esecutiva.

Tanto comporta che il riconoscimento della possibilità che un’acquisizione patrimoniale, collocata in un tempo successivo ma molto distanziato dal c.d. reato spia, renda irragionevole il giudizio presuntivo sulla sua origine criminosa, anche se antecedente al processo penale ed al momento di ricostruzione della responsabilità dell’imputato.

Al contrario, collocare il termine ultimo della confiscabilità dei beni nel momento di passaggio in giudicato della sentenza (che segue di anni l’avvio del processo penale e si distanzia ancor di più nella consumazione del delitto sorgente) significherebbe ignorare l’esistenza di ragionevolezza ed il parametro che garantisce la legittimità costituzionale della confisca per sproporzione.

Poiché l’affermazione della responsabilità dell’imputato può intervenire in gradi diversi a seconda dello sviluppo concreto del rapporto processuale e dell’impulso che vi diano le parti con la proposizione delle impugnazioni, per sentenza di condanna deve intendersi quella emessa dal giudice di merito in primo grado, in grado di appello o di rinvio in ipotesi di riforma di una precedente pronuncia assolutoria.

Inoltre, in situazioni di processi cumulativi sul piano oggettivo o soggettivo, la medesima osservazione va riferita alla statuizione adottata per ciascun reato presupposto e nei vari confronti di ognuno degli imputati chiamati a risponderne.

Pertanto, il momento finale di aggredibilità a fini di confisca del loro patrimonio potrebbe variare in dipendenza delle vicende riguardanti i singoli capi della sentenza. Va, infine, ribadita l’ammissibilità, pacifica per entrambi gli orientamenti interpretativi contrapposti, della confisca di beni pervenuti anche in data successiva alla sentenza come sopra individuata nei casi in cui i cespiti siano frutto del reimpiego di mezzi finanziari acquisiti in un momento antecedente alla sentenza stessa, oppure si tratti di denaro o di altri strumenti di investimento mobiliare, preesistenti alla sentenza e solo in seguito scoperti o rinvenuti, ossia di beni che si sarebbe potuto confiscare nel processo di cognizione.

 

 

 

 


[1] Cass. Sez. Un., 25 ottobre 2007, n. 10280, Miragliotta
[2] Cass. Sez. Un., 21 luglio 2015, n. 31617, Lucci
[3] Cass. Sez. Un., c.c. 27 maggio 2021, in ItalGiure Web
[4] Cass. Sez. III, 30 aprile 2009, n. 21188, in ItalGiure Web
[5] Cass. Sez. III, 23 gennaio 2019, n. 8350, in ItalGiure Web
[6] Corte cost. n. 33 del 2018, in www.giurcost.org
[7] S.U., 2 febbraio 2015, n. 4880, in ItalGiure Web
[8] Corte cost. sent. n. 24/2019, in www.giurcost.org
[9] S.U. 15 luglio 2021, n. 27421, in ItalGiure Web

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