La nozione di “Paesi di origine sicuri” nel D.lgs. n. 25 del 2008

La nozione di “Paesi di origine sicuri” nel D.lgs. n. 25 del 2008

La nozione di “Paesi di origine sicuri” nel D.lgs. n. 25 del 2008: i risvolti in punto di dovere di cooperazione istruttoria dell’autorità giudicante e di motivazione della decisione di rigetto della domanda di protezione interazionale

Sommario: 1. La matrice comunitaria della nozione di “Paese di origine sicuro” – 2.  L’attenuazione del principio dispositivo in ambito probatorio: la rilettura del dovere di cooperazione dello Stato alla luce del nuovo art. 2-bis del D.lgs. n. 25 del 2008 – 3. La mancata “dimostrazione” dei “gravi motivi” sotto il duplice profilo dell’onere di allegazione e dell’onere della prova. Considerazioni conclusive.

 

Abstract

Il presente contributo mira ad approfondire la questione relativa alle conseguenze derivanti dalla qualificazione di un Paese di origine come “sicuro”, ai sensi del nuovo art. 2-bis del D.lgs. n .25 del 2008 (introdotto dal D.L. n. 113 del 2018 come convertito dalla L. n. 132 del 2018), con particolare riguardo alle implicazioni in punto di dovere di cooperazione istruttoria dell’autorità giudicante e di motivazione della decisione di rigetto della domanda di protezione interazionale.

1. La matrice comunitaria della nozione di “Paese di origine sicuro”

Esercitando una facoltà espressamente attribuita agli Stati Membri dal diritto comunitario e, segnatamente, dall’art. 37 della Direttiva 2013/32/UE, il Legislatore nazionale ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dei “Paesi di origine sicuri”.

Tali sono i Paesi che, secondo la valutazione rimessa allo Stato Membro, rispondono ai criteri enucleati dall’Allegato I dalla Direttiva di riferimento.

Il rispetto dei criteri in questione, che attengono, in linea generale, alla democraticità ed alla situazione politica del paese, implica che non siano ritenute sussistenti nel paese designato, in via generale e costante, persecuzioni, né violazioni dei diritti umani rilevanti per l’accoglimento della domanda di protezione internazionale.

Sempre in base alla medesima Direttiva il richiedente, per poter essere qualificato quale beneficiario di protezione internazionale, deve invocare “gravi motivi” per ritenere che il paese di provenienza non sia un paese di origine sicuro nelle circostanze specifiche in cui egli si trova (cfr. art. 36, c. 1 della Direttiva).

La qualificazione di un paese di origine come “sicuro” in base ai criteri posti dal diritto comunitario determina, pertanto, per usare le stesse parole della Corte di Giustizia dell’Unione Europea una “presunzione relativa di protezione sufficiente nel paese di origine” che comporta “un regime particolare di esame della domanda” basato proprio su tale presunzione (cfr. CGUE 25 luglio 2018, causa C-404/17).

Uniformandosi alla quasi totalità degli altri Stati dell’Unione Europea, dunque, con L. n. 132 del 2018, di conversione del c.d. “Decreto Sicurezza” (D.L. n. 113 del 2018), il Legislatore ha modificato il D.lgs. n. 25 del 2008, inserendovi, tra l’altro, l’art. 2-bis.

Tale articolo prevede l’adozione di una lista dei Paesi di origine sicuri mediante Decreto Ministeriale (cfr. D.M. 4 ottobre 2019).

Sempre nell’esercizio delle facoltà riconosciute dalla Direttiva già citata, che prevede che ciascuno Stato Membro stabilisca norme e modalità inerenti all’applicazione del concetto di Paese di origine sicuro (art. 36, c. 2, Dir. 2013/32/UE), la Novella legislativa ha introdotto un regime procedurale ad hoc per lo scrutinio delle domande di protezione presentate da soggetti provenienti da paesi designati di origine sicuri ai sensi dell’articolo 2-bis.

Tale regime normativo si sviluppa, in un’ottica di semplificazione, sotto tre profili: il primo riguarda la disciplina dell’onere di allegazione e dell’onere della prova ed impone il superamento della presunzione relativa di sicurezza del paese di origine designato come sicuro (artt. 2-bis, 8, 9 e 27, c. 1-bis, D.lgs. n. 25 del 2008); il secondo riguarda i tempi della procedura d’esame della richiesta, che sono stati abbreviati (artt. 28 ss. D.lgs. n. 25 del 2008); il terzo riguarda, infine, l’efficacia sospensiva dell’impugnazione giudiziale del rigetto della domanda di protezione, che è stata esclusa (art. 35-bis, c. 3, D.lgs. n. 25 del 2008).

2. L’attenuazione del principio dispositivo in ambito probatorio: la rilettura del dovere di cooperazione dello Stato alla luce del nuovo art. 2-bis del D.lgs. n. 25 del 2008

Ai fini che qui interessano, occorre analizzare brevemente il primo profilo riportato, distinguendo, in particolare, il piano dell’onere di allegazione da quello dell’onere della prova.

Come noto, infatti, in materia di protezione internazionale vige un’attenuazione del principio della disponibilità delle prove che normalmente informa il processo civile.

Tale attenuazione vale, in realtà, tanto per il procedimento dinanzi alla Commissione Territoriale quanto per l’eventuale fase di impugnazione giudiziale del provvedimento che abbia rigettato la domanda.

Per il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della (ormai ex) protezione umanitaria, dunque, l’autorità giudicante (amministrativa o giudiziale), sulla base dei fatti specifici individuati ed allegati dalla parte, non è tenuta a servirsi solo delle prove che gli sono state offerte, ma, cooperando con il ricorrente, può disporre l’acquisizione di tutte quelle che ritiene necessarie per decidere (c.d. dovere di cooperazione istruttoria dello Stato).

Effettuate tali premesse, appare particolarmente rilevante determinare se ed in che modo l’introduzione nel nostro ordinamento della nozione di “Paese di origine sicuro” e della relativa disciplina abbia inciso sul dovere di cooperazione istruttoria dello Stato.

A tal fine, giova anzitutto esaminare l’art. 3 del D.lgs. n. 251 del 2007, che la Novella non ha modificato.

Tale norma, in particolare, pone a carico del richiedente tanto oneri di allegazione quanto oneri probatori.

Laddove l’art. 3 citato stabilisce che il richiedente “è tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda“, si riferisce, infatti, come si premetteva, tanto agli oneri di allegazione (in quanto il richiedente deve presentare, ed in tal senso allegare, gli elementi dedotti a sostegno della domanda), quanto a quelli probatori (in quanto il richiedente deve presentare, ed in tal senso produrre, la documentazione necessaria).

È ben possibile, tuttavia, che il richiedente, dopo aver assolto l’ineludibile onere di allegare le circostanze poste a sostegno della domanda di protezione internazionale, sia talora in condizione altresì di comprovarne il fondamento.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, egli, proprio in ragione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, possa non essere in grado di offrire la prova di dette circostanze: e tale è il contesto in cui la norma in esame tempera il principio dispositivo.

Stabilisce difatti il comma 5 del menzionato art. 3 che, qualora taluni elementi posti a sostegno della domanda di protezione internazionale non siano suffragati da prove – prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato – essi sono considerati veritieri ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda: – abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso ed abbia fornito una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; – abbia fornito dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone, e risulti altresì, in generale, credibile (cfr. Cass. civ., Sez. I, 12 giugno 2019, n. 15794)

La norma pone, dunque, un temperamento all’onere della prova (pur sempre) gravante sul richiedente, permettendo a quest’ultimo di assolverlo – o, meglio ancora, di sostituirlo – tramite le allegazioni stesse, alla condizione che esse rispondano alla valutazione di credibilità operata dall’autorità giudicante alla stregua dei criteri di cui all’art. 3, c. 5 (cfr. Cass. civ, Sez. I, 21 settembre 2020, n. 19697).

Ora, proprio sotto questo primo profilo viene in considerazione la Novella legislativa.

Come anticipato, infatti, un paese può essere qualificato come “Paese di origine sicuro” se si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della Direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale e che, pertanto, tale paese può prestare adeguata protezione all’interessato, il quale non può di conseguenza, mancandone i presupposti, beneficiare di alcuna forma di protezione.

Proprio per questo, al concetto di paese di origine sicuro – la cui lista dovrà essere periodicamente aggiornata – viene collegata una presunzione iuris tantum di manifesta infondatezza dell’istanza.

Ciò posto, la legge prevede che la presunzione relativa possa essere superata dal richiedente che abbia la cittadinanza di quel Paese (o sia un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese) qualora egli invochi “gravi motivi” per ritenere che il Paese in questione non sia sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova.

La sussistenza di tali motivi diviene così elemento posto a fondamento della domanda di protezione e, in quanto tale, deve essere dal richiedente allegata e documentata ex art. 3 del D.lgs. n. 251 del 2007.

Qualora non suffragata da prove, pertanto, l’asserita sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il paese di origine sarà ritenuta veritiera solo qualora risponda ai già richiamati criteri di cui all’art. 3, c. 5, D.lgs. n. 251 del 2007.

Ora, come noto, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, le dichiarazioni del richiedente che, sulla base degli indicatori di credibilità soggettiva di cui all’art. 3, c. 5, D.lgs. n. 251 del 2007, siano intrinsecamente inattendibili, non richiedono alcun approfondimento istruttorio ufficioso (cfr., tra le tante, Cass. n. 5224 del 2013; n. 7333 del 2015; n. 16925 del 2018; n. 15794 del 2019).

Ciò in quanto dalla formulazione dell’art. 3, c. 1 sovra indicato emerge inconfutabilmente che l’onere di cooperazione grava anzitutto sul richiedente (Il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione internazionale o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda […].)

L’assolvimento da parte dell’interessato dell’onere di cooperazione sullo stesso gravante, che si concretizza nell’assolvimento dell’onere di allegazione e dell’onere della prova – quest’ultimo eventualmente sostituito dalla positiva valutazione della credibilità soggettiva – è, dunque, preordinato all’innesco del c.d. onere di cooperazione istruttoria dell’autorità giudicante.

Tale onere, dunque, trova per espressa previsione normativa un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda.

Intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, dunque, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili.

Compete insomma al richiedente innescare l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria.

Qualora, al contrario, le allegazioni fornite dal richiedente – anche con funzione “probatoria” ex art. 3, c. 5 – superino il vaglio di credibilità soggettiva, solo allora si costituisce in capo all’autorità giudicante il c.d. dovere di cooperazione istruttoria.

Dall’analisi combinata dell’art. 2-bis, c. 5, D.lgs. n. 25 del 2008 e dell’art. 3, cc. 1 e 5, D.lgs. n. 251 del 2007, dunque, si può desumere che: grava sul ricorrente l’onere di allegare e documentare i “gravi motivi” atti a superare la presunzione di sicurezza del paese di provenienza; qualora egli non li provi, le sue dichiarazioni dovranno essere assoggettate al vaglio di credibilità intrinseca previsto dalla legge; se tale vaglio ha esito negativo, non si configura alcun onere di cooperazione istruttoria in capo all’autorità procedente, mancandone il presupposto costitutivo; mentre; se esso ha esito positivo, allora si innesta in capo all’autorità stessa il dovere di cooperare con l’interessato nella ricerca delle prove a sostegno della domanda.

Solo in quest’ultimo caso, non potendo più essere considerata attendibile, in relazione alla situazione specifica del richiedente, la qualificazione del paese come “sicuro”, l’autorità procedente dovrà acquisire nuove informazioni sul paese di origine (c.d. Country of Origin Information), secondo quanto stabilito dall’art. 8, c. 3 del D.lgs. n. 25 del 2008, sul quale la Novella non è intervenuta.

3. La mancata “dimostrazione” dei “gravi motivi” sotto il duplice profilo dell’onere di allegazione e dell’onere della prova. Considerazioni conclusive.

La chiave di lettura dell’art. 2-bis, D.lgs. n. 25 del 2008 e dell’art. 3, cc. 1 e 5, D.lgs. n. 251 del 2007 offerta al precedente paragrafo, permette di riportare a sistema tali norme con il nuovo art. 9, c. 2-bis del D.lgs. n. 25 del 2008, fornendo in tal modo un’impostazione ermeneutica organica della disciplina della domanda di protezione internazionale proposta da un soggetto proveniente da un paese di origine sicuro.

L’art. 9, c. 2-bis sovra richiamato, in particolare, prevede che la decisione con cui è rigettata la domanda presentata dal richiedente proveniente da un paese di origine sicuro, è motivata dando atto esclusivamente che l’interessato non ha dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese designato di origine “sicuro” in relazione alla situazione particolare dello stesso.

La norma trova la propria ratio nel fatto che la designazione di un paese di origine come “sicuro” ha già insita a monte la valutazione circa l’assenza, in via generale e sistematica, di qualsivoglia persecuzione o violazione di diritti umani e, dunque, dell’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale od umanitaria.

È per questo, dunque, che la decisione di rigetto può essere motivata in via esclusiva sulla base del mancato superamento della presunzione relativa di sicurezza del paese di origine.

Il mancato superamento di tale presunzione, infatti, travolge tutti gli elementi costitutivi necessari per il riconoscimento di qualsiasi forma di protezione.

Con particolare riguardo all’onere di cooperazione istruttoria, poi, la norma permette di svolgere le seguenti considerazioni:

il Legislatore, in particolare, ha utilizzato il termine “dimostrare” che, poiché significa letteralmente “rendere manifesto” può essere letto tanto sotto il profilo dell’onere di allegazione quanto sotto quello dell’onere della prova.

Sotto il primo profilo, la “mancata dimostrazione” dei gravi motivi può essere intesa quale mancata soddisfazione dei requisiti di credibilità soggettiva delle allegazioni prospettate e, dunque, concretizzarsi in un giudizio di non credibilità del richiedente.

Tale giudizio determina il rigetto della domanda di protezione senza alcuna attivazione dell’onere di cooperazione in capo all’autorità giudicante, essendo, come visto, il positivo esito della valutazione di credibilità del richiedente elemento costitutivo dell’onere di cooperazione istruttoria dello Stato.

Sotto il secondo profilo, la mancata dimostrazione rilevante ai sensi dell’art. 9, c. 2-bis, D.lgs. n. 25 del 2008 può essere intesa nel senso che il richiedente, pur avendo superato il vaglio di credibilità soggettiva, non è poi riuscito, in cooperazione con lo Stato (Commissione Territoriale e Giudice), a provare la sussistenza dei gravi motivi.

In conclusione, dunque, riportando a sistema tutte le norme rilevanti e precedentemente analizzate, sembra potersi affermare che il richiedente omette di dimostrare la sussistenza di “gravi motivi” per ritenere non sicuro il Paese designato di origine sicuro in relazione alla propria situazione particolare qualora:

  • non superi il vaglio di credibilità intrinseca delle dichiarazioni rese, potendo in questo caso la domanda, in quanto basata su dichiarazioni inattendibili, essere rigettata senza dover previamente assolvere al dovere di cooperare con l’interessato ai fini dell’istruzione della domanda; oppure

  • pur avendo superato il vaglio di credibilità soggettiva, non riesca poi comunque – a questo punto in cooperazione con la Commissione Territoriale o con il Giudice, qualora ci si trovi in fase giudiziale – a provare il ricorrere dei gravi motivi richiesti dalla legge.


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