L’attività di ricerca della prova nel processo penale tra standard garantistici di matrice europea e aporie normative

L’attività di ricerca della prova nel processo penale tra standard garantistici di matrice europea e aporie normative

Rivoluzione tecnologica dell’era digitale e processo penale. Il progresso tecnologico-scientifico degli ultimi anni ha generato significativi cambiamenti, oltre che in ambito sociale, anche nell’ambito del processo penale offrendo nuovi, e pervasivi, strumenti di indagine ad elevato contenuto tecnologico. Alla disponibilità, in capo agli inquirenti, di metodologie sempre più sofisticate sul piano dell’accertamento penale, è corrisposta, pertanto,  l’esigenza di ampliare la tutela delle garanzie e dei diritti inviolabili della persona su cui incide l’attività di ricerca della prova.

Il principio di legalità processuale, quale inderogabile limite di ammissibilità della prova incidente su beni costituzionalmente rilevanti. In via preliminare, occorre segnalare come lo scopo primario del processo penale – la ricostruzione del fatto e l’accertamento, positivo o negativo, della responsabilità penale dell’imputato – possa essere raggiunto solo attraverso un giusto processo regolato dalla legge, che risulta tale in quanto assiologicamente orientato alla garanzia di tutti i valori costituzionalmente tutelati. Infatti, come sottolineato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 317 del 2009, “un processo non giusto, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale”. Il principio di legalità processuale trova riscontro non solo nell’art. 111 della Costituzione, ma anche in seno alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (art. 6) e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Dalla simmetria che si realizza con l’art.25, comma 2 Cost., espressione del principio di legalità penale sostanziale, ne discende la necessità che il processo sia regolato da disposizioni di legge e si svolga nel pieno rispetto delle disposizioni normative. Le esigenze investigative dovrebbero trovare un necessario contemperamento con la tutela dei diritti fondamentali degli individui. Eppure, a questi ultimi, non è dedicato un soddisfacente grado di attenzione nel diritto vivente,  specie nell’ambito dell’attività di ricerca della prova. Nel bilanciamento tra le contrapposte esigenze la tutela di diritti fondamentali, su cui inevitabilmente incidono i nuovi strumenti di ricerca della prova, è destinata spesso a cedere, configurandosi ampie intromissioni nella sfera privata dell’individuo, intesa – da autorevole dottrina – come bene giuridico costituzionale. 

Prassi investigative illegittime, perché lesive dei diritti fondamentali della persona. Invero, è ormai noto che la prassi giudiziaria, in assenza di “paletti” certi, sia solita ricorrere ora– in difetto di disciplina normativa – a mezzi di ricerca della prova c.d. innominati tutt’altro che privi di capacità intrusiva (si pensi, segnatamente, alle forme di sorveglianza visiva e a quelle di localizzazione tecnologica di cose o persone), ora a strumenti che, sebbene previsti dalla legge, non risultano pienamente rispondenti agli specifici criteri di legittimità giuridica – legalità, necessità e proporzionalità – espressamente individuati dall’art. 8, co. 2, CEDU (si pensi, all’acquisizione dei tabulati telefonici ed al captatore informatico). 

Viene naturale chiedersi come mai il legislatore italiano non si sia preoccupato di verificare “la piena compatibilità tra i nuovi mezzi investigativi e i principi costituzionali e internazionali di tutela dei diritti umani”, diversamente da quanto avvenuto in altri paesi europei. Eppure la Corte costituzionale, nelle note sentenze nn. 348-349 del 2007, ha riconosciuto – sulla base dell’art.117 Cost. – alle norme Cedu il rango di “fonti interposte”(cioè di parametri di costituzionalità delle norme interne), aventi valore inferiore a quelle costituzionali, ma superiore rispetto alle disposizioni contenute in una legge del Parlamento. Ne deriva che le limitazioni delle libertà fondamentali della persona richiedono una regolamentazione normativa puntuale dei casi e dei modi di aggressione, in mancanza della quale, non è da escludersi la riconducibilità del dato probatorio alla categoria della “prova incostituzionale”, con conseguente inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p. 

E’ utile rammentare che il legislatore del codice vigente non ha recepito il principio di tassatività in materia, nell’intento di non precludere l’ingresso di prove che, sebbene non disciplinate, risultassero efficaci a fini investigativi; tuttavia ciò non può costituire la giustificazione per una dilatazione del paradigma normativo dell’art.189 c.p.p., “camuffando” come atipiche modalità investigative, non normate, che recano vulnus a sfere di libertà costituzionalmente rilevanti e, come tali, riconducibili all’area delle prove incostituzionali. Se, da un lato, deve ammettersi che tali strumenti presentano l’irrinunciabile vantaggio di potenziare l’attività investigativa per l’accertamento di reati ad elevato allarme sociale, dall’altro il rispetto della vita privata non può essere inteso quale diritto suscettibile di limitazioni e manipolazioni giudiziarie che obliterino i fondamenti normativi nazionali (art. 2 Cost.), e internazionali (art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e artt. 7-8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).

Orbene, si avverte l’esigenza di rimodulare il binomio libertà-sicurezza in termini di contemperamento, in aderenza agli standard costituzionali ed infra-para costituzionali, nonché lungo le coordinate segnate dai principi di legalità e proporzione. Proprio quest’ultimo rileva come parametro implicito nel limite della «necessità» individuato dagli artt. 8-11 CEDU, nonché come condizione necessaria a cui deve soggiacere qualsiasi limitazione dei diritti fondamentali (artt. 49, par. 3 e 52, par. 1 CDFUE).

I mezzi di ricerca della prova c.d. innominati. Un preoccupante vuoto normativo, nell’alveo degli strumenti investigativi, si registra con riguardo alla geolocalizzazione tramite tracker GPS (acronimo di Global Positioning  System) o tramite “Global System Mobiles – GSM”, modalità tecnologiche che permettono di individuare la posizione dell’oggetto o del soggetto su cui sono installati, controllandone i movimenti con estrema precisione. Si è discusso, in dottrina e giurisprudenza, circa l’assimilazione del sistema di rilevamento satellitare tramite GPS ad altri strumenti catalogati legislativamente; non è mancato chi ha ritenuto di applicarvi la disciplina prevista dagli art. 266-271 c.p.p., in virtù di una qualificazione dello strumento come forma particolare di intercettazione, ad essa molto simile dal punto di vista esecutivo. Sebbene entrambi accomunati dalla captazione di un segnale, lesivo peraltro della privacy del soggetto, nondimeno preme evidenziare che tramite il monitoraggio GPS non si apprende certamente il “contenuto di  una comunicazione riservata tra due o più persone”, bensì semplicemente la mera posizione nello spazio. Viepiù: il segnale captato attraverso il tracker GPS è utilizzabile dall’intera collettività, pertanto “libero”. Sennonché, il problema centrale resta sempre l’invasione che questo tipo di tecnica determina sul soggetto, tenuto conto dell’assenza di condizioni, tempi e modi in merito all’esecuzione del “pedinamento satellitare”, anche nel caso in cui lo stesso riguardi cose o persone che si trovino in luogo pubblico o aperto al pubblico. Parte della dottrina ha sostenuto l’equiparazione della tecnica in oggetto all’ispezione personale ma, oltre ad una differenza sostanziale circa lo scopo delle due attività, preme evidenziare che, mentre l’ispezione personale determina una compressione della libertà personale, giustificativa della facoltà, riconosciuta al soggetto, di farsi assistere da un difensore di fiducia (al pari di quanto avviene per l’accertamento urgente su luoghi, cose e persone effettuato dalla P.G. ex art. 354 c.p.p.), la tecnica GPS non è assistita dalle garanzie in esame, procedendosi all’insaputa dell’indagato. Anche la procedura di tracciamento tramite GSM costituirebbe una modalità tecnologicamente caratterizzata di pedinamento, rientrante tra gli atti urgenti e innominati demandati, ai sensi degli artt. 55 e 348 c.p.p., alla libera disponibilità degli organi della polizia giudiziaria. Si tratta, all’evidenza, di prassi investigative illegittime, oltreché anacronistiche, perché elusive della regola di esclusione probatoria desumibile dal principio di stretta legalità processuale.

Non può non sottolinearsi il sacrificio che tali strumenti comportano in termini di diritti fondamentali dell’individuo. Oltre ad incidere sul diritto all’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.), nel caso in cui, ad esempio, il dispositivo venisse installato all’interno di un abitacolo di una vettura, tali tecniche aggrediscono anche il diritto al rispetto della vita privata, sotto i profili di segretezza e tutela del trattamento dei dati personali. Tre profili, questi, ricompresi nel perimetro che l’art. 8 della CEDU assegna al rispetto della vita privata e familiare che, chiaramente, può rilevare anche in un contesto pubblico. Difatti, nella sentenza Uzun c. Germania, la Corte ha voluto sottolineare che “la presenza di un soggetto in luoghi pubblici non implica una rinuncia alla sua privacy”. Dinnanzi all’orientamento giurisprudenziale che esclude l’intrusione nella vita privata, ritenendo pertanto non necessario un decreto motivato del pubblico ministero, la Corte ha messo in luce come un monitoraggio che consenta la mappatura e la raccolta dei dati relativi agli spostamenti di un soggetto, determini senza dubbio un’invasione della sua privacy, sebbene non paragonabile ad altre tecniche, che ne consentano addirittura la percezione di opinioni e sentimenti. Sulla scorta dell’interpretazione fornita dalla Corte EDU, in base alla quale l’invasione della privacy deve corrispondere ad «un bisogno sociale imperativo», giustificarsi «nella misura strettamente necessaria alla salvaguardia delle istituzioni democratiche» ed «essere proporzionata rispetto alla giustificazione invocata», sarebbe opportuno un rapido intervento del legislatore, che sottoponga il trattamento de quo (almeno) alla disciplina dei tabulati telefonici; così da conformare l’atto intrusivo ai criteri di necessità e proporzionalità.

Il legislatore non ha codificato neppure l’impiego delle videoriprese in luoghi riservati diversi dal domicilio come autonomo atto di indagine. Pare aberrante dover prendere atto della legittimità di una captazione visiva eseguita, come accade nella prassi, pure nella toilette di un esercizio pubblico o nei c.d. privés, semplicemente sulla base di un provvedimento dell’autorità giudiziaria, peraltro insufficiente a garantire il diritto alla riservatezza di cui all’art. 2 Cost. e 8 CEDU.  

Mezzi di ricerca della prova normati in attesa di rimodulazione. Il “tracciamento” dell’utenza telefonica, cui abbiamo accennato sopra, non deve confondersi con l’acquisizione dei dati esteriori della comunicazioni telefoniche e telematiche, disciplinata dall’art. 132 del d.lgs. n. 196 del 2003 (codice privacy). Nel primo caso l’acquisizione dei dati riguardanti la posizione del soggetto che detiene il telefono cellulare avviene in tempo reale. Ciò differenza il “tracciamento” dall’acquisizione dei tabulati, operazione che avviene ex post, ma che risulta supportata da garanzie specifiche, come ad esempio il provvedimento motivato del pubblico ministero con cui l’acquisizione dei tabulati è disposta. Eppure, anche in materia di tabulati, pare necessario un intervento novellatore. Infatti, la Corte di Giustizia UE, con la pronuncia “Digital rights Ireland”, risalente al 2014 – che ha annullato la direttiva su cui si basava la normativa di tutti gli Stati membri – ha riconosciuto che lo strumento de quo non ha una modesta invasività, come sino ad allora ritenuto; al contrario, aggredendo un’ampia gamma di diritti fondamentali, come la privacy, il diritto alla tutela personale, ma anche la segretezza delle comunicazioni e la libera determinazione dei propri dati personali, si rivela tutt’altro che neutro, anche se non paragonabile alle intercettazioni. Appare, dunque, auspicabile un adeguamento dell’attuale normativa, predisposta dall’art. 132 del codice privacy, a quanto statuito dalla CGUE, in particolare alle coordinate fissate dalla pronuncia suddetta, ovverosia i principi di legalità e proporzione.

Pure la disciplina sul captatore informatico (virus trojan) non pare completamente aderente agli standard convenzionali e costituzionali. Parliamo di un software che viene inserito nel sistema operativo di apparati informatici, in maniera occulta, e consente al server cui è collegato di captarne i vari dati. Tale strumento ha rivelato una spiccata efficacia nel contrasto ai delitti di criminalità organizzata, considerato che quest’ultima spesso si avvale delle innovazioni tecnologiche ormai ampiamente diffuse: si pensi, ad esempio, alle conversazioni Whats-app, protette dal sistema di criptazione che ne vieta l’acquisizione del contenuto. Malgrado la produttività di un simile strumento in termini di risultato, la Suprema Corte ha chiarito gli innumerevoli rischi che il malware porta con sé. Per economia di scrittura, possiamo fare riferimento (solo) all’ipotesi in cui l’individuo che porta con sé il dispositivo su cui è installato il virus si rechi in luoghi di privata dimora di altri soggetti; in tal caso finirebbero per essere intercettate comunicazioni di soggetti estranei al decreto autorizzativo. Proprio il rilievo di tale mezzo nella conduzione delle indagini e nelle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, mette in risalto il bisogno di una regolazione precisa sull’uso di essi, per evitare che si traducano – come ha sottolineato il Garante per la privacy – in “pericolosi strumenti di sorveglianza massiva”. La tutela costituzionale della libertà e della segretezza di ogni forma di comunicazione, espressamente qualificate come “inviolabili”, esige il rispetto della duplice riserva di legge e di giurisdizione, ma anche uno sforzo motivazionale maggiore da parte del giudice, che impedisca un sacrificio sproporzionato della segretezza rispetto alla repressione dell’illecito penale. Sul punto, la Corte costituzionale tedesca, dubitando circa la liceità delle forme di captazione occulta mediante strumenti di controllo a distanza, previste da una Legge sulla Protezione della Costituzione del Land, si è espressa dichiarando tale normativa incostituzionale. Malgrado ciò, non ha considerato inammissibile in toto l’utilizzo di programmi spia, pur ammettendo che si tratta di “un controllo onnipresente della vita degli individui, da limitare a precise e determinate circostanze”. La Corte ne ha infatti legittimato l’uso,  a condizione che vengano rispettati il principio di proporzionalità e la riserva di giurisdizione, nonché soprattutto in presenza di un’intangibile finalità preventiva-repressiva. Si è così prospettata l’introduzione uno strumento adeguato che, raggiungendo il medesimo risultato, impedisca l’accesso a dati personali scevri di significato per le indagini, o comunque preveda tecniche idonee a consentirne la cancellazione degli stessi ex post. Il bilanciamento tra la salvaguardia dell’interesse pubblico e i diritti fondamentali facenti capo a ciascun soggetto deve essere sempre condotto nel rispetto del principio di proporzionalità. 

Nel nostro ordinamento, con la recente riforma delle intercettazioni, il legislatore ha perso l’ennesima occasione non solo per un adeguamento generale dell’attività investigativa ai nuovi strumenti d’indagine ad elevato contenuto tecnologico, ma, anche, come detto sopra, per una revisione della normativa relativa alla captazione dei dati esterni delle comunicazioni telefoniche in aderenza agli standard europei.

Orbene, posto che ogni settore della vita umana, compreso il diritto, continuerà ad essere travolto da quella che ormai viene comunemente definita “rivoluzione tecnologica”- già in atto da circa 20 anni – sarebbe quanto mai opportuno che, parallelamente, il legislatore intervenisse sia predisponendo una disciplina normativa ad hoc, laddove manchi, sia rendendo quella esistente perfettamente rispondente alla cornice di garanzie.

Infatti, se, da un lato, evidenti ragioni di opportunità impongono di non privare il processo degli straordinari risultati che tali strumenti consentono di raggiungere, dall’altro, non è accettabile che, nel silenzio del legislatore di fronte all’evidente compressione dei diritti fondamentali della persona, si rimetta agli inquirenti la scelta di utilizzare nuovi e invasivi strumenti d’indagine.

 

 

 

 

 


Bibliografia
Andolina Elena, “L’acquisizione nel processo penale dei dati “esteriori” delle comunicazioni telefoniche e telematiche”, Cedam, 2018;
Andolina Elena, “L’ammissibilità degli strumenti di captazione dei dati personali tra standard di tutela della privacy e onde eversive”, in Riv. Quadrimestrale di diritto, procedura, e legislazione penale, speciale, europea e comparata, settembre-dicembre 2015, fasc.3;
Camon Alberto, “Il cacciatore di Imsi”, in Arch. Pen., 2020, n.1;
Di Paolo Gabriella, “Acquisizione dinamica dei dati relativi all’ubicazione del cellulare ed altre forme di localizzazione tecnologicamente assistita. Riflessioni a margine dell’esperienza statunitense”, Cass. Pen., fasc. 3, 2008, pag. 1219B;
Fanuele Chiara, “Il rilevamento satellitare tramite GPS: una prassi da ancorare ai principi stabiliti dalla Cedu”, in Diritto penale e processo, 12/2019;
Nocerino Wanda, “Le Sezioni Unite risolvono l’enigma: l’utilizzabilità del “captatore informatico” nel processo penale”, Cassazione Penale, fasc. 10, 2016, pag. 3565;
Signorato Silvia, “La localizzazione satellitare nel sistema degli atti investigativi”, in Riv. it. dir.e proc. pen., fasc.2, 2012, pag. 580

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