Perché la Corte ha ritenuto inammissibile la richiesta di referendum sull’eutanasia?

Perché la Corte ha ritenuto inammissibile la richiesta di referendum sull’eutanasia?

È inammissibile la richiesta di referendum sull’abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente) poiché, rendendo lecito l’omicidio di chiunque abbia prestato a tal fine un valido consenso, priva la vita della tutela minima richiesta dalla Costituzione”.

È quanto ha affermato la Corte Costituzionale con la sentenza n. 50/2022. Non sorprendono più di tanto le motivazioni offerte dalla Consulta nel quadro dell’abrogazione di una norma sostanzialmente non applicata, espressione di un codice, emanato nel lontano 1930, che muove dall’idea dell’assoluta indisponibilità del bene della vita.

Viene sottolineato dalla Corte Costituzionale come il quesito referendario – mediante l’abrogazione di frammenti lessicali dell’articolo 579 c.p. e la conseguente saldatura dei brani linguistici rimanenti – renda penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa al di fuori dei tre casi di “consenso invalido” previsti dal terzo comma dello stesso articolo 579: quando è prestato da minori di 18 anni; da persone inferme di mente o affette da deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di alcool o stupefacenti; oppure è estorto con violenza, minaccia o suggestione o carpito con inganno.

Così facendo, sarebbe stata sancita, al contrario di quanto attualmente avviene, «la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo».

L’approvazione del referendum avrebbe reso lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata. La liceità, insomma, sarebbe andata ben al di là dei casi nei quali la fine della vita è voluta dal consenziente prigioniero del suo corpo a causa di malattia irreversibile, di dolori e di condizioni psicofisiche non più tollerabili.

La Corte ha rilevato che l’incriminazione dell’omicidio del consenziente, al di là della logica “statalista” in cui è stata pensata, risponde, nel mutato quadro costituzionale, allo scopo di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili di fronte a scelte estreme, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.

Quando viene in rilievo il bene “apicale” della vita umana, ha precisato la Corte, «la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima».

Una normativa come quella dell’articolo 579 c.p. può essere pertanto modificata e sostituita dal legislatore ma non puramente e semplicemente abrogata, senza che ne risulti compromesso il livello minimo di tutela della vita umana richiesto dalla Costituzione.

Questa tutela minima non sarebbe stata garantita dalla punibilità nei tre casi, prima indicati, di consenso invalido. Le situazioni di vulnerabilità e debolezza non si esauriscono nella minore età, infermità di mente e deficienza psichica ma possono connettersi, oltre che alle condizioni di salute, a fattori di varia natura (affettivi, familiari, sociali o economici), e d’altra parte «l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive […], che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili»[1]

Dopo una prima lettura delle motivazioni rese dalla Consulta, emerge chiaramente come la passione per una battaglia di civiltà, avallata da tante adesioni e firme, abbia fatto perdere di vista il contenuto del quesito referendario che non si è rivolto ad una disciplina sul fine vita “libero” e “dignitoso” ma si è limitato a richiedere l’abrogazione di un reato, cioè a non prevedere la pena per chi materialmente uccida qualcun altro purché maggiorenne, non infermo di mente e consenziente.

E rispetto al reato di omicidio del consenziente, può ripetersi quanto già osservato dalla Corte, quattro anni fa, in rapporto alla figura finitima dell’aiuto al suicidio[2]. Se è ben vero, cioè, che il legislatore del 1930, mediante la norma incriminatrice di cui all’art. 579 c.p., intendeva tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile anche in funzione dell’interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini, non è però affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela della norma «alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi».

Vietando ai terzi di farsi esecutori delle altrui richieste di morte, pur validamente espresse, l’incriminazione dell’omicidio del consenziente assolve, in effetti, come quella dell’aiuto al suicidio, allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.

A questo riguardo, non può non essere ribadito il «cardinale rilievo del valore della vita», il quale, se non può tradursi in un dovere di vivere a tutti i costi, neppure consente una disciplina delle scelte di fine vita che, «in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale», ignori «le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite». 

Quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima. Discipline come quella dell’art. 579 c.p., poste a tutela della vita, non possono, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale.

 

 

 

 

 


[1] https://www.italiaoggi.it/news/referendum-la-consulta-deposita-le-motivazioni-dei-tre-quesiti-inammissibili-202203021509012231
[2] Ordinanza n.207/2018 della Corte Costituzionale, pronunciata in riferimento al noto “Caso Cappato”

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