L’abrogazione dell’abuso d’ufficio: una scelta di politica criminale tra razionalizzazione e vuoti di tutela
Con la legge 9 agosto 2024, n. 114, il legislatore italiano ha definitivamente abrogato l’art. 323 del codice penale, norma che incriminava la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, violando norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, procurava a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arrecava ad altri un danno ingiusto. Tale intervento normativo, pur nella sua apparente radicalità, si inserisce in un percorso già da tempo avviato di restringimento della portata applicativa della fattispecie, soprattutto a seguito delle modifiche introdotte con il decreto-legge “Semplificazioni” del 2020, che avevano circoscritto la punibilità alle sole violazioni di specifiche regole di condotta dotate di sufficiente determinatezza e insuscettibili di interpretazione discrezionale.
L’abrogazione è stata giustificata dal legislatore sulla base di un duplice ordine di considerazioni. Da un lato, vi è l’evidenza empirica dell’inefficacia applicativa della norma: secondo i dati forniti dal Ministero della giustizia, oltre il 90% dei procedimenti per abuso d’ufficio si concludeva con l’archiviazione o con una sentenza assolutoria. Questa elevata percentuale di non luogo a procedere è stata interpretata come sintomo di una tipizzazione normativa troppo ambigua, foriera di incertezza giuridica e produttiva di un effetto paralizzante sull’azione amministrativa. Dall’altro lato, vi è stata una precisa scelta di politica criminale orientata a sottrarre alla sfera penale condotte che, pur eventualmente viziate sotto il profilo amministrativo, contabile o disciplinare, non rivestono un’effettiva carica offensiva in senso penalistico e non giustificano, pertanto, l’intervento dell’extrema ratio penale.
Secondo tale visione, l’abuso d’ufficio era divenuto un reato-sentinella dal contenuto vago, suscettibile di letture estensive o creative da parte degli interpreti, e quindi incompatibile con i principi di legalità e determinatezza. Inoltre, la mera eventualità di un’indagine per abuso d’ufficio aveva consolidato un clima di diffidenza e timore tra i funzionari pubblici, generando un fenomeno comunemente noto come “paura della firma”, ossia la rinuncia a esercitare legittimamente poteri pubblici per timore di possibili contestazioni penali. In questa prospettiva, la depenalizzazione non è espressione di indulgenza verso comportamenti illeciti, ma è intesa come un tentativo di razionalizzazione dell’ordinamento, volto a separare in modo netto la sfera dell’illegalità amministrativa da quella penalmente rilevante.
Tuttavia, tale scelta normativa non è esente da criticità, e anzi solleva interrogativi rilevanti sul piano sistematico e internazionale.
In primo luogo, l’eliminazione dell’art. 323 c.p. rischia di creare un vuoto di tutela proprio in quella zona grigia in cui la condotta del pubblico ufficiale, pur non concretandosi in un atto corrotto o concussivo, presenta comunque un abuso distorto della funzione pubblica e una lesione dell’interesse collettivo alla legalità e imparzialità dell’azione amministrativa. La dottrina più attenta ha infatti osservato che l’abuso d’ufficio, pur nella sua criticità, svolgeva una funzione di chiusura del sistema dei reati contro la pubblica amministrazione, fungendo da presidio sussidiario a fronte di condotte non altrimenti tipizzabili, ma nondimeno lesive del bene giuridico della buona amministrazione.
A ciò si aggiunge il dibattito circa la compatibilità dell’abrogazione con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia in materia di contrasto alla corruzione. In particolare, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (cd. Convenzione di Merida), pur non imponendo in termini assoluti l’incriminazione dell’abuso di funzioni, invita gli Stati a considerare l’adozione di misure idonee a sanzionare i comportamenti abusivi dei pubblici ufficiali. Alcuni interpreti, specie in ambito giudiziario, hanno rilevato che la soppressione integrale del reato, senza contestuale introduzione di fattispecie alternative, potrebbe porsi in tensione con tali obblighi internazionali e indebolire il sistema di prevenzione e repressione del malaffare. La Corte costituzionale, tuttavia, ha ritenuto la scelta del legislatore conforme alla Costituzione, ritenendo che la clausola della Convenzione che invita gli Stati ad “adottare in considerazione” misure sanzionatorie, lasci ampio margine di discrezionalità alla politica criminale nazionale.
Un ulteriore profilo problematico concerne la concreta efficacia degli strumenti extrapenali, quali la responsabilità contabile o disciplinare, nel sanzionare in modo adeguato comportamenti particolarmente gravi o socialmente pericolosi. Il rischio è che, in assenza di un presidio penale, talune forme di sviamento della funzione pubblica rimangano di fatto impunite o trovino risposte frammentarie, non coordinate e poco dissuasive. Da questo punto di vista, l’intervento normativo appare privo di una visione organica e di un disegno riformatore complessivo che ridefinisca in modo coerente il sistema di tutela penale della pubblica amministrazione, evitando di ridurre la risposta giuridica a una mera sommatoria di norme residuali.
Alla luce di quanto detto, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio rappresenta certamente una cesura storica nel diritto penale italiano, che segna il superamento di una fattispecie criticata per la sua eccessiva indeterminatezza, ma anche discussa per il ruolo simbolico e sostanziale che ha rivestito nella tutela dell’etica pubblica. Se da un lato essa appare coerente con una concezione garantista e minimalista del diritto penale, dall’altro pone il problema di come assicurare un adeguato controllo sull’esercizio del potere amministrativo, in assenza di uno strumento repressivo specifico. Il nodo, pertanto, non è solo se l’abuso d’ufficio dovesse essere abrogato, ma piuttosto come ripensare la sanzionabilità degli abusi di potere in modo conforme ai principi costituzionali, ai vincoli internazionali e alle esigenze concrete di tutela della legalità repubblicana.
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Valentina Mellino
Valentina Mellino, avvocato penalista.
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