L’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Prospettive e criticità di una scelta sistemica

L’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Prospettive e criticità di una scelta sistemica

di Luca ZENO (*)

Abstract. L’abolizione del reato di abuso d’ufficio, operata dal legislatore italiano nel 2024 attraverso l’abrogazione dell’art. 323 c.p., ha suscitato un intenso dibattito scientifico e istituzionale. Tale decisione normativa, giustificata con esigenze di certezza giuridica e di contrasto alla cosiddetta “burocrazia difensiva”, ha determinato un vuoto significativo nella tutela penalistica della legalità amministrativa. Il presente contributo intende esaminare le implicazioni derivanti da questa riforma, anche alla luce della questione di legittimità costituzionale recentemente sollevata. Particolare attenzione sarà riservata agli obblighi sovranazionali assunti dall’Italia in materia di contrasto alla corruzione e alle possibili prospettive di ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

Sommario: 1. Premessa – 2. Il contesto normativo e la funzione del reato di abuso d’ufficio – 3. Conseguenze sistemiche e rilievi internazionali – 4. La questione di legittimità costituzionale – 5. Considerazioni conclusive

 

Premessa

Nel quadro delle riforme più significative in materia di diritto penale e amministrativo degli ultimi anni, l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio ha rappresentato una svolta radicale nel rapporto tra diritto penale e funzione pubblica. Tale intervento, disposto con la legge numero 114 del 2024, ha determinato l’eliminazione di una figura criminosa che storicamente svolgeva una funzione di presidio nei confronti delle devianze nella gestione amministrativa dei pubblici ufficiali. Il legislatore, nell’ottica di razionalizzazione del diritto penale e di semplificazione dei procedimenti amministrativi, ha ritenuto opportuno espungere dal codice penale tale norma, ritenuta fonte di incertezza applicativa e di “burocrazia difensiva”, ovvero quel fenomeno per cui i funzionari pubblici evitano di esercitare i propri poteri per il timore di incorrere in responsabilità penale1. Tuttavia, come si intende evidenziare in questo contributo, la sua abrogazione non si traduce semplicemente in una razionalizzazione del sistema sanzionatorio, ma comporta una ridefinizione del perimetro della legalità nell’azione pubblica. La discussione è tutt’altro che neutra: essa coinvolge temi centrali quali la responsabilità amministrativa, il principio di legalità, la separazione dei poteri e il rispetto degli obblighi sovranazionali. Nel tentativo di offrire un’analisi sistemica e comparata, il presente saggio si soffermerà, in primo luogo, sull’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’abuso d’ufficio; in secondo luogo, sulle motivazioni e implicazioni dell’abrogazione; infine, sulle criticità emergenti, in particolare sui forti dubbi di compatibilità costituzionale, che si sono concretizzati nella recente ordinanza della Cassazione2, con cui è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’abrogazione all’esito della quale la Corte Costituzionale si è pronunciata per la infondatezza della stessa. Il dibattito tuttavia è destinato a proseguire.

1. Il contesto normativo e la funzione del reato di abuso d’ufficio

Il reato di abuso d’ufficio ha rappresentato storicamente una delle fattispecie più emblematiche del diritto penale della pubblica amministrazione, riflettendo l’evoluzione del rapporto tra potere pubblico e legalità. Le sue origini risalgono al Codice penale Zanardelli del 1889, che all’art. 170 puniva il pubblico ufficiale che, “per ragioni di ufficio”, abusasse dei propri poteri arrecando danno a terzi. Tale impostazione si fondava su una concezione patrimonialistica del bene giuridico tutelato, incentrata sulla lesione di interessi individuali piuttosto che sull’offesa all’imparzialità dell’azione amministrativa.

Con l’entrata in vigore del Codice Rocco del 1930, il reato venne ricodificato all’art. 323, in una forma che ne accentuava il carattere autoritativo e l’interesse primario per l’ordinamento dell’efficienza della pubblica amministrazione. La norma puniva il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, “nell’esercizio delle sue funzioni”, procurava “a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero recava ad altri un danno ingiusto”. In questa fase storica, tuttavia, il reato manteneva una formulazione ampia e indeterminata, tale da prestarsi a interpretazioni divergenti e a usi strumentali in ambito politico e giudiziario. È solo con la riforma operata dalla legge 16 luglio 1997, n. 234 che il legislatore, sulla scia delle esigenze di determinatezza e tipicità proprie del principio di legalità sancito dall’art. 25, comma 2, Cost., introdusse una revisione profonda dell’art. 323 c.p. L’intervento legislativo ridefinì la fattispecie in termini più stringenti, subordinando la punibilità alla violazione “di specifiche regole di condotta” previste da norme di legge o di regolamento, superando così l’ambigua nozione di “abuso” generico. Il reato di abuso d’ufficio, nella versione precedente all’abrogazione incriminava il comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero di obblighi di imparzialità, cagionasse intenzionalmente un danno ingiusto o procurasse un vantaggio patrimoniale indebito. La fattispecie ha storicamente rappresentato una delle principali disposizioni a tutela dei principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione3. Altri hanno individuato invece un ulteriore interesse tutelato nel patrimonio del terzo danneggiato che andrebbe di conseguenza considerato persona offesa dal reato 4 . Sebbene frequentemente oggetto di critiche per la sua presunta indeterminatezza e per il rischio di eccessiva discrezionalità applicativa, essa costituiva comunque un presidio giuridico contro le forme più subdole e meno eclatanti di sviamento del potere pubblico5. Infatti, nell’ordinamento italiano, il reato di abuso d’ufficio è stato tradizionalmente inteso come una figura residuale ma necessaria, pensata come collante tra la responsabilità amministrativo-contabile, che punisce comportamenti lesivi dell’interesse pubblico ma privi di rilevanza penale e le fattispecie penali più gravi come la corruzione (art. 319 c.p.) o la concussione (art. 317 c.p.), che presuppongono forme particolarmente marcate di scambio illecito o di costrizione. In altri termini, l’abuso d’ufficio consentiva di reprimere quei comportamenti illegittimi e dannosi dell’agere pubblico che, pur non integrando gli estremi delle condotte più gravi, determinavano un’ingiustizia sostanziale o un uso distorto del potere pubblico. Tuttavia, la portata della norma è rimasta a lungo controversa, sia per l’ampiezza della nozione di “violazione di legge”, sia per la difficoltà di provare l’elemento soggettivo dell’intenzionalità.

Dal punto di vista giurisprudenziale, il tentativo costante è stato quello di ridurre l’ambito applicativo della norma, richiedendo una violazione specifica e non generica delle norme di legge o di regolamento, e non può essere identificata in generici obblighi comportamentali o principi di buona amministrazione. Questa interpretazione restrittiva ha contribuito a svuotare progressivamente la norma di efficacia, tanto che, nel periodo tra il 2015 e il 2020, il tasso di archiviazione per il reato di abuso d’ufficio ha superato il 90%6.

L’elevato tasso di archiviazioni, unito al timore di una eccessiva “giudizializzazione” dell’azione amministrativa, ha alimentato un dibattito politico e accademico che ha condotto alla progressiva delegittimazione della norma. La critica si è sempre suddivisa tra due principali opinioni. Molti autori hanno parlato di “reato spia”, ossia di una fattispecie penale con funzione prevalentemente segnaletica rispetto a condotte patologiche dell’apparato pubblico. Altri, invece, ne hanno difeso la valenza simbolica e preventiva, quale presidio di legalità diffusa nella gestione amministrativa.

L’abrogazione del 2024 si colloca, dunque, in un contesto normativo e giurisprudenziale già profondamente critico nei confronti dell’art. 323 c.p., ma non per questo privo di rilevanti conseguenze sistematiche e costituzionali. La soppressione di una disposizione cardine nel sistema dei reati contro la pubblica amministrazione impone una riflessione complessiva sull’architettura della tutela penale dell’etica pubblica, e sull’effettività degli strumenti repressivi a disposizione dell’ordinamento.

2. Conseguenze sistemiche e rilievi internazionali

La decisione del legislatore italiano ha assunto una valenza ancor più problematica se considerata alla luce degli obblighi assunti dallo Stato sul piano sovranazionale. L’art. 19 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (UNCAC)7, nota come Convenzione di Merida, adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, oggetto di ratifica ed esecuzione in Italia con l. 3 agosto 2009, n. 116), impone agli Stati aderenti l’introduzione nel proprio ordinamento penale di una fattispecie volta a sanzionare l’“abuso di funzioni”, inteso come l’uso improprio del potere da parte del pubblico ufficiale in violazione dei doveri della funzione. Analogamente, la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa, ratificata con legge n. 110/2012, invita gli Stati a garantire la sanzionabilità delle condotte abusive che non integrano gli estremi della corruzione propriamente detta ma che rappresentano comunque una forma di deviazione nell’esercizio del potere.

Alla luce di tali strumenti, l’eliminazione di una fattispecie che incarnava proprio la tipologia di condotta sanzionata dalle convenzioni internazionali può determinare una violazione degli obblighi convenzionali.

Anche il Consiglio d’Europa, ha più volte raccomandato all’Italia di mantenere strumenti idonei a contrastare l’abuso di potere, sottolineando l’importanza di evitare zone franche nell’azione repressiva. Già nel quarto ciclo di valutazione sul sistema giudiziario e amministrativo italiano, il gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO) aveva segnalato come la modifica del 2020 avesse ridotto in modo eccessivo l’ambito applicativo del reato, ostacolando indagini in settori critici8. La recente abrogazione, dunque, espone l’Italia a rilievi per inadempimento degli standard internazionali anticorruzione, rischiando non solo sanzioni reputazionali ma anche conseguenze giuridiche nei rapporti con l’Unione Europea.

In ambito eurounitario, poi, si pone la questione della coerenza dell’intervento con l’art. 83 TFUE, che consente l’armonizzazione di alcune aree del diritto penale, tra cui la corruzione. Sebbene l’abuso d’ufficio non sia espressamente contemplato nella Direttiva (UE) 2017/1371 (cd. Direttiva PIF), il principio di effettività nella tutela degli interessi finanziari dell’Unione impone comunque che gli Stati membri si dotino di un apparato repressivo adeguato a contrastare le forme di sviamento dell’azione amministrativa con effetti su fondi europei. In questa prospettiva, l’abolizione potrebbe rivelarsi problematica, specie nei casi in cui l’uso distorto della funzione pubblica danneggi indirettamente risorse dell’Unione senza rientrare nelle tipologie penalmente rilevanti ancora previste. La preoccupazione espressa riguarda il rischio che il sistema italiano non sia più in grado di garantire standard minimi di integrità pubblica richiesti dalla comunità internazionale. Del resto, anche in ambito comparato, la tendenza non è verso l’eliminazione di fattispecie analoghe all’abuso d’ufficio, ma piuttosto verso una loro delimitazione più rigorosa. In Francia, ad esempio, la“prise illégale d’intérêts” continua ad essere previsto all’articolo 432-12 del Code Pénal9; in Germania, analoghe figure di indebito vantaggio e corruzione sono previste nel 266 “Untreue” (StGB)10. In Spagna, invece, l’articolo 404 del Código Penal punisce la “prevaricación administrativa“, che si riferisce al comportamento di un funzionario pubblico che agisce in modo arbitrario o illegittimo nell’esercizio delle sue funzioni.

3. La questione di legittimità costituzionale

La scelta legislativa di abrogare l’art. 323 c.p., giustificata dal legislatore con esigenze di semplificazione e certezza del diritto, si confronta non soltanto con le riserve sollevate in merito all’adempimento degli obblighi internazionali e convenzionali ma anche, nel perimetro dei confini interni, con le critiche sulla sostenibilità della riforma nella cornice dei principi costituzionali. In tale contesto, si è giunti all’ordinanza con cui la Corte di Cassazione in data 7 febbraio 2025 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. a), del d.lgs. 2 marzo 2024, n. 19, nella parte in cui abroga l’art. 323 c.p., ritenendo la scelta del legislatore lesiva di una pluralità di principi costituzionali, in particolare gli articoli 97, 11 e 117, comma 1, Cost. (in relazione agli obblighi discendenti dagli artt. 7, comma 4, 19 e 65, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione – cd. Convenzione di Merida).

L’ordinanza individua nell’art. 97 Cost. il primo parametro violato: la soppressione della norma penalizzante l’abuso del potere pubblico contrasterebbe con il principio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, privando l’ordinamento di un fondamentale strumento di garanzia. A ciò si aggiunge la violazione dell’art. 113 Cost., che garantisce la possibilità di impugnare gli atti amministrativi lesivi: in assenza di una norma penale incriminatrice, l’ordinamento resterebbe privo di una risposta sanzionatoria efficace nei casi in cui l’abuso si traduca in un danno ingiusto.

L’ordinanza richiama l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla violazione degli obblighi internazionali e sovranazionali derivanti dalle convenzioni sulla corruzione.

La questione sollevata dalla Cassazione tocca anche un nodo fondamentale del diritto costituzionale penale: il rapporto tra discrezionalità legislativa in materia di politica criminale e obblighi costituzionali e sovranazionali di tutela effettiva. Come noto, il legislatore gode di un’ampia discrezionalità nella definizione delle fattispecie incriminatrici, ma tale discrezionalità non è illimitata, dovendo rispettare i vincoli derivanti dalla Costituzione e dalle fonti internazionali pattizie. In questa prospettiva, la Corte costituzionale è chiamata a stabilire se l’assenza di una norma penale che punisca forme gravi di sviamento del potere pubblico, in assenza di corrispettivi economici, configuri una violazione dei parametri indicati, tenuto conto anche del principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Particolarmente rilevante è il richiamo della Cassazione all’art. 117 Cost., quale norma interposta per la tutela di obblighi internazionali anticorruzione. La mancata previsione di una fattispecie penalmente rilevante, conforme ai criteri minimi richiesti dagli strumenti internazionali, porrebbe l’Italia in una posizione di inadempienza, con conseguente compromissione della legalità multilivello. In conclusione, la questione sollevata dalla Cassazione non si esaurisce in un giudizio di opportunità politica, ma impone una riflessione costituzionale di sistema: fino a che punto il legislatore può spingersi nella riduzione del catalogo delle fattispecie penali senza compromettere i livelli minimi di tutela dell’interesse pubblico?

La questione di legittimità costituzionale sull’abrogazione del reato di abuso d’ufficio sollevata dalla Corte di Cassazione con ordinanza interlocutoria, ha trovato il suo epilogo nella decisione della Corte Costituzionale che, con comunicato stampa dell’8 maggio 2025, ha dichiarato ammissibili le sole questioni sollevate in riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione di Merida, le quali sono state, però, ritenute infondate nel merito, riservandosi di depositare le motivazioni della sentenza nelle prossime settimane11.

4. Considerazioni conclusive

In attesa di conoscere le motivazioni della Consulta, la riflessione sul destino del reato di abuso d’ufficio rimane viva e solleva interrogativi profondi sulla funzione del diritto penale nella tutela dell’integrità pubblica. Il diritto penale moderno, pur consapevole del rischio dell’overcriminalization, non può rinunciare alla sua funzione di ultima ratio nell’ordinamento giuridico, soprattutto in ambiti delicati come la gestione del potere pubblico. La scelta di espungere il reato di abuso d’ufficio, senza contestuale introduzione di una fattispecie alternativa, priva l’ordinamento di uno strumento di presidio e rende più fragile la linea di confine tra legalità e arbitrarietà. In tale contesto, la questione sollevata dalla Cassazione appare come una chiamata al legislatore affinché colmi il vuoto di tutela creato12, magari introducendo una nuova fattispecie più determinata, ma comunque idonea a sanzionare le condotte di grave sviamento dell’azione amministrativa. In ogni caso, la questione di legittimità costituzionale sollevata ha il merito di riaccendere un dibattito quanto mai attuale e necessario sul ruolo che ciascun potere dello Stato è chiamato a svolgere nel garantire il corretto funzionamento dell’ordinamento. Essa invita a riflettere, in modo più ampio e approfondito, sulla delicata interazione tra scelte legislative, controllo giurisdizionale e responsabilità amministrativa, in un momento storico in cui il tema dell’equilibrio tra i poteri costituzionali si ripropone con forza come una delle sfide centrali per la tenuta dello Stato di diritto.

 

 

 

 

 

 

* Funzionario pubblica amministrazione, già Avvocato del Foro di Napoli
1 S. Battini – F. Decarolis, L’amministrazione si difende, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 1, p. 293
2 Cassazione Penale, Sez. VI, Ordinanza, 7 febbraio 2025, n. 9442
3 L’abuso d’ufficio, Quarta edizione, 2021, ANTONIO D’AVIRRO, Giuffrè, pag.59
4 Cassazione Penale, 29 marzo 2012, n. 13179
5 Cassazione Penale, Sezioni Unite, 29 settembre 2011, n. 155
6 Relazione del Ministero della Giustizia alla proposta di legge AC 1114, Camera dei deputati, 2023
7 http://www.eur-lex.europa.eu
8 cfr. GRECO Eval IV Rep. 2019, p. 13 ss.
9 www.legifrance.gouv.fr
10 http://www.gesetze-im-internet.de
11 www.cortecostituzionale.it
12 R.Garofoli, Manuale di Diritto Penale, XI edizione 2025, Neldiritto Editore, p. 659

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