La nuova sfida costituzionale dell’art. 187 C.d.S.: tra offensività smarrita e rischio di abuso punitivo
Sommario: 1. Dal pericolo concreto al sospetto: la metamorfosi dell’art. 187 C.d.S. alla luce della l. 177/2024 – 2. I Vulnera denunciati dall’Autorità rimettente – 3. Considerazioni conclusive e prospettive de iure condendo
1. Dal pericolo concreto al sospetto: la metamorfosi dell’art. 187 C.d.S. alla luce della l. 177/2024
Il microsistema normativo sulla circolazione stradale rappresenta, da sempre, un osservatorio privilegiato delle tensioni, spesso inevitabilmente conflittuali, tra l’esigenza di tutela di beni giuridici collettivi – come l’incolumità pubblica e la sicurezza della mobilità – e la salvaguardia delle libertà e delle garanzie individuali sancite dalla Carta Costituzionale.
Un esempio emblematico della complessa opera di bilanciamento legislativo in subiecta materia si rinviene nell’art. 187 C.d.S., oggi rubricato – a seguito del recentissimo intervento di interpolazione normativa operato dalla l. 25 novembre 2024, n. 177 – “Guida dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti”, a testimonianza dell’evoluzione dell’assetto repressivo in materia di circolazione stradale.
Al di là del mutamento del nomen iuris, l’aspetto su cui la menzionata novella normativa ha inciso maggiormente risiede nell’eliminazione del riferimento allo “stato di alterazione psico-fisica” quale elemento costitutivo della fattispecie contravvenzione.
Perché possa appieno comprendersi la ratio sottesa al cennato intervento di riforma, evidentemente improntato a un sensibile inasprimento della risposta punitiva statuale, è necessario muovere da una propedeutica ricognizione storica della fattispecie.
Ebbene, l’integrazione del reato previsto dall’art. 187 C.d.S, nella sua originaria configurazione fenotipica, risultava inestricabilmente condizionata alla ricorrenza di un duplice presupposto: l’assunzione di sostanze stupefacenti, e il conseguente “stato di alterazione psico-fisica“, eziologicamente e temporalmente correlato all’atto della guida.
In piena aderenza al chiaro significato testuale della norma, l’unanime esegesi giurisprudenziale, corroborata, altresì, da autorevole dottrina, qualificava la fattispecie in termini di reato di pericolo concreto, imponendo, dunque, sul piano strettamente probatorio, una rigorosa verifica circa la effettiva messa in pericolo del bene giuridico oggetto di protezione (da individuarsi, appunto, nella sicurezza della circolazione stradale)[1].
Conseguentemente, il mero riscontro della positività ai test tossicologici, pur costituendo un elemento inferenziale di primaria pregnanza esplicativa, non esauriva affatto l’onere probatorio gravante sulla pubblica accusa, risultando, altresì, indispensabile che tale positività si traducesse in una riduzione apprezzabile, fenomenicamente percepibile, della sicurezza nella conduzione del veicolo.
La stessa giurisprudenza costituzionale[2], nel vagliare la tenuta della norma rispetto al principio di determinatezza, ne aveva implicitamente avallato la struttura bifasica, quale garanzia di sufficiente precisione e tassatività del precetto penale.
La riscrittura ad opera della l. 177 del 2024, viceversa, mediante la chirurgica espunzione del riferimento allo “stato di alterazione”, ha introdotto una netta cesura assiologica rispetto al precedente modello punitivo.
La tipicità del “rinnovato” art. 187 C.d.S., infatti, risulta ormai circoscritta alla condotta di guida successiva all’assunzione di sostanze, quand’anche risalente nel tempo e priva di effetti attuali, relegando il riscontro tossicologico a prova ex se sufficiente, se non addirittura esclusiva, del fatto penalmente rilevante.
Si è assistito, pertanto, a una potenziale (e preoccupante) traslazione della fattispecie dal novero consolidato dei reati di pericolo concreto a quello, dogmaticamente più incerto e problematico, dei reati di pericolo astratto puro, se non addirittura a una configurazione ontologica che pericolosamente lambisce i confini del reato di mero sospetto.
2. I Vulnera denunciati dall’Autorità rimettente
Il mutato assetto normativo, tuttavia, non ha mancato di suscitare immediate e significative perplessità tra gli operatori del diritto.
Nel segno delle menzionate criticità, s’innesta, in chiave emblematica, l’articolata ordinanza con cui il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Pordenone, in data 8 aprile 2025, ha sollevato un incidente di costituzionalità, prospettando motivati – e senz’altro condivisibili – dubbi circa la compatibilità della nuova disposizione con l’attuale assetto ordinamentale.
Ciò posto, alla stregua dell’impianto argomentativo analiticamente rassegnato dal Giudice a quo, un primo profilo di incostituzionalità andrebbe ravvisato, a ben vedere, nella violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., essendo, in base al novum normativo, l’impiego della sanzione penale unicamente subordinato— sulla scorta di una presunzione ingiustificatamente fondata sul criterio dell’id quod plerumque accidit — al mero riscontro della positività del soggetto agente alla precedente assunzione di sostanze stupefacenti, in assenza, tuttavia, di qualsivoglia accertamento circa l’effettiva compromissione della capacità di guida.
Strettamente connessa alla segnalata irragionevolezza risulterebbe essere, altresì, la violazione del principio di proporzionalità (anch’esso desumibile dall’art. 3 Cost.) stante l’ingiustificato ricorso, da parte del Legislatore, allo strumento penale – ontologicamente concepito quale extrema ratio dell’ordinamento – per reprimere condotte di per sé neutrali rispetto alla lesione del bene giuridico tutelato, eccedendo così i limiti della stretta necessità e vulnerando, al contempo, il fondamentale canone della sussidiarietà della sanzione.
Il profilo di maggior attrito si coglie, tuttavia, – almeno a parere di chi scrive – rispetto alla possibile violazione del postulato di offensività del reato (nullum crimen sine iniuria), ormai assurto a principio costituzionale, implicito ma irrefutabile.
Ed invero, la totale elisione del requisito dello “stato di alterazione”, ha inevitabilmente comportato uno spostamento del baricentro della punibilità, ancorandola non già alla produzione di un concreto pericolo per la sicurezza stradale, bensì alla mera qualità personale del conducente, secondo la logica – oramai “tendenzialmente” desueta – del diritto penale d’autore, in cui la repressione si fonda sull’essere, piuttosto che sull’agire.
L’apparente automatismo sanzionatorio discendente dalla mera positività al test – sottolinea ancora il rimettente – preclude, inoltre, all’interprete ogni spazio di ricerca dell’offensività in concreto (essendo il disvalore della condotta già selezionato, ex ante, dal Legislatore), cristallizzando così una presunzione assoluta di pericolosità, difficilmente conciliabile con i principi di colpevolezza e personalità della responsabilità penale (art. 27, co. 1 Cost.).
Potenzialmente violata risulterebbe, da ultimo, la finalità rieducativa della pena, incarnata dall’art. 27 co. 3 Cost.
Una pena avvertita dal condannato come ingiusta, sproporzionata e irragionevole, in quanto avulsa da ogni opportuno riferimento a un contegno effettivamente pericoloso, difficilmente potrà orientarlo verso una futura adesione ai valori dell’ordinamento giuridico e sociale, compromettendo, irrimediabilmente, l’obiettivo costituzionale del reinserimento sociale e favorendo, al contrario, fenomeni di reviviscenza delittuosa.
3. Considerazioni conclusive e prospettive de iure condendo
L’intervento riformatore sull’art. 187 C.d.S., benché mosso da un’apprezabile esigenza di rafforzamento della sicurezza stradale rispetto a fenomeni socialmente allarmanti, solleva rilevanti criticità sotto il profilo della coerenza sistematica e della compatibilità con i principi costituzionali che governano la materia penale.
Come efficacemente lumeggiato dall’ordinanza del G.I.P. friulano, la scelta legislativa di prescindere dalla verifica dell’effettiva alterazione psico-fisica, affidandosi al solo dato bio-tossicologico – già di per sé problematico quanto alla correlazione con la concreta capacità di guida – segna un significativo arretramento rispetto ai canoni di offensività, proporzionalità, ragionevolezza e determinatezza che devono (necessariamente) guidare l’esercizio della potestà punitiva.
Il rischio, tutt’altro che teorico, è quello di scivolare verso modelli di responsabilità oggettiva o, financo, di presunzione assoluta di pericolosità, finendo, dunque, per sanzionare la mera condizione soggettiva dell’agente (l’assunzione di sostanze), piuttosto che una condotta effettivamente lesiva o pericolosa del bene giuridico presidiato.
In questo quadro, il giudizio affidato al Giudice delle leggi, assume un rilievo senz’altro decisivo: ponendosi nel solco della oramai sedimentata giurisprudenza costituzionale, risulterà cruciale – e tanto più auspicabile – ribadire il primato del principio di offensività quale parametro oramai imprescindibile di legittimità di ogni fattispecie penale. Solo così risulterà possibile restituire al diritto penale la sua preminente funzione di extrema ratio, sottraendolo alla deriva dell’arbitrio presuntivo e riconducendolo entro i confini invalicabili della legalità, della proporzionalità e della giustizia sostanziale.
[1] Emblematico, in tal senso, risulta essere l’assunto ermeneutico, costantemente ribadito dalla Suprema Corte regolatrice, secondo cui “ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 187 cod. strada, non è sufficiente che l’agente si sia posto alla guida del veicolo subito dopo aver assunto droghe ma è necessario che egli abbia guidato in stato di alterazione causato da tale assunzione” (cfr., ex multis, Cass. Pen., Sez. IV, sentenza, 15/05/2013, n. 39160, Rv. 256830)
[2] cfr. C. Cost., Sent. n. 277/2004.
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Gabriele Ferro
Laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Siena, attualmente praticante avvocato, con predilezione per il settore del diritto penale sostanziale e processuale.
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