Reati negoziali e diritto civile: la parabola contrattuale dello scambio elettorale politico-mafioso

Reati negoziali e diritto civile: la parabola contrattuale dello scambio elettorale politico-mafioso

Numerose fattispecie penalmente rilevanti proiettano i loro effetti ben oltre la sfera repressiva, irradiandosi con intensità crescente nell’ambito civilistico, in particolare quando il reato si annida in seno al fenomeno negoziale.

È ormai approdo dottrinale consolidato la distinzione tra i c.d. reati contratto e i c.d. reati in contratto. Una dicotomia – va detto – partorita dall’ingegno esegetico della scienza giuridica, non codificata, ma divenuta insostituibile nella mappatura concettuale del diritto civile contemporaneo.

La funzione di tale distinzione è chiara: qualificare secondo i canoni propri del diritto privato tutti quei rapporti contrattuali che, per struttura o contenuto, lambiscono – o invadono – i territori del penalmente rilevante.

I c.d. reati contratto configurano l’ipotesi in cui la mera stipulazione dell’accordo negoziale costituisce condotta punita dalla legge penale, in quanto la pactio stessa contrasta con le fondamenta dell’ordinamento. Sul versante civilistico, la conseguenza non può che essere la nullità per contrarietà a norme imperative, ex art. 1418, comma 1, c.c.

I reati in contratto, al contrario, colpiscono non l’atto in sé, bensì le modalità della sua formazione: siamo nel regno del vizio genetico, ove il diritto penale interviene a reprimere coartazioni, frodi, o surrettizi condizionamenti che minano la genuinità del consenso.

In tali casi, la sorte civilistica del contratto andrà calibrata – con rigore casistico – entro il perimetro dell’annullabilità, della rescindibilità o, nei casi più gravi, della nullità.

All’interno del primo genus – e proprio per il suo valore paradigmatico – si colloca il delitto di scambio elettorale politico-mafioso, disciplinato dall’art. 416-ter c.p., inserito nel Titolo V del Libro II del codice penale, tra i delitti contro l’ordine pubblico. Una norma, questa, che ha fatto il suo ingresso nell’ordinamento solo nel 1992 con la legge n. 306, nel pieno di un’emergenza democratica che impose una legislazione straordinaria contro il crimine organizzato.

L’art. 416-ter, comma 1, punisce con la reclusione da quattro a dieci anni “chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’art. 416-bis, in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o altra utilità”. Il secondo comma estende la medesima sanzione anche al soggetto attivo della promessa.

La norma tutela primariamente l’ordine pubblico, ma – come ha lucidamente evidenziato la dottrina – si tratta di una protezione “a grappolo”: rientrano tra i beni giuridici aggrediti anche la libertà del voto, l’eguaglianza nell’accesso alle cariche elettive, la legittimità della competizione democratica e il buon andamento della Pubblica Amministrazione. In breve, tutta l’impalcatura costituzionale del potere democratico.

Il reato si presenta come plurisoggettivo necessario, con una singolare coreografia di ruoli: da un lato l’intraneus, esponente del sodalizio mafioso; dall’altro l’extraneus, il politico in cerca di voti.
Prima della riforma del 2014, il paradosso giuridico vedeva punito solo il secondo, lasciando impunito colui che offriva il voto mafioso. Un’anomalia che il legislatore ha corretto, completando il passaggio da reato plurisoggettivo improprio a proprio.

La novella del 2014 ha operato un salto di qualità: ha reso la norma autonoma rispetto all’art. 416-bis c.p., ampliato il novero delle “utilità” rilevanti, e soprattutto ha enfatizzato il disvalore penale della mera stipulazione dell’accordo, trasformando il pactum sceleris in un reato di pericolo astratto. Non conta se il voto sia realmente procurato: è l’intesa criminale a essere intollerabile per l’ordinamento.

L’elemento soggettivo è il dolo generico, che si sostanzia nella consapevolezza e volontà di instaurare un rapporto sinallagmatico con finalità elettorali, avvalendosi delle pressioni proprie del metodo mafioso. Non è dunque necessaria la partecipazione o l’affiliazione all’associazione: basta l’utilizzo degli strumenti tipici della stessa.

Ma è sul piano civilistico che la vicenda giunge al suo compimento analitico: lo scambio elettorale politico-mafioso rappresenta un tipico caso di reato contratto.

La stipulazione stessa dell’accordo costituisce condotta penalmente rilevante e, per ciò stesso, contra legem. L’intesa negoziale è viziata ab origine e si pone frontalmente contro principi non negoziabili dell’ordinamento democratico: la libertà di voto, la par condicio tra i candidati, la trasparenza della competizione.

Ne deriva, inesorabile, la nullità del contratto ex art. 1418, comma 1, c.c. Nessun effetto giuridico può sopravvivere ad un accordo che svende la sovranità popolare al miglior offerente.

In conclusione, la figura dello scambio elettorale politico-mafioso esprime – sul versante penalistico – la volontà dell’ordinamento di reagire all’infiltrazione delle logiche criminali nel cuore del sistema democratico. Sul versante civilistico, essa conferma come il diritto dei contratti non possa tollerare pattuizioni che, dietro la forma del consenso, celano un’inaccettabile mercificazione delle istituzioni.

Un’ulteriore lezione – per chi la voglia cogliere – sul fatto che non tutto ciò che può essere “negoziato” è degno di entrare nel regno del diritto.


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