Art. 108 D.Lgs. 50/2016: quale rapporto con l’annullamento d’ufficio dopo la stipula del contratto?

Art. 108 D.Lgs. 50/2016: quale rapporto con l’annullamento d’ufficio dopo la stipula del contratto?

Il nuovo Codice dei Contratti Pubblici (D.lgs. 50/2016) prevede all’art. 108 una serie di ipotesi di risoluzione del contratto di appalto stipulato tra la stazione appaltante e l’aggiudicatario. Si tratta di una disposizione che trova il proprio fondamento normativo nell’art. 73 della Direttiva 2014/24/UE, ove il legislatore europeo ha previsto un nucleo minimo di ipotesi nelle quali gli Stati membri sono tenuti ad assicurare alle amministrazioni aggiudicatrici, alle condizioni stabilite dal diritto nazionale, la possibilità di risolvere un contratto pubblico durante il periodo di validità dello stesso.

Il termine “risoluzione” costituisce dunque un nomen iuris utilizzato dal legislatore europeo che, il legislatore nazionale, avrebbe dovuto declinare secondo i caratteri e gli istituti propri dell’ordinamento interno, eventualmente prevedendo casi di risoluzione ulteriori rispetto a quelli di derivazione europea; a contrario, invece, in sede di recepimento, tale termine è stato riprodotto in maniera pedissequa a livello nazionale, creando confusione e sollevando problemi che sembravano ormai superati nel quadro normativo previgente rispetto al codice: uno su tutti, l’ammissibilità dell’intervento in autotutela, sotto forma di annullamento d’ufficio, una volta stipulato il contratto di appalto.

Analizzando la disposizione contenuta nel Codice emerge come le ipotesi di risoluzione si possano distinguere in 3 macro-categorie: il primo comma prevede ipotesi di risoluzione facoltativa del contratto, ove il legislatore si è espresso nel senso per cui le stazioni appaltanti “possono risolvere” il contratto; il secondo comma prevede invece ipotesi di risoluzione doverosa mentre, il terzo comma, considera l’ipotesi della risoluzione quale frutto dell’inadempimento dell’appaltatore. Occorrerà pertanto procedere ad una trattazione separata delle 3 fattispecie, con un’esame specifico delle ipotesi di risoluzione facoltativa di cui al primo comma che, come si vedrà, costituiscono la categoria dalla quale emergono più spunti di discussione.

Il comma 1 dell’art. 108 enuclea, come sopra visto, una serie di ipotesi di risoluzione c.d. “facoltativa”; in particolar modo rilevano i casi per cui:

  • Il contratto ha subito una modifica sostanziale che avrebbe richiesto una nuova procedura di appalto ai sensi dell’articolo 106;

  • Il contratto ha subito delle modifiche che hanno comportato il superamento delle soglie individuate dal medesimo art. 106;

  • L’aggiudicatario, al momento dell’aggiudicazione avrebbe dovuto essere escluso dalla procedura di appalto o di aggiudicazione della concessione;

  • L’appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati, come riconosciuto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in un procedimento ai sensi dell’articolo 258 TFUE.

Nell’analisi di tali fattispecie è compito dell’interprete sopperire al mancato coordinamento non effettuato dal legislatore nazionale in sede di recepimento: occorrerà dunque chiedersi quale sia la natura di tali vizi presi in considerazione dalla norma, al di là del nomen iuris “Risoluzione” che, come evidenziato in apertura, costituiva un termine atecnico utilizzato la legislatore europeo. Ad una lettura attenta emerge come tali fattispecie contemplino dei vizi di legittimità afferenti la fase ad evidenza pubblica: se tale considerazione è immediata ed evidente per le ipotesi di cui alle lettere c) e d) della norma, meno palese è la natura di vizio di legittimità per i casi di modifica sostanziale del contratto di cui alle lettere a) e b).

Entra qui in gioco il c.d. divieto di rinegoziazione del contratto facente capo alla Pubblica Amministrazione: occorre infatti rilevare come una modifica ex post del contenuto del contratto determini non soltanto un’alterazione del sinallagma contrattuale, generando altresì uno svilimento della fase ad evidenza pubblica che precede il contratto stesso: se si ammettesse infatti un illimitato potere di modifica successivo, la fase pubblicistica sarebbe di fatto svuotata nel suo contenuto, con un significativo danno rispetto alla trasparenza ed imparzialità della Pubblica Amministrazione, realizzando altresì una lesione della libera concorrenza tra gli operatori economici.

Oggetto di elaborazione è stato dunque un giudizio di “prognosi postuma”, secondo il quale rileva quella mutazione delle condizioni contrattuali che, se fin da subito conosciuta, avrebbe potuto incidere sulla scelta dei concorrenti attuali e potenziali in ordine all’an e al quid della propria offerta e quindi, potenzialmente, sull’esito della gara. Tale affermazione costituisce dunque la concretizzazione di quello che la dottrina ha denominato come “scope of the competition test”, per cui una modifica contrattuale risulta, in altri termini, essenziale e quindi non ammissibile se, secondo un giudizio di prognosi postuma, la sua adozione risulti incompatibile con i termini dell’aggiudicazione del contratto originario (F. GOISIS, Principi in tema di evidenza pubblica e rinegoziazione successiva del contratto: conseguenze della loro violazione sulla serie pubblicista e privatistica, autotutela e riparto di giurisdizione, Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 2, 2011, pag. 815).

In tal senso occorre rilevare come il legislatore nazionale abbia recepito, nell’art. 106 del Codice, alcune ipotesi di modifica del contratto successive alla stipula dello stesso, circondandole di limiti sostanziali ed oneri procedurali ben definiti; a questo punto si può ben valutare come il superamento di quei limiti, non a caso richiamati dalle lett. a) e b) di cui all’art. 108, determinino un vizio di legittimità della fase ad evidenza pubblica e, dunque, del provvedimento di aggiudicazione.

A questo punto, una volta dato atto del fatto che le ipotesi di cui al primo comma dell’art. 108 costituiscono dei vizi di illegittimità riconducibili alla fase ad evidenza pubblica e rilevanti nella fase successiva alla stipula del contratto, si può dunque concludere che quelle ipotesi, celate sotto l’atecnico nomen iuris di “Risoluzione”, costituiscono in realtà ipotesi di Annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies L. 241/1990, ammesso anche successivamente alla stipula del contratto di appalto. Non sembra dunque essere condivisibile quella ricostruzione che vede nella Risoluzione uno strumento privatistico alternativo rispetto all’Annullamento d’ufficio, idoneo ad escludere l’applicazione di quest’ultimo una volta concluso il contratto di appalto; tale ricostruzione dottrinale opera sostanzialmente “un’estensione analogica” del principio di diritto espresso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14/2014, la quale aveva escluso l’ammissibilità della Revoca ex art. 21-quinquies L. 241/1990 una volta concluso il contratto, residuando per l’amministrazione la sola possibilità di fare ricorso al diritto di Recesso dal contratto di appalto (art. 134 D.lgs. 163/2006; oggi art. 109 D.lgs. 50/2016).

Nessun problema sotto tale profilo comporta la circostanza per cui le ipotesi di Risoluzione (leggasi “Annullamento d’ufficio”) di cui al comma 1 siano “facoltative”, nel senso per cui la stazione appaltante può risolvere il contratto. In tal senso occorre infatti ricordare come l’intervento in autotutela, sotto forma di annullamento d’ufficio, non sia un intervento doveroso fondato su una mera valutazione di illegittimità del provvedimento oggetto di riesame. L’art. 21-nonies L. 241/1990 richiede infatti che l’amministrazione riscontri la sussistenza di un interesse pubblico all’eliminazione del provvedimento, da porsi in una valutazione comparativa con gli interessi dei destinatari del provvedimento e dei controinteressati: si richiede dunque un’attività istruttoria che va ben al di là del mero riscontro di un vizio di illegittimità – diversamente da quanto accade per l’annullamento giurisdizionale -, con i relativi riflessi sul piano motivazione del provvedimento di secondo grado.

Se tale considerazione – volta a riconoscere nelle ipotesi di “Risoluzione” di cui al comma 1 casi di Annullamento d’ufficio del provvedimento di aggiudicazione ammesso anche a seguito della stipula del contratto – poteva ritenersi fondata già sulla base dell’originaria formulazione dell’art. 108 D.lgs. 50/2016, oggi appare riconfermata e difficilmente superabile per effetto del decreto correttivo del 2017 (D.lgs. 56/2017). La novella legislativa inserita dal citato decreto ha infatti aggiunto un comma 1-bis all’art. 108, prevedendo espressamente come per le ipotesi di cui al primo comma non si applicano i termini previsti dall’art. 21-nonies L. 241/1990, ossia proprio quella norma che fonda il potere di intervento in autotutela, sotto forma di annullamento d’ufficio: trova così conferma la ricostruzione per cui le ipotesi di cui al primo comma dell’art. 108 costituiscono ipotesi di annullamento d’ufficio del provvedimento di aggiudicazione ammesse anche a seguito della stipula del contratto di appalto.

Il vero quesito che occorre porsi è quello relativo alla tassatività o meno delle suddette ipotesi: occorre dunque chiedersi se i casi di cui al comma 1 costituiscano un elenco tassativo, al di là dei quali non è ammesso il ricorso al potere di autotutela ovvero, a contrario, costituiscano un regime speciale in virtù dell’affrancamento dai termini di cui all’art. 21-nonies L. 241/1990, accanto a quale permane la generalità del potere di annullamento d’ufficio. Occorre qui ricordare come il legislatore europeo abbia previsto un nucleo minimo di ipotesi di risoluzione, che il legislatore nazionale ben avrebbe potuto estendere: rispetto a tale facoltà, la scelta del legislatore delegante è stata opposta. Dall’art. 1 lett. a) della legge delega al “Codice” (L. 11/2016) emerge infatti il c.d. divieto di “gold plating”, per cui verso il legislatore delegato sussiste il “divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive“. Da tale elemento se ne può dedurre la tassatività delle ipotesi di derivazione europea e dunque l’esclusione delle ipotesi di annullamento d’ufficio dopo la stipula del contratto diverse da quelle prese in considerazione dall’art. 108 comma 1 del Codice dei contratti pubblici.

A sostegno di tale ricostruzione rileva anche l’art. 176 del medesimo Codice in materia di “Concessioni”. La norma – così come novellata dal decreto correttivo (D.lgs. 56/2017) – nel prevedere ipotesi di “Cessazione” della Concessione non dissimili dai casi di Risoluzione di cui all’art. 108 contiene l’inciso “Fermo restando l’esercizio dei poteri di autotutela” che, dunque, sembra mantenere carattere generale. L’assenza, a contrario, di tale inciso nella norma che regola la risoluzione del contratto di appalto sembra portare dunque a una riconferma della tassatività delle ipotesi di annullamento d’ufficio del provvedimento di aggiudicazione una volta stipulato il contratto di appalto, ammesso dunque per i soli quattro casi di cui all’art. 108 comma 1.

Svolte le suddette considerazioni sul comma 1 dell’art. 108 del Codice dei contratti pubblici, separate valutazioni riguardano invece il comma secondo della citata norma; qui il legislatore prende in considerazione i casi per cui:

a) Nei confronti dell’appaltatore sia intervenuta la decadenza dell’attestazione di qualificazione per aver prodotto falsa documentazione o dichiarazioni mendaci;

b) nei confronti dell’appaltatore sia intervenuto un provvedimento definitivo che dispone l’applicazione di una o più misure di prevenzione di cui al codice delle leggi antimafia e delle relative misure di prevenzione, ovvero sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato per i reati di cui all’articolo 80.

Si tratta qui di fattispecie sopravvenute rispetto all’aggiudicazione che, in virtù del principio tempus regit actum, non possono essere riconosciute come vizi di legittimità del provvedimento di aggiudicazione stesso, non potendo dunque giungere alle medesime conclusioni sopra viste per le ipotesi di cui al comma 1. Si tratta piuttosto di casi di decadenza/rimozione, peraltro doverosa, del contratto, impropriamente riunite dal legislatore sotto il medesimo nomen iuris di Risoluzione.

Un’ulteriore diversità si riscontra poi le l’ipotesi di Risoluzione di cui al comma 3 dell’art. 108: qui infatti la risoluzione costituisce la conseguenza di un “grave inadempimento alle obbligazioni contrattuali da parte dell’appaltatore, tale da comprometterne la buona riuscita delle prestazioni“. In questo caso dunque il termine Risoluzione sarà da declinare in una terza accezione, non dissimile dalla risoluzione per inadempimento ex artt. 1453 e 1455 c.c..

Volendo dunque concludere si deve ritenere che sia compito dell’interprete sopperire al mancato coordinamento non effettuato dal legislatore in sede di recepimento; in particolare occorre superare il nomen iuris risoluzione riprodotto pedissequamente in sede di adozione del Codice e riscontrare, all’interno della medesima norma, 3 regimi differenti:

  • Casi tassativi di annullamento d’ufficio del provvedimento di aggiudicazione ammesso anche a seguito della stipula del contratto di appalto (art. 108 comma 1);

  • Casi di decadenza/rimozione doverosa del contratto in virtù di un fatto sopravvenuto (art. 108 comma 2);

  • Casi di risoluzione per inadempimento (art. 108 comma 3).


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Andrea Farruggio

Dottore in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Milano.

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