Hiv e detenzione: le misure alternative al carcere

Hiv e detenzione: le misure alternative al carcere

Prima di giungere a definire quali possano essere, nei casi concreti, le misure alternative di cui può beneficiare il ristretto sieropositivo, appare opportuno volgere uno sguardo generale ad esse. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per mezzo della Raccomandazione (92)16, rifacendosi al termine anglosassone community sanction, fornisce la seguente definizione di misure alternative: “sanzioni e misure che mantengono il condannato nella comunità ed implicano una certa restrizione della sua libertà attraverso l’imposizione di condizioni e/o obblighi e che sono eseguite dagli organi previsti dalle norme in vigore”[1]. Nel nostro Paese le misure alternative alla detenzione sono state introdotte dalla Legge 26 luglio 1975 n. 354 (Ordinamento Penitenziario O.P.) ed esse si sostanziano in: semilibertà, detenzione domiciliare e affidamento in prova al servizio sociale. Le misure alternative si rivolgono ad esclusivo beneficio dei detenuti definitivi, ovverosia con sentenza non più impugnabile.

La semilibertà è prevista dall’art. 48 O.P. e consiste nella concessione al condannato di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto penitenziario al fine di partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale.

La detenzione domiciliare è disciplinata dall’art. 47ter O.P. e consiste nell’obbligo di risiedere nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora oppure in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza. È possibile applicare il suddetto istituto qualora la pena consista nella reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, o nell’arresto. Ulteriore presupposto per l’applicazione della detenzione domiciliare è costituito dalle particolari condizioni psico-fisiche richieste dal primo comma dell’art. 47ter, ossia: a) l’essere donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente; b) l’essere padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole; c) l’essere persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presìdi sanitari territoriali; d) l’essere persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente; e) l’essere persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.

Il Tribunale di Sorveglianza, concedendo la misura alternativa della detenzione domiciliare, deve fissarne le modalità di esecuzione e ha la facoltà di imporre al condannato limiti relativi alla comunicazione con persone diverse dai familiari, nonché di autorizzare lo stesso ad uscire dal luogo di detenzione durante la giornata per il tempo strettamente necessario per provvedere alle indispensabili esigenze di vita, se mancano persone che possono provvedervi, oppure per recarsi presso luoghi di cura [2]. Il condannato che, essendo in stato di detenzione nella propria abitazione o in un altro dei luoghi supra indicati, se ne allontana, è punito ai sensi dell’articolo 385 C.P.[3].

Quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del Codice Penale, il Tribunale di Sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui sopra, può disporre l’applicazione della detenzione domiciliare, stabilendo un termine di durata di tale applicazione, termine che può essere prorogato. Il condannato nei confronti del quale essa è disposta non è sottoposto al regime penitenziario previsto dall’O.P. e dal relativo regolamento di esecuzione, talché nessun onere può gravare sull’amministrazione penitenziaria per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica del condannato che trovasi in detenzione domiciliare. La detenzione domiciliare è inoltre revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione delle misure [6], oppure se e quando vengano a cessare le condizioni di cui sopra. L’ordinamento prevede varie forme di detenzione domiciliare.

L’affidamento in prova al servizio sociale è disciplinato dall’art. 47 O.P. e consiste nell’affidamento del condannato al summenzionato servizio sociale, fuori dall’istituto di pena per un periodo uguale a quello della pena da scontare.

La pena detentiva inflitta, o anche residuo pena, non deve essere superiore a tre anni (art. 47 c 1 O.P.) o a quattro quando il condannato abbia serbato – quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà – un comportamento tale da far ritenere che il provvedimento stesso, anche attraverso le prescrizioni, contribuisca alla sua rieducazione e assicuri la prevenzione del pericolo che commetta altri reati. L’applicazione dell’affidamento da un lato fa venir meno ogni rapporto del condannato con l’istituzione carceraria e dall’altro comporta l’instaurarsi di una relazione di tipo collaborativo con l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna. A tal fine viene elaborato un programma di trattamento individuale che declina le attività che il soggetto dovrà svolgere, gli obblighi e gli impegni cui deve attenersi ed i controlli cui sarà sottoposto [7]. L’affidamento in prova ex art. 47 O.P. ha, per il condannato, il grande vantaggio di far estinguere la pena detentiva ed ogni altro effetto penale qualora, al termine del periodo di prova, vi sia esito positivo dello stesso.

Anche in relazione a questa misura ne esistono varie tipologie speciali.

Un rapido sguardo merita l’“affidamento in prova speciale per tossicodipendenti e alcoldipendenti”, previsto dall’art. 94 del DPR 309/1990. Può infatti avanzare richiesta il condannato tossicodipendente o alcoldipendente che abbia una pena detentiva inflitta o un residuo pena non superiore a sei anni, che abbia in corso – o intenda sottoporsi – ad un programma di recupero, che abbia concordato il programma terapeutico con la A.S.L. (o con altri enti, pubblici o privati espressamente indicati dall’art.115 D.P.R. 309/1990) e che possieda una certificazione, rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o privata autorizzata, sullo stato di tossicodipendenza o alcooldipendenza e sull’idoneità, ai fini del recupero, del programma terapeutico.

Appare opportuno precisare come, nella prassi, spesse volte questa misura “speciale” possa non venir concessa poiché la pena o il residuo di essa è particolarmente breve. In sostanza se è vero che un piano di recupero per tossicodipendenti richiede un impegno solitamente non inferiore a 12/18 mesi, il soggetto che dovrà espiare una pena o un residuo molto più breve rispetto alla suddetta durata minima del percorso di recupero non potrebbe giovare di tale misura – rimanendo dunque in carcere – proprio a causa della permanenza nella struttura riabilitativa che sarebbe troppo breve e quindi inutile.

Il condannato sieropositivo che versi anche in stato di tossicodipendenza o alcooldipendenza ben potrebbe usufruire di tale tipologia speciale d’affidamento in prova, non già per il suo stato sierologico bensì per la sua dipendenza alle sostanze stupefacenti e/o alcoliche.

Venendo ora ai possibili casi d’applicazione delle misure alternative nei confronti dei soggetti sieropositivi e in stato di AIDS non tossicodipendenti, strettamente connessi al tema del presente elaborato, in primis appare necessario premettere alcuni brevi cenni storici. La sindrome da immunodeficienza acquisita fu inserita ufficialmente nell’elenco delle malattie infettive in data 28/11/1986, in seguito all’emanazione di apposito decreto ministeriale. In considerazione del fatto che le persone colpite da tale sindrome allo stadio conclamato necessitano di periodici, regolari e complessi accertamenti volti a stabilire la terapia farmacologica (che nel corso del tempo può dover essere cambiata) o diagnosticare e trattare le infezioni opportunistiche ad essa correlate, già nel lontano 1989 la Commissione Nazionale per la lotta all’AIDS si espresse nel senso di negare totalmente la compatibilità tra questi soggetti e lo stato detentivo carcerario. Gli esecutivi, da quella data susseguitisi, emanarono numerosi decreti ministeriali finalizzati a dare una disciplina definitiva al problema della tutela della salute dei malati di AIDS, fino ad arrivare all’anno 1999 durante il quale vennero effettivamente introdotte – per mezzo della Legge n. 231 – vere pene alternative alla detenzione per tali soggetti.

Ai sensi dell’art. 47quater O.P. possono essere disposte – anche oltre i limiti di pena previsti – a beneficio di coloro che sono affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’articolo 286-bis c.2 C.P.P., sia la detenzione domiciliare che l’affidamento in prova al servizio sociale qualora abbiano in corso o intendano intraprendere un programma di cura e assistenza presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell’assistenza ai casi di AIDS. È opportuno precisare che ciò può valere soltanto nei confronti di quei soggetti che seguono pedissequamente le terapie prescritte dall’infettivologo. Chi, come i negazionisti, scientemente non le segue di fatto rifiutandole, al contrario, non potrà vedersi applicate le misure di cui sopra poiché non sarà possibile valutare l’andamento stesso della malattia, dunque saggiare l’effettiva utilità di tali soluzioni più favorevoli rispetto alla carcerazione. L’istanza dovrà essere presentata dall’interessato o dal suo difensore alla Magistratura di Sorveglianza e corredata da apposita certificazione del servizio sanitario pubblico competente (o del servizio sanitario penitenziario) attestante la sussistenza delle condizioni di salute e la concreta attuabilità del succitato programma di cura e assistenza.

In caso di applicazione della misura della detenzione domiciliare, i centri di servizio sociale per adulti svolgeranno l’attività di sostegno e controllo circa l’attuazione del programma sanitario; nei casi contrari, il giudice ordina che il soggetto sia detenuto presso un istituto carcerario dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie. Anche in queste fattispecie è stabilita la competenza del Tribunale di Sorveglianza, contro la cui decisione è possibile ricorrere per Cassazione. Le limitazioni e le sanzioni per mancato rispetto dei programmi e delle leggi, è ugualmente sanzionata al pari dei casi “ordinari” di affidamento e detenzione domiciliare ex artt. 47 e 47ter O.P..

È ragionevole ipotizzare che il condannato sieropositivo il quale non versi in stato di AIDS o grave immunodeficienza o tossicodipendenza o alcooldipendenza, possa non essere beneficiario di alcuna misura alternativa “speciale” alla carcerazione ex art. 47quater O.P., a meno che lo stesso non rientri tra quelle “ordinarie” (o “speciali per dipendenze”) poiché la pena o il residuo di essa risulta compatibile con l’applicazione dei criteri temporali previsti.

Al contrario è altrettanto ragionevole ipotizzare che il condannato sieropositivo il quale versi in stato di AIDS o di grave deficienza immunitaria, possa, senza alcuna limitazione temporale d’accesso, beneficiare fin da subito delle misure alternative “speciali” alla carcerazione ex art. 47quater O.P. (detenzione domiciliare e affidamento ai servizi sociali) purché abbia in corso o intenda intraprendere un programma di cura ed assistenza presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell’assistenza ai casi di AIDS.

Ancora una volta è da confermare l’assunto secondo cui lo stato di “mera” sieropositività non già sfociata né in AIDS né in grave immunodeficienza né in altra patologia grave o dipendenza, non trova alcun rimedio alternativo alla carcerazione sia in sede d’indagini preliminari che d’esecuzione.

Secondo migliore dottrina, l’unica possibilità per i soggetti di cui sopra è data dall’art. 11 O.P., “trasferimento in ricovero esterno” [8]. Ciò detto non può valere omnibus. Sarà possibile azionare il rimedio ex art. 11 O.P. soltanto qualora la domanda in tema di salute, in base alle necessità cliniche del detenuto, superi ampiamente le risorse già a disposizione dell’istituto penitenziario. Il provvedimento con il quale viene disposto tale ricovero è adottato, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dal giudice per le indagini preliminari; per gli imputati dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e per i definitivi, dal Magistrato di Sorveglianza[9], salvo casi d’assoluta urgenza autorizzati dal Direttore dell’istituto penitenziario. Il provvedimento che nega il ricovero del detenuto in una struttura sanitaria esterna all’istituto non è impugnabile. La giurisprudenza è costante nel ritenere che tale atto abbia contenuto amministrativo e non incida sulla libertà personale del soggetto, ma solo sulle modalità di detenzione: egli, anche se trasferito in ospedale, rimane in vinculis. Il ricovero in luoghi esterni di cura si svolge con le modalità previste dal comma III dell’art. 11 O.P.: vale, come principio generale, l’obbligo di piantonamento del detenuto, con la facoltà conferita al Magistrato di disporre l’esonero dallo stesso sul presupposto che non vi sia pericolo di fuga, oppure qualora la costante custodia non risulti necessaria per la tutela della incolumità personale del detenuto[10]. Dalla disciplina analizzata restano ancora una volta esclusi queste persone, le cui condizioni non sembrano a parere del legislatore autorizzare una deroga al regime detentivo in carcere e per i quali, dunque, si può prospettare soltanto il “ricovero in luogo esterno di cura” di cui all’art. 11 O.P.: in termini numerici tali soggetti rappresentano la maggioranza tra gli affetti da HIV [11].

È auspicabile tutt’oggi una maggior attenzione del legislatore alla realtà clinica di una malattia che sta rapidamente cambiando le sue caratteristiche, ma che mantiene una notevole difficoltà di gestione clinica e psicologica in ambiente carcerario. Non bisogna infatti dimenticare che nei nostri istituti penitenziari è concentrata una percentuale sproporzionatamente alta di soggetti che già all’ingresso presentano condizioni patologiche di varia natura, talora dagli stessi ignorate e trascurate. Elevato è il numero di tossicodipendenti e di alcolisti, con tutte le varietà patologiche correlate alla loro condizione, alta è inoltre l’incidenza di sieropositivi e conclamati, di soggetti affetti da TBC latente o attiva e persone contagiose per altre malattie [12].

Nonostante gli apprezzabili e massicci interventi del legislatore attuati negli ultimi 30 anni, il mantenimento in carcere del soggetto sieropositivo dovrebbe realmente divenire misura di extrema ratio posto che nei soggetti con scarse difese immunitarie, le infezioni e le complicanze costituiscono un elevato rischio in ambienti – quali appunto quelli penitenziari – che si caratterizzano per le condizioni di vita disagiate [13].


[1] Ministero della Giustizia, “Itinerari a tema”, https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_3_1_4.page
[2] DE FERRARI F., ROMANO C.A., La tutela della salute del detenuto, in PALMIERI L. DE FERRARI F., Manuale di medicina legale Per una formazione per una conoscenza, Giuffrè, 2013
[3] Art. 47ter c. 8 L. 354/1975
[4] Art. 47ter c. 1ter L. 354/1975
[5] Art. 47ter c. 5 L. 354/1975
[6] Art. 47ter c. 6 L. 354/1975
[7] Ministero della Giustizia, https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_8_20.page
[8] DE FERRARI F., ROMANO C.A., Sistema penale e tutela della salute, Giuffrè, 2003
[9] Art. 240 Disp. Att. CPP
[10] BRAGHINI S., Diritto penitenziario. Il diritto alla salute nell’ordinamento penitenziario, in www.mondodiritto.it
[11] DE FERRARI F., ROMANO C.A., Sistema penale e tutela della salute, Giuffrè, 2003
[12] Ibidem
[13] DE FERRARI F., ROMANO C.A., La tutela della salute del detenuto, in Manuale di Medicina Legale Per una formazione per una conoscenza, Giuffrè, Milano, 2013


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Enrico Tranquilli

Laurea Magistrale in Giurisprudenza conseguita cum laude presso l'Università degli Studi di Camerino.Praticante avvocato abilitato al patrocinio sostitutivo.Tirocinante Uffici Giudiziari.https://www.linkedin.com/in/enricotran

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