I rischi del “premierato” nel progetto di riforma costituzionale del 2023: una riforma non utile?

I rischi del “premierato” nel progetto di riforma costituzionale del 2023: una riforma non utile?

La maggioranza parlamentare, in conclusione del primo anno di legislatura, ha presentato alle Camere per il tramite della Presidente del Consiglio e della Ministra per le riforme istituzionali un progetto di riforma costituzionale (Disegno di legge n. 935/2023 (1), attualmente in esame alla Commissione parlamentare competente del Senato della Repubblica) il cui intento – emergente dalle dichiarazioni preliminari al progetto di legge depositato dalla Ministra Alberti Casellati – è quello di “offrire soluzione a problematiche ormai risalenti e conclamate della forma di governo italiana, cioè l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze, il transfughismo parlamentare. […] Al contempo la proposta di legge mira a consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione”. Conseguentemente, l’obiettivo dichiarato è quello di porre rimedio alle difficoltà che i cittadini riscontrano nello “[…] imputare correttamente le responsabilità nell’ambito di un sistema decisionale vischioso”.

Emerge, da una prima analisi, di come sul banco degli imputati (nuovamente) sia posto il sistema costituzionale sorto nel dopoguerra, nella forma della democrazia parlamentare, che assegna un ruolo centrale al consesso parlamentare (sotto forma di bicameralismo paritario), anche nei confronti del Governo, che è diretta emanazione delle dinamiche parlamentari per il tramite del rapporto fiduciario con le Camere, da cui origina la pienezza dei poteri dell’esecutivo.

È indubbio che da anni, ormai, il rapporto di subordinazione tra esecutivo e legislativo si sia invertito nel funzionamento materiale dei rapporti istituzionali: a riprova vi è l’abuso dello strumento della decretazione d’urgenza (relegata dalla Costituzione a casi straordinari di necessità ed urgenza e nonostante le plurime pronunce a sfavore di tale pratica da parte dei giudici costituzionali, prima tra tutte Corte Cost. n. 360/1996), la reiterazione nell’imposizione di voti di fiducia (con le conseguenze procedurali che essi comportano: in particolare, si vedano le limitazioni di cui all’art. 116 del vigente Regolamento della Camera dei Deputati) e, sotto il profilo della dialettica parlamentare, l’impoverimento medio del dibattito in Aula rispetto al ruolo di primo piano – anche mediatico – assunto dal Governo. Il Parlamento, difatti, è stato relegato al ruolo di notaio delle scelte del Governo in carica.

Il nucleo della riforma costituzionale proposta è contenuto negli articoli 3 e 4 del disegno di legge (2).

L’art. 3 modifica integralmente l’art. 92 dell’attuale Costituzione offrendo copertura costituzionale al sistema elettorale con premio di maggioranza: ovvero, assegnando il 55% dei seggi disponibili “ai candidati e alle liste collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri”. 

L’art. 4 opera invece su un duplice versante: da un lato si introduce una forma di elezione diretta del Presidente del Consiglio, stabilendo che questi venga eletto direttamente dal corpo elettorale e possa presentarsi due volte alle Camere per la fiducia, che, se non ottenuta, impone al Presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere e l’indizione di nuovi comizi elettorali (3).

Il secondo comma dell’art. 4 della riforma stabilisce invece che, approvata la mozione di sfiducia contro il Presidente del Consiglio (necessariamente quello “eletto” o suo successore secondo quanto segue), il Presidente della Repubblica sia vincolato a nominarne uno nuovo, della stessa maggioranza che sosteneva il precedente, “per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha chiesto la fiducia delle Camere”: ossia, per portare avanti il programma politico sulla base del quale è stato eletto il predecessore (sfiduciato).

La riforma, da una prima analisi, appare lacunosa e contraddittoria, sino a svuotare di senso l’obiettivo annunciato della “stabilità” dei Governi.

Anzitutto, una velocissima analisi comparata dimostra che un sistema parlamentare non è necessariamente un sistema inefficiente: parlamentari sono i sistemi tedesco ed inglese, dove la stabilità dei governi è empiricamente confermata dai dati storici, prima ancora che dalle dissertazioni teoriche. Parlamentare è altresì il sistema costituzionale spagnolo, in cui la stabilità degli esecutivi è garantita dallo strumento della sfiducia costruttiva (presente anche in Germania), ovverosia della possibilità di sfiduciare un Primo Ministro indicandone contestualmente un altro che prenda il posto del precedessore sfiduciato, per evitare interregni con Governi a poteri ridotti all’ordinaria amministrazione (problema che, storicamente ma per ben altre ragioni derivanti dalla particolare composizione multiculturale del corpo elettorale, si riscontra anche in Belgio).

Procedendo con l’analisi di dettaglio, le modifiche di cui agli artt. 1 e 2 della riforma prevedono l’abolizione del potere presidenziali di nomina dei senatori a vita (art. 1) e la soppressione del potere – per la verità desueto nel suo esercizio, a maggior ragione dopo la parificazione dell’età per l’elettorato attivo dopo l’ultima riforma costituzionale del 2020, e mai esercitato – di sciogliere solo uno dei due rami del Parlamento. Con particolare riferimento all’art. 1, però, non è dato cogliere la necessità di tale modifica normativa, tipico della tradizionale repubblicana italiana, se non dovuta incidentalmente a disaffezione dell’attuale maggioranza per i senatori a vita di recente nomina.

I problemi maggiori si riscontrano, invece, a giudizio di chi scrive, sugli artt. 3 e 4.

Con riferimento all’art. 3, la costituzionalizzazione di un sistema elettorale che preveda un premio di maggioranza al 55% si pone apertamente in contrasto con le sentenze che la Corte Costituzionale ha reso sulle leggi di approvazione dei sistemi elettorali Porcellum (4) (2005) e Italicum (5) (2015). Il premio di maggioranza, difatti, per come concepito all’epoca e nell’attuale riforma, determinerebbe – anche nel ragionamento dei giudici costituzionali – una distorsione nella trasformazione dei voti espressi in seggi del tutto disproporzionale: come avvenuto, nei fatti, a seguito delle elezioni parlamentari del 2013, in cui la prima coalizione (con il 25% dei voti circa) ha ottenuto il 55% dei seggi alla Camera.

La problematica desta notevoli preoccupazioni, posto che – oltretutto – la Corte Costituzionale non potrebbe intervenire in alcun modo sulla costituzionalizzazione di tale premio di maggioranza (ma solo sulla legge attuativa della previsione costituzionale sotto il profilo della sua conformità a Costituzione), a differenza dei precedenti casi scrutinati dai giudici della Consulta: l’unico arbitro in grado di esprimersi compiutamente sarebbe il corpo elettorale, mediante il referendum confermativo ai sensi dell’art. 138 co. 2 (convocato nel caso in cui, a seguito dell’approvazione in seconda lettura, lo richieda 1/5 dei membri di una Camera, ovvero 500.000 elettori o cinque Consigli Regionali).

Si rischia, pertanto, di irrigidire mediante copertura costituzionale un sistema elettorale iniquo, già abbondantemente censurato, per nulla coerente con gli intenti di “rappresentatività” che il disegno di legge si prefissa di raggiungere. E, per mera precisazione d’indagine, occorre osservare che la “rappresentatività” non necessariamente deve condurre ad un sistema elettorale di tipo proporzionale puro o lievemente corretto (con basse soglie di sbarramento), potendo verificarsi anche nel caso di un sistema maggioritario puro a collegi uninominali omogenei. Rappresentatività, infatti, non significa univocamente piena proporzionalità tra voti e seggi.

L’art. 4, invece, al netto della condivisibilità o meno dell’approccio sistematico relativo alla riformulazione del co. 3 (laddove la scelta è sulla condivisione o meno del tema del “premierato”), appare del tutto contraddittorio nell’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 94 della Costituzione.

Il testo recita: “In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio, il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha chiesto la fiducia delle Camere.”

L’approvazione di una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri raramente comporta l’intento, da parte della maggioranza parlamentare, di sconfessare la persona che presiede il Consiglio, ma la politica adottata dal Governo nel suo complesso, anche su tematiche settoriali o per passaggi parlamentari specifici.

La formulazione dell’art. 4, al contrario, incentra massimamente l’attenzione sulla persona, il Presidente “eletto”, e non sul programma politico ritenuto non soddisfacente dalla maggioranza parlamentare, che di fatto tale più non è: pertanto, in caso di non condivisione della politica governativa attuale da parte di uno dei due rami del Parlamento, appare del tutto inutile vincolare il Capo dello Stato a nominare un nuovo Presidente del Consiglio proveniente dalla stessa maggioranza (a patto, non scontato, che tale maggioranza riesca a ricomporsi dopo l’approvazione di una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente del Consiglio proveniente dalla stessa!).

L’unico caso di “cessazione” per il quale l’ultimo comma del nuovo art. 94 sembrerebbe mantenere una certa logicità di sistema sarebbe quello di decesso o dimissioni per motivi non politici del Presidente del Consiglio in carica (o dimissioni a seguito di impedimento permanente, come potrebbe avvenire per il Capo dello Stato). Al di fuori di tale ipotesi, l’applicazione di tale nuovo meccanismo al motivo maggiormente ricorrente di approvazione di una mozione di sfiducia (ossia la non condivisione dell’indirizzo politico generale o specifico del Governo) conduce all’attivazione di un meccanismo del tutto illogico, per il quale il Capo dello Stato sarebbe vincolato nel nominare un nuovo Presidente del Consiglio, proveniente dalla stessa maggioranza e ragionevolmente sostenuto dalla medesima – o quasi – che ha sconfessato il precedente, per permettere al nuovo incaricato di attuare il programma del precedente Presidente del Consiglio, sfiduciato. Meccanismo che, inoltre, irrigidirebbe la gestione della macchina amministrativa – massimamente espressa nelle decisioni politiche confluenti nella legge di bilancio – anche in momenti di transizione necessari a causa del mutamento di determinate condizioni politico-sociali.

Tale meccanismo, in conclusione, è nulla più di un vuoto simulacro, strutturalmente contraddittorio, che non risolve il problema – fisiologico nei sistemi parlamentari – dell’avvicendamento dei governi al cambio delle politiche maggioritarie in Parlamento e dei periodi di interregno. Problema che, al contrario, potrebbe essere arginato mediante il ricorso ad altri strumenti: primo tra tutti, il meccanismo della sfiducia costruttiva.

A ben vedere, inoltre, la formulazione del nuovo art. 94 risulta infelice laddove si mantiene la facoltatività della nomina secondo quanto descritto in seguito (“può”) da parte del Presidente della Repubblica:  tale possibilità è da intendersi come riferita alla sola alternatività tra Presidente eletto o “altro parlamentare”, ovvero spiana la strada a soluzioni innominate nel progetto di riforma, di fatto nulla modificando circa gli attuali poteri e la prassi delle consultazioni come prodromiche all’incarico da parte del Quirinale? L’analisi letterale della norma sconfessa potenzialmente l’irrigidimento voluto dalla maggioranza attuale e attribuisce (altrettanto potenzialmente) la responsabilità di non aver proceduto secondo il dettato (facoltativo, in che termini?) del nuovo art. 94 sul Capo dello Stato, che continua a non essere soggetto ad elezione diretta ma che, a pieno titolo, entra di forza nell’agone politico derivante dall’approvazione della sfiducia nei confronti del Governo in carica. Senza, pertanto, nulla mutare – se non nel clamore mediatico – rispetto alla storia politica del nostro Paese dal 2008 ad oggi, in cui in momenti di crisi politica acuta il Presidente della Repubblica (ben lontano dal ruolo di “notaio della Repubblica” attribuito storicamente a Luigi Einaudi) vede ampliarsi i propri poteri al fine di garantire continuità funzionale alla macchina dello Stato.

La riforma in analisi, pertanto, appare confusa nel fornire risposte a problemi di cui si discute dalla transizione alla Seconda Repubblica: il rapido mutamento delle leggi elettorali, l’impoverimento del dibattito parlamentare, il ruolo di preminenza del Governo, i limiti dei poteri del Capo dello Stato.

Il dibattito non coinvolge soltanto il sistema italiano: recentemente, a titolo esemplificativo, un caso di messa in discussione del fisiologico rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo è provenuta dai vicini d’Oltralpe, attraverso l’attivazione dell’art. 49 co. 3 della Costituzione della Quinta Repubblica francese (6).

E pertanto i veri temi di interesse nel nostro sistema costituzionale – ancora una volta – non sono stati affrontati: è ancora utile il bicameralismo perfetto così come concepito nella transizione repubblicana? È possibile adottare una legge elettorale che duri nel tempo e non costringa gli elettori a vedere sistematicamente alterato il meccanismo di trasformazione del voto personale in seggio parlamentare, a ridisegnare i collegi, a mutare le circoscrizioni elettorali su più livelli? È effettivamente necessario un “Governo forte” che sovrasti il Parlamento, relegato ad una funzione di mero controllo, nel momento in cui la maggior parte delle iniziative legislative conclusesi con esito positivo provengono dal ramo esecutivo? Siamo pronti ad abdicare al – e non a recuperare il – dibattito parlamentare, unica arena politica ancora capace, per motivi di composizione strutturale, di racchiudere la complessità delle analisi sul Paese, al netto delle problematiche di alfabetizzazione politica media che possono riscontrarsi? È necessario comprimere (anche solo figurativamente) i poteri del Presidente della Repubblica, che al contrario hanno dimostrato di essere indefettibili, se non necessari nella fase di ampliamento, in momenti di crisi istituzionale?

Occorre ricordare che il Paese esprime il Governo, ma il Governo non è mai l’intero Paese: la forzatura del voler incanalare in un’ottica maggioritaria qualsiasi dibattito è estremamente pericolosa. Non è vero, in realtà, che ciò che la maggioranza sostiene sia sempre giusto, semplicemente perché è il pensiero maggioritario: così ragionando, si arriverebbe a disconoscere l’assoluto ed isolato rilievo di una molteplicità di fenomeni minoritari, ma non per questo di estrema importanza nella tenuta democratica e liberale del Paese. La maggioranza non ha sempre ragione perché è maggioranza. Al contempo, il Presidente della Repubblica è il controllore della complessa architettura costituzionale: e, come controllore, deve probabilmente poter disporre dei poteri necessari, in assenza di adeguata capacità del Parlamento e a Costituzione invariata, in caso di insoddisfacente risposta politica da parte dei poteri esecutivo e legislativo produttiva di un grave danno alla tenuta (economica, sociale) del Paese.

Ciò che emerge preliminarmente da questa proposta di riforma costituzionale è l’incapacità di rimettere in discussione – laddove fosse necessario – l’intero sistema costituzionale con riferimento al rapporto tra potere esecutivo e potere legislativo. Tale incapacità deriva, a giudizio di chi scrive, dalla diseducazione alla complessità.

Ed una complessità non adeguatamente affrontata conduce, ancora una volta, a proposte di riforma del tutto superficiali, contraddittorie, settoriali. Sino a giungere a voler limitare l’unico luogo di effettivo confronto tra le varie anime del Paese e di effettivo dispiegarsi delle forze politiche provenienti dalla società: cioè, il Parlamento. Intenti dannosi, considerato che le modifiche costituzionali richiedono, per correre ai ripari, un procedimento aggravato (art. 138 Cost.), reso maggiormente complesso dall’esistenza di un sistema bicamerale perfetto.

Nè, d’altra parte, sembra che l’attuale proposta di riforma tenga in conto del copiosissimo dibattito sui temi su cui pretende di intervenire: sul fallimento del premierato (adottato così come concepito oggi solo in Israele e ben presto abbandonato), sul monito proveniente dai giudici della Consulta circa il valore della “rappresentatività” delle istituzioni repubblicane, sulla necessità di modificare un sistema che – al netto di qualche ragionevole e necessario aggiustamento, con riferimento in particolare alla legge elettorale – regge sufficientemente l’intero sistema Paese. Nella misura in cui le cause del suo apparente malfunzionamento sono da rinvenirsi altrove, a prescindere dal ripensamento dell’architettura costituzionale: e specificamente nel mediocre livello di cultura politica e nell’abdicazione all’analisi della complessità, anche al di fuori dei sistemi formali di cui il diritto si serve.

 

 

 

 

 

***

(1) https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/19/DDLPRES/0/1394479/index.html
(2) Per la consultazione integrale del disegno di legge, si rinvia al link disponibile sulla pagina web del Senato della Repubblica, al seguente link: https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/57694.htm 
(3) In chiave di diritto comparato, si veda l’art. 99 co. 5 della Costituzione del Regno di Spagna del 1978, il quale stabilisce: “Qualora trascorso il termine di due mesi, a partire dalla prima votazione sulla fiducia, nessun candidato avesse ottenuto la fiducia del Congresso, il Re scioglierà entrambe le Camere e indirà nuove elezioni con la controfirma del Presidente del Congresso.”.
(4) Da evidenziare il seguente passaggio nella motivazione di diritto (Corte Costituzionale, sentenza n. 1/2014): “Alcuni aspetti problematici sono stati ravvisati nella circostanza che il meccanismo premiale è foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa, in quanto consente ad una lista che abbia ottenuto un numero di voti anche relativamente esiguo di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi. In tal modo si può verificare in concreto una distorsione fra voti espressi ed attribuzione di seggi che, pur essendo presente in qualsiasi sistema elettorale, nella specie assume una misura tale da comprometterne la compatibilità con il principio di eguaglianza del voto (sentenze n. 15 e n. 16 del 2008)”. Ciò, nonostante la “determinazione delle formule e dei sistemi elettorali costituisce un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa» (sentenza n. 242 del 2012; ordinanza n. 260 del 2002; sentenza n. 107 del 1996).”.
(5) Sul punto (Corte Cost., sentenza n. 35/2017) la Corte Costituzionale fornisce un elemento valutativo di cruciale importanza nel bilanciamento tra valori costituzionali in gioco, disatteso dalla maggioranza parlamentare nella formulazione dell’attuale riforma: “Il rispetto di tali principi costituzionali non è tuttavia garantito dalle disposizioni censurate: una lista può accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito, al primo turno, un consenso esiguo, e ciononostante ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati i seggi che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al primo turno. Le disposizioni censurate riproducono così, seppure al turno di ballottaggio, un effetto distorsivo analogo a quello che questa Corte aveva individuato, nella sentenza n. 1 del 2014, in relazione alla legislazione elettorale previgente. Il legittimo perseguimento dell’obbiettivo della stabilità di Governo, di sicuro interesse costituzionale, provoca in tal modo un eccessivo sacrificio dei due principi costituzionali ricordati.”.
(6) Sul punto, si segnala il seguente contributo: PRIOLO MARIA ANTONIETTA, La riforma delle pensioni, l’art. 49-3 Cost. e la frattura democratica in Francia, al seguente link: https://www.diritticomparati.it/la-riforma-delle-pensioni-lart-49-3-cost-e-la-frattura-democratica-in-francia/

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News

Articoli inerenti