Il giudizio sul silenzio: gli effetti della nomina del commissario ad acta sugli atti tardivi

Il giudizio sul silenzio: gli effetti della nomina del commissario ad acta sugli atti tardivi

Commento a Cons. di Stato, sez. IV, 10/11/2020, ord. n. 6925 – Pres. Maruotti, Est. Conforti

Abstract: il presente contributo si propone di analizzare la problematica inerente agli effetti dell’atto ultra termines emanato a seguito della nomina del commissario ad acta, alla luce della recente ordinanza riportata in epigrafe. Con la pronuncia de qua, infatti, il giudice amministrativo ha rimesso la questione al vaglio della Plenaria, formulando i seguenti quesiti: 1) se la nomina del commissario ad acta (disposta ai sensi dell’art. 117, co. 3, c.p.a.) oppure il suo insediamento comportino – per l’amministrazione soccombente nel giudizio proposto avverso il suo silenzio – la perdita del potere di provvedere sull’originaria istanza; 2) nel caso in cui si ritenga che sussista – a partire da una certa data – esclusivamente il potere del commissario ad acta, quale sia il regime giuridico dell’atto emanato “tardivamente” dall’amministrazione. Si tratta, invero, di un tema che è stato più volte affrontato dalla giurisprudenza con soluzioni contrastanti e che necessita di un definitivo pronunciamento. 

Sommario1. Premesse – 2. Il rito “speciale” avverso il silenzio inadempimento – 3. L’ordinanza di remissione alla Plenaria e le teorie elaborate dalla giurisprudenza – 4. Considerazioni conclusive

 

1. Premesse

L’attività amministrativa non si esercita solamente attraverso l’emanazione di atti, ma anche in forma comportamentale. In detta modalità si inserisce l’istituto del silenzio: si tratta, infatti, di un atteggiamento equiparato, sul piano degli effetti, al provvedimento espresso. Il silenzio rappresenta una forma di attività amministrativa semplificata, che opera sia nei rapporti tra p.a. e amministrati (vedasi l’art. 20 della l. n. 241/1990), sia in quelli tra più amministrazioni. Si pensi, in quest’ultimo caso, alle decisioni cd. “pluristrutturate“, come quelle di cui agli artt. 14 e ss., 16 e 17 della legge sul procedimento.

Il silenzio cd. “significativo” detiene gli stessi effetti del provvedimento espresso: decorso il termine per provvedere, questo ha valore di assenso, o di diniego. La regola generale è quella dell’assenso e, solo ove espressamente disposto, di rigetto. L’iniziale formulazione dell’art. 20 della legge n. 241/1990 rimandava a ipotesi tassative contenute nelle leggi di settore, ma con la riforma del 2005 e le novelle legislative di cui alla l. 69/2009 e al d.lgs. 104/201o il legislatore ha conferito allo stesso portata generale. Quest’ultimo, inoltre, rappresenta una tutela anticipata avverso l’inerzia dell’amministrazione: un comportamento silente, ma privo di significato, si sostanzia in una condotta inerte e quindi non iure. Il silenzio-inadempimento, infatti, equivale ad un mancato esercizio di potere[1], a cui il soggetto inciso può trovare rimedio per mezzo di specifiche tutele previste dal c.p.a..

Alla luce di quanto affermato, non è raro che a seguito del silenzio l’amministrazione procedente adotti tardivamente un atto espresso. La formazione di questo, infatti, non preclude alla stessa di provvedere secondo le modalità tipiche. Il provvedimento tardivo di regola resta valido, potendo tutt’al più essere fonte di responsabilità da ritardo, o da mero ritardo[2].

Il rapporto tra silenzio e atto espresso, tuttavia, rappresenta un profilo di ulteriore criticità per quanto attiene al caso del silenzio-inadempimento e, nello specifico, al rapporto tra l’atto emanato tardivamente e l’attività del commissario ad acta nominato dal giudice in via sostitutiva. Si tratta, preme precisare, di un problema che si pone ogni qual volta entra in gioco tale figura: non solamente nel giudizio avverso il silenzio, ma anche in quello di cognizione e in quello cautelare.

2. Il rito “speciale” avverso il silenzio inadempimento

Il silenzio privo di significato non è equiparabile, per gli effetti, ad un provvedimento espresso. In questo caso, infatti, questo non rileva tanto sul profilo del ritardo dell’amministrazione, quanto per la violazione da parte della stessa di uno specifico obbligo di provvedere[3]. Ciò si riflette anche sul regime della tutela, in quanto il rimedio fornito dalla legge è diverso da quello impugnatorio, applicabile ai casi di silenzio significativo.

Il codice del processo amministrativo prevede un regime ad hoc per tutelare il privato dall’inerzia della p.a.: si tratta del cd. “rito speciale” sul silenzio, di cui al combinato disposto degli artt. 31 e 117[4]. Il soggetto interessato non solamente può ottenere l’accertamento dal giudice dell’obbligo di provvedere da parte dell’amministrazione, ma anche la nomina di un commissario ad acta che provveda in luogo della stessa (art. 117, co. 3, c.p.a.). Si tratta di un rito “anomalo”[5] rispetto a quello di ottemperanza, di cui agli artt. 112-115, per le seguenti peculiarità: 1) il giudizio avverso il silenzio è in appendice a quello di cognizione sull’obbligo di provvedere della p.a. e non è quindi autonomo e distinto dallo stesso. Il giudice, infatti, può nominare un commissario ad acta attraverso la stessa pronuncia che definisce il giudizio, d’ufficio o su istanza del privato[6]; 2) il codice, nello specifico, consente al giudice di cognizione di esercitare tutti i poteri di quello dell’ottemperanza; 3) il giudice, inoltre,  ai sensi del co. 4,  “conosce tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi inerenti quelle agli atti del commissario“; 4) anche i poteri del commissario ad acta sono ampi e la loro portata varia in funzione del contenuto della sentenza resa all’esito del giudizio sul silenzio.

Appare doveroso porre l’accento anche sulla natura anfibologica di tale figura. L’art. 21 c.p.a. definisce il commissario ad acta (sia nel giudizio sul silenzio, che in quello di ottemperanza) un ausiliario del giudice[7], al quale si applicano le disposizioni sulla ricusazione[8]. Pur essendo formalmente qualificato come organo giudiziario, egli esercita un potere sostanzialmente amministrativo. Potremmo definirlo, pertanto, una sorta di “Giano Bifronte”, che esercita poteri amministrativi in veste giuridica[9].

Tornando alla ricorso sul silenzio, la questione oggetto di analisi verte sul tenore letterale dell’art. 117. La legge, infatti, nulla dispone sull’an e sul quando l’amministrazione sia esautorata dall’intervento del commissario ad acta, né sul rapporto tra l’atto tardivo e gli atti eventualmente emanati dallo stesso. Si tratta di criticità che originano dalla mancanza di una previsione analoga a quella di cui al previgente art. 21-bis, co. 3, della legge n. 1034/1971 (legge istitutiva dei T.A.R.). La norma de qua disponeva che al momento dell’insediamento il commissario dovesse preliminarmente verificare che l’amministrazione non avesse emanato l’atto. Tale disposizione è stata per molto tempo interpretata nel senso che l’insediamento del commissario segnasse il momento della decadenza dell’amministrazione dal potere-dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso. L’attuale assenza di un’analoga previsione conduce a ritenere che l’esautoramento si realizzi, invece, già al momento della nomina.

3. L’ordinanza di remissione alla Plenaria e le teorie elaborate dalla giurisprudenza

La quarta sezione del Consiglio di Stato ha rimesso le sovraesposte questioni al vaglio dell’Adunanza Plenaria, precisando in apertura che si tratta di una problematica da sempre fonte di contrasti. La pronuncia ha il pregio di offrire un’analisi completa sull’argomento, attraverso le tre principali soluzioni avanzate dalla giurisprudenza amministrativa. Tralasciando il fatto da cui la stessa origina, l’interesse è rivolto specificamente alle summenzionate tesi e agli esiti a cui giunge l’organo remittente.

Per quanto attiene alla prima, quest’ultima muove dal confronto tra l’art. 117 e la previgente disciplina, di cui all’art. 21-bis, co. 3, già menzionato, affermando che l’esautoramento avvenga già con la nomina del commissario[10]. La mancanza di una previsione analoga a quella dell’art. 21-bis sarebbe infatti sintomatica della volontà del legislatore di destituire l’amministrazione fin dalla nomina di questo. Secondo questa previsione l’atto tardivo sarebbe nullo, in quanto emanato in assenza di potere in astratto.

La seconda tesi, prevalente in giurisprudenza[11], sostiene che l’amministrazione venga destituita solo dopo l’insediamento del commissario, ossia nel momento in cui avviene il trasferimento del munus. Questo orientamento trova conferma anche in una recente pronuncia della Plenaria, con cui quest’ultima, pur non approfondendo il tema, ha dichiarato che l’insediamento del commissario ad acta “nella sua duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione inadempiente surrogata“, priva quest’ultima della potestà di provvedere[12]. In giurisprudenza è stato, altresì, precisato che la destituzione avviene con la redazione del verbale di immissione[13]. Sulla base di tale arresto si può desumere che non vi è bisogno di una previsione espressa sull’esautoramento, in quanto si tratta di un principio di portata generale. Il silenzio dell’art. 117 sul punto si giustificherebbe nella volontà del legislatore di evitare formulazioni  tautologiche.

La terza ed ultima teoria, avallata dalla dottrina[14] e da una parte minoritaria della giurisprudenza, sostiene che né la nomina, né l’insediamento del commissario privino l’amministrazione del proprio potere. Alla luce di tale ipotesi, infatti, vi sarebbe una persistenza del potere di provvedere in capo alla stessa, concorrente con quello del commissario ad acta. Per quanto attiene alla sorte dell’atto emesso tardivamente, quest’ultimo manterrebbe validità; la Corte sul punto precisa che eventuali divergenze derivanti dal concorso di competenze possono essere risolte attraverso una richiesta di chiarimenti al giudice[15].

Per quanto concerne le prime due ipotesi, il Collegio evidenzia la difficoltà di dichiarare nulli gli atti emanati dall’amministrazione a seguito dell’insediamento del commissario, in quanto tale circostanza non realizza un difetto assoluto di attribuzione per carenza di potere in astratto. L’art. 21-septies della l. n. 241/1990 è tassativo e non si presta ad ulteriori aperture[16]. Il potere-dovere dell’amministrazione di concludere il procedimento sussiste senz’altro ed è anzi ribadito dall’ordine del giudice. Volendo comunque ammettere la natura perentoria del termine impartito dal giudice e l’effettiva sostituzione dell’organo inadempiente da parte del commissario, il provvedimento adottato oltre il termine non sarebbe nullo, semmai annullabile nella ordinaria sede di giurisdizione di legittimità, a seguito del relativo ricorso ex art. 29 c.p.a..

A seguito della disamina, la Corte sembra propendere per la terza ipotesi, la quale, inoltre, fonda la propria ratio sui principi generali. Il primo è quello di legittimità di cui all’art. 97 Cost., relativamente alla parte in cui la norma fa riferimento al riparto di competenze. Il potere dell’amministrazione deriva dalla legge e solo una norma o una pronuncia definitiva del giudice basata sulla stessa possono esautorarla. Occorre, quindi, un doppio requisito: una base normativa e una chiara e univoca determinazione del giudice amministrativo sulla perdita di potere dell’organo ordinariamente competente. In questo senso l’art. 117 c.p.a. non presenta una disposizione analoga alla previgente disciplina, proprio perché riflette la volontà del legislatore di eliminare le ipotesi di esautoramento della stessa.

Il secondo principio alla base della teoria della concorrenza di poteri è quello della responsabilità dei soggetti preposti ai pubblici uffici, ai sensi dell’art. 28 Cost. L’ipotesi di esautoramento dei poteri rischia di tradursi in una sostanziale deresponsabilizzazione del funzionario competente e di porsi, pertanto, in contrasto col principio de quo. Al contrario, il perdurante potere dell’amministrazione impone ai soggetti di provvedere, in ossequio a quanto previsto dalla legge.

4. Considerazioni conclusive

Alla luce delle sovraesposte tesi e delle considerazioni operate dall’organo remittente per ognuna di esse, la soluzione a favore della concorrenza di poteri tra amministrazione e commissario ad acta appare certamente più condivisibile rispetto a quelle a sostegno della nullità dell’atto tardivo. Tale lettura fondandosi sui principi generali di buon andamento e responsabilità, sembra, invero, rispondere adeguatamente al bisogno di certezza del diritto e alla tutela del legittimo affidamento nei rapporti giuridici.

Allo stato, tenuto altresì conto della novella di cui all’art. 2, comma 8-bis, della legge sul procedimento, non resta che attendere, come auspicato dallo stesso giudice remittente, una soluzione completa e coordinata da parte della Plenaria.

 

 

 


Note bibliografiche:
[1] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 01/07/2020, n. 4204: “In ambito amministrativo l’omissione dell’adozione del provvedimento finale assume il valore di silenzio-inadempimento o di rifiuto solo nell’ipotesi in cui sussisteva un obbligo giuridico di provvedere, cioè di esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente alla competenza dell’organo amministrativo destinatario della richiesta, attivando un procedimento amministrativo in funzione dell’adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico“.
[2] Appare doveroso evidenziare che a seguito del d.l. n. 76/2020 (conv. in l. n. 120/2020), all’art. 2 della l. n. 241/1990 è stato aggiunto il comma 8-bis, che prevede l’inefficacia degli atti emanati tardivamente a seguito della formazione del silenzio. Si tratta di un intervento volto a rendere effettivo il meccanismo del silenzio assenso, soprattutto per determinate tipologie di atti a cui la stessa disciplina rimanda. Tale intervento, tuttavia, rappresenta un altro profilo problematico, su cui si attendono ulteriori pronunciamenti della giurisprudenza.
[3] Cfr. ex multis T.A.R. Lecce, (Puglia), sez. III, 24/09/2020, n. 1015; T.A.R. Milano, (Lombardia), sez. II, 01/02/2019,  n. 214.
[4] Cfr. T.A.R. Lecce, (Puglia), sez. III, 02/10/2020, n. 1057, laddove afferma che: “Il rito speciale di cui agli articoli 31 e 117 c.p.a. non è esperibile, non essendo configurabile un silenzio rifiuto, allorquando – come nel caso di istanza di condono – l’inerzia della P.A. è “qualificata” o “significativa” ex lege (silenzio assenso o silenzio diniego), ossia legalmente equiparata ad un provvedimento espresso“. In senso conforme anche T.A.R. Roma, (Lazio), sez. III, 02/11/2020, n. 11183.
[5] Cfr. sul punto S. COGLIANI, Il giudizio avverso il silenzio della P.A.: i nuovi poteri del Giudice Amministrativo, in Codice dell’azione amministrativa (a cura di) M.A. SANDULLI, Milano 2017, 309 ss.
[6] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22/10/2015, n. 4844: “Il rito speciale in tema di silenzio già contiene la possibilità di richiedere al Giudice che ha adottato la sentenza di accoglimento (statuendo la sussistenza dell’obbligo di provvedere dell’Amministrazione) di nominare (nella stessa sentenza o a seguito di successiva istanza dell’interessato) un commissario ad acta che dia compiuta attuazione, in sostituzione della Amministrazione inadempiente, al decisum contenuto in sentenza (art. 117 D.Lgs. n. 104/2010, CPA).“. In dottrina A. TRAVI afferma sul punto che “Il codice, in questo caso, sembra superare la distinzione formale fra giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza: invece di due giudizi distinti, è identificabile un unico giudizio sul silenzio, articolato in due fasi distinte.“, in Lezioni di giustizia amministrativa, Giappichelli Editore, Torino, cap. XIV, par. 3, pp. 352-353; si veda altresì A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, commento all’art. 2 della Legge 7 agosto 1990 n. 241, in Codice dell’azione amministrativa (a cura di) M.A. SANDULLI, Milano 2017, 283 ss.
[7] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 21/05/2018, n. 3039, laddove si afferma che: “Nel processo amministrativo il commissario ad acta. è un ausiliario del giudice, strumento che permette, in rispetto dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, di realizzare il contenuto prescrittivo della sentenza, dunque l’adeguamento della realtà agli effetti del giudicato che l’Amministrazione pubblica non ha operato“.
[8] Cfr. T.A.R. Roma, (Lazio), sez. II, 04/05/2017, n. 5335 laddove afferma; “La scelta del c.p.a., quale si desume chiaramente dall’univoca formulazione dell’art. 114, comma 6, è stata quella di qualificare il Commissario ad Acta quale ausiliario del giudice e di ricondurre, quindi, alla giurisdizione esclusiva l’impugnazione dei suoi atti, senza che rilevi la distinzione fondata sulla sussistenza o meno di margini di discrezionalità lasciati dal giudicato. La natura di ausiliario del giudice trova conferma, oltre che nell’art. 114 comma 6, anche nell’art. 21, c.p.a. che definisce espressamente in tali termini la figura del Commissario ad Acta e, conseguentemente, prevede la possibilità che possa venire ricusato dalle parti per i motivi indicati nell’art. 51, c.p.c.”.
[9] Sulla duplice veste del commissario ad acta si veda C.E. GALLO, Ottemperanza (giudizio di), in Enc. Dir., Annali II-2, 2008, 835 e ss.
[10] Cfr. Cons. Stato,  sez. IV, 03/11/2015, n. 5014: “La scelta del c.p.a., quale si desume chiaramente dall’univoca formulazione dell’art. 114, comma 6, è stata quella di qualificare il Commissario ad Acta quale ausiliario del giudice e di ricondurre, quindi, alla giurisdizione esclusiva l’impugnazione dei suoi atti, senza che rilevi la distinzione fondata sulla sussistenza o meno di margini di discrezionalità lasciati dal giudicato. La natura di ausiliario del giudice trova conferma, oltre che nell’art. 114 comma 6, anche nell’art. 21, c.p.a. che definisce espressamente in tali termini la figura del Commissarioad Acta e, conseguentemente, prevede la possibilità che possa venire ricusato dalle parti per i motivi indicati nell’art. 51, c.p.c.“.
[11] Cfr. ex multis T.A.R. Catanzaro, (Calabria) sez. I, 06/03/2018, n. 564, T.A.R. Napoli, (Campania), sez. VIII, 21/06/2018, n. 4170, T.A.R. Salerno, (Campania) sez. I, 18/03/2019, n. 411.
[12] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 09/05/2019, n. 7.
[13] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 16/04/2014, n. 1975, laddove si afferma che: “Ritenuto, infatti, come ha chiarito la giurisprudenza, che se è vero che l’Amministrazione rimane titolare del potere di provvedere anche tardivamente, dopo la scadenza del termine fissato dal giudice, è anche vero che all’atto di insediamento del commissario ad acta (ovvero con la redazione del verbale di immissione del commissario nelle funzioni amministrative) e con la sua presa di contatto con l’Amministrazione, si verifica un definitivo trasferimento dei poteri, rimanendo precluso all’Amministrazione ogni margine di ulteriore intervento.”.
[14] Cfr. I. BERTONAZZI, Il giudizio sul silenzio, in Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo a cura di B. SASSANI e R. VILLATA, Torino, 2012, p. 929 e ss.
[15] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10/11/2020, ord. n. 6925, punto 23.2.
[16] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10/11/2020, ord. n. 6925, punto. 23.3, laddove la Corte afferma che: “Per il caso in cui invece si ritenga che l’organo istituzionalmente competente perda i suoi poteri-doveri a seguito della nomina o dell’insediamento del commissario, il Collegio dubita comunque fortemente che il suo atto ‘tardivo’ si possa considerare nullo. Il ‘difetto assoluto di attribuzione’, disciplinato dall’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990, riguarda i casi i cui una determinata autorità amministrativa non può emanare il provvedimento, perché neppure può attivare il relativo procedimento, non avendo alcuna attribuzione in materia“.

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Vittoria Padovani

Dottoranda in diritto amministrativo presso l'Università degli studi di Verona; Si è laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Bologna nel luglio 2018 con una tesi in diritto amministrativo sulla responsabilità per danno erariale del rup nel settore degli appalti; si è successivamente specializzata, nel luglio 2020, in Studi amministrativi presso la SP.I.S.A. di Bologna, con una tesi in diritto regionale avente ad oggetto "L’autonomia differenziata in materia sanitaria tra solidarietà ed esigenze di bilancio. Il caso della Regione Veneto". È cultrice della materia presso la cattedra di Diritto degli Enti locali del medesimo ateneo, ove svolge, altresì, il ruolo di tutor didattico per il settore scientifico disciplinare IUS/10.

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