La disciplina della notifica del PAT ed effetti processuali sul domicilio digitale dell’avvocato della P.A.

La disciplina della notifica del PAT ed effetti processuali sul domicilio digitale dell’avvocato della P.A.

La disciplina normativa della notifica della sentenza nel PAT e decorrenza degli effetti processuali sull’elezione di domicilio digitale dell’avvocato della Pubblica Amministrazione. Nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 5 luglio 2023, n. 6573

Sommario: 1. Premessa introduttiva – 2. La vicenda da cui nasce il contenzioso e lo sviluppo processuale in relazione alla sentenza del TAR LAZIO – 3. La difesa della società nel giudizio instaurato dal Comune davanti al Consiglio di Stato – 4. Lo sviluppo argomentativo nella decisione dei giudici di Palazzo Spada (Cons. di Stato, sez. IV, 5 luglio 2023, n. 6573) – 5. Considerazioni finali

 

1. Premessa introduttiva

Nel processo amministrativo non trova applicazione la previsione normativa di cui all’art. 125 c.p.c., come modificato dall’art. 45-bis, comma 1, del decreto legge n. 90 del 2014, convertito dalla legge n. 114 del 2014, in virtù del quale le notificazioni e le comunicazioni vanno eseguite al domicilio digitale di cui ciascun avvocato e la notifica effettuata presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite sarebbe da ritenersi nulla.

Nei giudizi davanti ai tribunali amministrativi regionali, ex art. 25, comma 1, c.p.a., la parte, se non elegge domicilio nel comune sede del tribunale amministrativo regionale o della sezione staccata dove pende il ricorso, si intende domiciliata, ad ogni effetto, presso la segreteria del tribunale amministrativo regionale o della sezione staccata.

Sulla base di tali interessanti considerazioni, il Consiglio di Stato, sez. IV, attraverso un’importante decisione del 5 luglio 2023 n. 6573 (Est. L. Monteferrante), pronunziandosi sulla validità della notifica della pronunzia del giudice di prime cure effettuata alla P.A., ritualmente eseguita presso la segreteria del T.AR. competente per territorio in sostituzione del domicilio digitale del legale difensore presso la quale la stessa era domiciliata (circostanza non indicata all’interno dell’atto) respingeva per tardività (ritenendolo irricevibile), l’appello del Comune avverso l’annullamento del provvedimento adottato dall’Ente territoriale in autotutela, contro la società che aveva effettuato lavori edilizi.

A livello effettuale inoltre, il riconoscimento dello spiare del termine breve d’impugnazione da parte dell’amministrazione appellante, ha determinato che l’atto di gravame proposto dall’Ente comunale, è stato considerato tardivo, poichè effettuato oltre il termine perentorio di 60 giorni previsto ex lege, con contestuale compensazione integrale delle spese processuali tra le parti, causa la propria irricevibilità.

La pronunzia offre il destro ai giudici amministrativi per comprendere la relazione che intercorre tra il domicilio digitale e l’eventuale sua prevalenza su quello fisico([1]) nonchè per scandagliare con attenzione a quali ricorsi amministrativi, si applica la disciplina transitoria prevista in tema di c.d. domicilio digitale nel processo amministrativo telematico (PAT).

2. La vicenda da cui nasce il contenzioso e lo sviluppo processuale in relazione alla sentenza del TAR LAZIO

Il contenzioso, sorge in relazione a una vicenda che vede contrapposti da un lato il Comune di Tivoli e dall’altro una società a responsabilità limitata. Nel caso specifico l’Ente territoriale, chiedeva in appello che fosse riformata la sentenza del T.A.R. Lazio n. 7321 del 22 giugno 2017, che aveva precedentemente accolto il ricorso, proposto dalla ditta vincitrice in primo grado.

Attraverso la sentenza di primo grado veniva stabilito l’annullamento del provvedimento attraverso il quale il Comune in autotutela, annullava rispettivamente il permesso di costruire, previamente rilasciato dall’amministrazione comunale finalizzata a eseguire la demolizione di un fabbricato esistente, nonche´ la successiva realizzazione di un edificio residenziale, nella medesima zona.

In particolare i giudici del T.A.R. LAZIO, sulla base di una consulenza tecnica d’ufficio disposta in un parallelo giudizio civile, accoglievano il ricorso proposto dalla società, ritenendo legittime e giuridicamente fondate le doglianze da questa avanzate, in cui si censurava la contraddittorietà e la carenza dell’attività istruttoria, che avrebbe condotto l’amministrazione locale ad agire nel provvedimento adottato in autotutela. Più precisamente, dalle verifiche e dai controlli effettuati infatti, al di là di meri scostamenti di poca importanza e comunque facilmente sanabili, emergeva in tutta la sua linearità, il sostanziale rispetto delle altezze e dei distacchi previsti dal piano regolatore approvato.

3. La difesa della società nel giudizio instaurato dal Comune davanti al Consiglio di Stato

Nel costituirsi innanzi al Consiglio di Stato, la società resistente richiedeva naturalmente la reiezione dell’appello, ritenendolo processualmente non fondato.

Nello specifico parte resistente, attraverso la propria memoria conclusiva, eccepiva in via preliminare sotto un profilo meramente aritmetico, il difetto processuale di tardività dell’appello proposto dall’amministrazione comunale e dunque, la sua irricevibilità. In particolare l’atto di gravame, risultava notificato ben oltre i sessanta giorni previsti dal comma 1 dell’art. 92 c.p.a.([2]) rispetto alla data in cui risultava l’effettiva notifica della pronunzia del giudice di prime cure presso gli uffici di segreteria del T.A.R. competente, ove il Comune risultava effettivamente domiciliato.

Inoltre la stessa società resistente, rilevava l’improcedibilità dell’atto di appello, nella presupposta convinzione di una presunta acquiescenza([3]) mostrata dall’Ente comunale rispetto alla pronunzia di primo grado, in relazione all’autorizzazione di una variante non importante e la non interdizione rispetto al perfezionamento di due successive SCIA. Tali comportamenti, avendo ad oggetto il medesimo provvedimento amministrativo (segnatamente il permesso di costruire concesso inizialmente e revocato in un secondo momento da parte dell’Amministrazione comunale), erano da ritenersi per controparte, come indice di una chiara e univoca volontà abdicativa da parte del Comune di Tivoli, di voler concretamente rinunciare all’impugnazione del provvedimento stesso.

Dal canto suo, il Comune di Tivoli nella propria memoria di replica, ha controdedotto all’eccezione preliminare di presunta tardività dell’appello evidenziata dalla società resistente, ritenendo affetta da nullità la notifica della sentenza del giudice di prime cure effettuata presso la segreteria del T.A.R. competente, al posto del domicilio digitale dell’avvocato difensore di questo, come disposto dalle norme concernenti la disciplina del procedimento amministrativo telematico (PAT).

Inoltre, per quanto riguarda la presunta accettazione mostrata dall’Ente comunale rispetto alla decisione di annullamento adottata in primo grado dai giudici del TAR LAZIO (il quale aveva posto nel nulla l’atto di autotutela relativo al primo permesso di costruire), parte appellante, contestava che in nessun caso il provvedimento di rilascio adottato dall’amministrazione comunale, potesse costituire significato di acquiescenza da parte della P.A.

4. Lo sviluppo argomentativo nella decisione dei giudici di Palazzo Spada (Cons. di Stato, sez. IV, 5 luglio 2023, n. 6573)

Ciò posto, per i giudici di Palazzo Spada va evidenziato come, in relazione alla prima eccezione sollevata dalla società resistente, l’atto di gravame proposto dal Comune di Tivoli sia in effetti processualmente irricevibile per tardiva proposizione dell’appello. Ed è questa la ragione per la quale il Consiglio di Stato, ritiene di non dover nemmeno entrare nel merito della questione della presunta acquiescenza della mancata impugnazione del provvedimento amministrativo.

A tal proposito risulta utile evidenziare che la sentenza del giudice di prime cure è stata notificata in copia autentica in data 27 luglio 2017 presso la segreteria del TAR LAZIO, dove peraltro lo stesso Ente locale risultava domiciliato (così come del resto indicato all’interno della pronunzia), fatto non contestato dal Comune di Tivoli. Peraltro quest’ultimo proponeva il gravame avverso la pronunzia del giudice di primo grado soltanto in data 19 gennaio 2018, e dunque temporalmente, ben oltre il termine di 60 giorni previsto ex lege dall’articolo 92 c.p.a. Dal punto di vista processuale dunque, la sentenza risultava formalmente passata in giudicato.

Nella memoria di replica l’appellante, sottolineava che la notifica eseguita presso la segreteria del TAR LAZIO “era da ritenersi nulla e come tale inidonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione in quanto eseguita successivamente all’introduzione de c.d. domicilio digitale”.  Più precisamente lo stesso Comune di Tivoli aggiungeva che con la modifica apportata all’art. 125 c.p.c. (dall’introduzione, nell’ordinamento dell’art. 45-bis, 1º comma, D.L. n. 90/2014, convertito dalla L. n. 114/2014), “non sarebbe sussistito più alcun obbligo per il difensore, di indicare nell’atto introduttivo il proprio indirizzo PEC (comunicato al proprio ordine), trattandosi di un dato già ricavabile dal Reginde in virtù della trasmissione effettuata dall’Ordine di appartenenza in base alla comunicazione eseguita dall’interessato ex art. 16-sexies del decreto legge n. 179/2012, convertito dalla legge n. 114/2014”.

Tutto questo per l’Ente comunale sta a significare che ogni notifica o comunicazione andrebbe eseguita “al domicilio digitale di cui ciascun avvocato è dotato, corrispondente all’indirizzo P.E.C”, così come risultante telematicamente dal Reginde, essendo questo “perfettamente conoscibile da terzi attraverso la consultazione dell’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata’’.

Per la parte appellante dunque, la notifica della sentenza (effettuata ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37/1934([4]) presso la cancelleria dell’ufficio innanzi al quale pendeva la lite), come nel caso di specie, “si sarebbe dovuta ritenere nulla anche laddove il destinatario avesse omesso di eleggere il domicilio nel Comune dove il medesimo aveva sede quest’ultimo”.  Da tale ipotesi, resterebbero naturalmente escluse quelle circostanze in cui, per ragioni imputabili al destinatario([5]), lo strumento della PEC risultasse inaccessibile.

Ebbene come già anticipato in precedenza, tali considerazioni espresse dal Comune di Tivoli, per il Collegio Amministrativo, non possono essere accolte in quanto “la previsione normativa sul domicilio digitale trova approvazione proprio al caso di specie”. A supporto del proprio percorso motivazionale, i giudici del Consiglio di Stato, ripassano in rassegna il quadro normativo in materia di domicilio digitale anche alla luce delle modifiche introdotte all’interno del nostro ordinamento, dalla disciplina inerente il procedimento amministrativo telematico (c.d. PAT).

Secondo il comma 1, lett. a) dell’articolo 25 del c.p.a. “nei giudizi davanti ai tribunali amministrativi regionali, la parte, se non elegge domicilio nel comune sede del tribunale amministrativo regionale o della sezione staccata dove pende il ricorso, si intende domiciliata, ad ogni effetto, presso la segreteria del tribunale amministrativo regionale o della sezione staccata”.

Dal canto suo il successivo comma 1 bis dell’art. 25 c.p.a. (aggiunto dall’art. 7, comma 1, lettera a) del decreto legge 31 agosto 2016, n. 168 convertito dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197 dispone che “Al processo amministrativo telematico si applica, in quanto compatibile, l’articolo 16-sexies del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221”. Secondo quest’ultima norma “Quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui all’articolo 6-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia.”.

Il comma 3 ([6]) del medesimo articolo, recita che “A decorrere dal 1° gennaio 2018 il comma 1 non si applica per i ricorsi soggetti alla disciplina del processo amministrativo telematico”.

Infine, ed è questo un punto importante da evidenziare, l’art. 7, comma 3, dello stesso decreto legge 31 agosto 2016, n. 168 ha precisato che “Le modifiche introdotte dal presente articolo, nonchè quelle disposte dall’articolo 20, comma 1-bis, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, come modificato dal presente articolo, hanno efficacia con riguardo ai giudizi introdotti con i ricorsi depositati, in primo o in secondo grado, a far data dal 1° gennaio 2017. Ai ricorsi depositati anteriormente a tale data, continuano ad applicarsi, fino all’esaurimento del grado di giudizio nel quale sono pendenti alla data stessa e comunque non oltre il 1° gennaio 2018, le norme vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Orbene per il Collegio Amministrativo il ricorso della società è stato depositato nella cancelleria del TAR LAZIO il 18 marzo 2014 e alla e alla data del 1 gennaio 2017 era ancora pendente in primo grado. Motivo per cui secondo i giudici del Consiglio di Stato “dovevano applicarsi non oltre il 1 gennaio 2018, le norme vigenti alla data di entrata in vigore della novella” e quindi proprio l’art. 25, comma 1 lett. a) c.p.a. “che, in caso di mancanza di elezione del domicilio”, prevede specificatamente “la domiciliazione ex lege presso la segreteria del T.A.R. dove pende il ricorso”.

Con riferimento alla cronistoria dei fatti susseguiti, dal momento che la pronunzia del giudice di prime cure è stata pubblicata in data 22 giugno 2017 (e notificata successivamente il 27 luglio 2017), a quella data dunque, “era ancora in vigore il disposto di cui all’art. 25, comma 1 lett. a)”.  E ben si comprende allora il perchè la notifica della stessa è stata “ritualmente eseguita presso la segreteria del T.A.R. per il Lazio”. Di fatto, da quella data infatti, sottolinea con fermezza i giudici di Palazzo Spada, “è iniziato a decorrere il termine breve di impugnazione”.

Come logica conseguenza, si può ritenere con certezza che la notifica della sentenza effettuata presso gli uffici del TAR LAZIO “non poteva ritenersi affetta da nullità bensì si era perfezionata correttamente ai fini del decorso del termine breve di impugnazione di 60 giorni che sarebbe venuto a scadere il giorno 25 settembre 2017, ben prima di quello (il 19 gennaio 2018) in cui l’appello è poi stato notificato”.

Alla luce delle ragioni evidenziate, per i giudici del Consiglio di Stato, l’appello avanzato dal Comune di Tivoli, va pertanto dichiarato processualmente irricevibile.

5. Considerazioni finali

L’analisi della sentenza dei giudici di Palazzo Spada porta con sè interessanti risvolti pratici per gli operatori del diritto.

Se per quanto concerne il processo civile infatti, la regola per il quale il domicilio digitale costituisce un punto fermo, non è mai entrata in discussione, nel processo amministrativo seppur l’art. 25 c.p.a. stabilisca che, in mancanza di diversa indicazione proveniente dalla parte processuale, la medesima si deve ritenere domiciliata ex lege presso gli uffici di segreteria del tribunale competente, le modifiche successive approvate nel corso del tempo, hanno impattato sulla norma, creando diversi di problemi di coordinamento normativo, alla luce dell’impatto che ha avuto in materia il processo amministrativo telematico.

La prima considerazione che si ricava dall’analisi condotta dal Consiglio di Stato, è che la notificazione della pronunzia non effettuata al domicilio digitale del legale difensore ma piuttosto presso la segreteria del TAR LAZIO, è perfettamente legittima e valida soltanto in relazione a quel tipo di contenzioso pendente alla data del 1° gennaio 2017. La logica conseguenza di tale assunto, porta inevitabilmente a far decorrere il c.d. termine breve per poter impugnare, con la precisazione che tale regola, trova uno sbarramento agli adempimenti processuali fino al 1° gennaio 2018.

La seconda considerazione che può ricavarsi dalla soluzione adottata dai giudici di Palazzo Spada, e cioè di voler dare prevalenza al criterio del domicilio fisico su quello digitale, potrebbe apparire un possibile freno al progressivo percorso di digitalizzazione all’interno dei procedimenti amministrativi. Inoltre, la decisione in oggetto sembrerebbe apparire una deviazione dal sentiero principale già ampiamente tracciato delle riforme degli ultimi 30 anni che indirizzano e accompagnano l’azione amministrativa sempre più ad una dimensione legata al rispetto dei criteri di trasparenza, efficienza ed economicità` stabiliti dalla L. n. 241/1990, anche alla luce dello sviluppo della transizione digitale, vero motore del nuovo PNRR.

Va anche detto che il nodo gordiano da scogliere, concernente l’eventuale prevalenza del domicilio fisico su quello digitale, benchè apparentemente risolta dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, non sembra sia stato ancora del tutto chiarito proprio dalla giurisprudenza.

Senza andare tanto lontano infatti, nel caso oggetto di scrutinio da parte dei giudici di Palazzo Spada, è innegabile che l’avvocato del Comune non aveva effettivamente indicato l’indirizzo della propria PEC di domiciliazione all’interno dell’atto depositato nel giudizio processuale. Ma è altrettanto vero che, in relazione al sistema normativo attuale, sarebbe stato onere del notificante possibilmente attivarsi per ricercare l’indirizzo al quale comunicare l’avvenuto deposito della pronunzia all’interno degli indirizzi degli elenchi in possesso del Ministero della Giustizia.

 

 

 

 

 

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([1])Per eventuali approfondimenti si veda in particolare M. Reale, Pat: domicilio digitale, fisico o tutti e due? I chiarimenti della Giustizia Amministrativa sulla elezione di domicilio del difensore in riv. on line www.altalex, 2018; D. Gambetta, Il domicilio ex lege presso la cancelleria del giudice adito alla luce dei recenti arresti della giurisprudenza in materia di domicilio fisico e digitale nel processo civile e amministrativo in riv. on line www.diritto.it, 2020.
([2])L’articolo 92 del c.p.a. dispone sul punto che “Salvo quanto diversamente previsto da speciali disposizioni di legge, le impugnazioni si propongono con ricorso e devono essere notificate entro il termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza”.
([3])Senza pretesa di esaustività, val la pena ricordare come l’istituto giuridico dell’acquiescenza, assume molteplici sfumature a seconda della materia in cui viene presa in considerazione. Se si volesse dare una semplice definizione essa rientrerebbe nel concetto di condiscendenza e accettazione passiva. Ed allora se campo del diritto civile l’acquiescenza rientra nel comportamento processuale della parte soccombente in giudizio che manifesta la propria volontà di non impugnare la sentenza. Ad occuparsene è l’articolo 329 c.p.c. che esclude la proponibilità delle impugnazioni ammesse dalla legge in tutti quei casi in cui vi è un’acquiescenza risultante da atti che sono con esse incompatibili o dall’accettazione espressa della sentenza. Spostandoci nella materia del diritto amministrativo, essa viene inquadrata giuridicamente in una causa di conservazione soggettiva dell’atto amministrativo (per un’analisi della natura giuridica dell’istituto si veda sul fronte giurisprudenziale T.A.R. Veneto, sez. I, 28 aprile 2014 n. 543. Più recente T.A.R. Puglia, Sez. III, 11 novembre 2021, n. 1624. Nel suo pieno significato, l’acquiescenza consiste nell’accettazione e conseguente rinuncia ad impugnare un provvedimento da parte di un soggetto che, a causa del medesimo, avrebbe visto pregiudicato un proprio interesse, così divenendo legittimato ad esperire il gravame. L’acquiescenza può risultare esplicita (laddove sia resa mediante una dichiarazione espressa), oppure può concretizzarsi in forma tacita laddove al contrario, il soggetto compia atti univoci e concordanti che denotino una volontà chiara e inequivocabile di accettare il provvedimento (o in ogni caso atti incompatibili con la volontà d’impugnarlo). Occorre sottolineare come, una consolidata corrente di pensiero dei giudici di Palazzo Spada (su tutte si veda Cons. Stato, Sez. VI, 10 ottobre 2002, n. 5443 e Cons. Stato, Sez. VI, 16 aprile 2003, n. 1990) abbia stabilito quali debbano essere i requisiti affinchè un comportamento adesivo, possa essere parimenti ritenuto acquiescente. In particolare, occorre prendere in considerazione: a) l’effettiva esistenza dell’atto; b) l’attuale capacità potenzialmente lesiva del medesimo; b) la piena conoscenza del provvedimento da parte del soggetto acquiescente, e nonostante le condizioni precedenti, la sussistenza di comportamenti spontanei e non imposti attuati dal medesimo, che dimostrino un’evidente ed univoca volontà di accettare ogni effetto provvedimentale, anche laddove gli stessi siano pregiudizievoli. Non può pertanto manifestarsi un’acquiescenza presuntiva né si può parlare di una forma di acquiescenza preventiva. Infine, può dirsi che dal punto di vista temporale, l’acquiescenza è configurabile solo e soltanto se il comportamento adesivo, si manifesti tra il momento di conoscenza dell’atto e quello di successiva impugnazione. Per eventuali approfondimenti di carattere dottrinale si veda P. Virga, L’acquiescenza al provvedimento amministrativo, Palermo, 1948 e  F. Gaffuri, L’acquiescenza al provvedimento amministrativo e la tutela dell’affidamento, Milano, 2006.
([4])Si tratta del regio decreto del 22 gennaio 1934 n. 37 recante “Norme integrative e di attuazione del R. decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore” il quale al comma 1 dell’articolo 82 così recita: “I procuratori, i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del Tribunale al quale sono assegnati, devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso. Il successivo comma 2 dispone che “In mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la Cancelleria della stessa autorità giudiziaria”.
([5])Sul punto il Comune di Tivoli, poggia le proprie ragioni, su un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, soltanto nelle ipotesi dimostrabili in cui la notifica via PEC non sarebbe materialmente possibile per causa imputabile al destinatario, si riespanderebbe la possibilità di effettuare la notifica proprio presso il domicilio indicato ex lege nella cancelleria del tribunale adito (Cass. civ., Sez. III, 8 giugno 2018, n. 14914; Cass. civ., Sez. III, 11 luglio 2017, n. 17048; Cass. civ., Sez. VI, 14 dicembre 2017, n. 30139).
([6])Anche questo comma come il precedente 1 bis è stato normativamente aggiunto dall’art. 7, comma 1, lettera a) del decreto legge 31 agosto 2016, n. 168 convertito dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.

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