Le fonti nel diritto amministrativo, linee guida ANAC e c.d. “Decreto Sblocca-Cantieri”

Le fonti nel diritto amministrativo, linee guida ANAC e c.d. “Decreto Sblocca-Cantieri”

Sommario: 1. Premessa – 2. Cenni sulle fonti del diritto europeo – 3. Le fonti dell’ordinamento nazionale – 4. Le linee guida ANAC – 5. Le novità apportate dal c.d. Decreto Sblocca-Cantieri

1. Premessa

In ossequio a quanto osservato da un’autorevole e attenta dottrina[1], il sistema delle fonti nel diritto amministrativo può, prima facie, essere distinto in “fonti sull’amministrazione” e “fonti dell’amministrazione”.

Le “fonti sull’amministrazione” si rivolgono alle pubbliche amministrazioni, disciplinandone l’organizzazione, le funzioni e i poteri. All’interno di tale categoria, in armonia con il principio della riserva di legge c.d. relativa statuita – e ormai unanimemente riconosciuta – dall’art. 97 Cost., si collocano innanzitutto le fonti normative di rango primario (legge formale del Parlamento, legge regionale nelle materie di competenza ex art. 117 Cost. ed atti aventi forza di legge) e secondariamente, le fonti normative di rango secondario (regolamenti).

Le “fonti dell’amministrazione” rappresentano, invece, gli strumenti che le pubbliche amministrazioni adoperano sia per la regolamentazione della vita dei privati, che per la propria autoregolamentazione, relativamente a ciò che concerne la loro struttura e il loro funzionamento. In particolare, tali fonti possono includere sia fonti normative in senso proprio, quali regolamenti e statuti, che atti non normativi, come ad esempio le direttive e le circolari. Ad ogni modo, le norme interne della P.A. non possono essere classificate tra le fonti del diritto in senso proprio.

A monte di tale distinzione, che guarda all’assetto interno delle fonti nel diritto amministrativo, negli ultimi decenni, ha assunto un ruolo sempre più pregnante il diritto dell’Unione europea. Invero, è ormai del tutto riconosciuta la prevalenza delle fonti sovranazionali nei confronti di quelle nazionali.

2. Cenni sulle fonti del diritto europeo

In merito al rapporto tra diritto sovranazionale e diritto nazionale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e la nostra Corte Costituzionale hanno assunto posizioni opposte l’una rispetto all’altra. Sul punto, le stesse hanno elaborato due diverse tesi: la c.d. tesi monista, fatta propria dalla Corte di Giustizia UE a partire dalla nota sentenza Simmenthal[3], tende a ricostruire i rapporti tra i due ordinamenti nel senso dell’integrazione reciproca, con la conseguenza che le fonti europee e quelle nazionali costituirebbero un unico sistema ordinato gerarchicamente che vede le prime prevalere sulle seconde, in forza del principio della primauté del diritto europeo, rendendo le ultime inapplicabili in caso di contrasto con le disposizioni UE; la tesi c.d. dualista è invece sostenuta dalla Corte Costituzionale, in particolare nella sentenza Granital[4], la quale ha stabilito che i due ordinamenti in esame sono autonomi e distinti, ancorché coordinati secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato di Roma. A seguito della suddetta pronuncia, è stato riconosciuto al giudice nazionale il potere di disapplicare direttamente la norma interna contrastante con quella europea, senza dover ricorrere alla Corte Costituzionale, salvo i casi di incompatibilità di disposizioni recanti principi fondamentali dell’ordinamento e diritti inalienabili della persona, che comportano l’obbligo di sollevare questione di legittimità costituzionale. In tale ultimo caso, entrano in gioco i c.d. controlimiti, che costituiscono l’insieme dei principi fondamentali della Carta costituzionale e dei diritti inviolabili della persona, in relazione ai quali gli Stati membri dell’UE non hanno acconsentito ad alcuna cessione di sovranità. Essi rappresentano il “nocciolo duro dei valori fondanti l’ordinamento”[5]nazionale, intangibili dal diritto sovranazionale, ponendosi quale limite al suo ingresso, qualora contrasti con i menzionati valori fondamentali.

In ogni caso, le fonti del diritto sovranazionale si pongono su di un livello gerarchicamente più elevato rispetto alle fonti di diritto interno, invero, ai sensi dell’art. 11 Cost., l’Italia “…consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni…”.

Da ultimo, si rileva che la regola della disapplicazione vale sia per i giudici nazionali, i quali devono individuare la norma applicabile al caso concreto nell’ambito delle controversie loro assegnate, in forza del principio jura novit curia, sia per le pubbliche amministrazioni, nell’atto dell’emanazione di un provvedimento amministrativo (ad esempio, nel caso di contrasto tra una direttiva UE e una legge nazionale, l’amministrazione deve attenersi alla prima nell’adozione della propria determinazione).

Tutto ciò premesso, in generale, è possibile distinguere da un lato, il diritto europeo c.d. originario, il quale è suddiviso in diritto scritto (Trattati istitutivi delle originarie comunità europee e i successivi Trattati di modifica) e non scritto (principi generali) e, dall’altro lato, il diritto europeo c.d. derivato, che ricomprende tutti gli atti giuridici emanati dalle istituzioni europee, sia vincolanti (regolamenti, direttive, decisioni) che non vincolanti (raccomandazioni e pareri). Le fonti di primo grado, provenienti dal diritto originario, sono gerarchicamente sovraordinate rispetto alle fonti di secondo grado, che provengono dal diritto derivato.

In estrema sintesi, per ciò che attiene il diritto europeo originario scritto, i Trattati attualmente in vigore sono il Trattato sull’Unione Europea (TUE) ed il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Questi esplicano i loro effetti direttamente negli ordinamenti statali (si producono sempre effetti c.d. diretti verticali, attraverso il riconoscimento alle persone fisiche e giuridiche di situazioni giuridiche attive azionabili contro gli Stati membri; possono prodursi anche effetti c.d. orizzontali, quando un cittadino dell’Unione invochi una norma nei confronti di una persona fisica o giuridica).

Merita un cenno, la particolare posizione assunta nel nostro ordinamento dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950 e comunemente nota come CEDU. Al riguardo, infatti, la Corte Costituzionale continua ad escluderne la diretta applicazione, negandole la prerogativa del primato, pur essendo la stessa parte integrante del diritto dell’Unione [6].

Secondo l’orientamento tutt’ora prevalente, il contrasto tra la norma CEDU e una legge interna, non comporterebbe la disapplicazione di quest’ultima da parte del giudice nazionale, il quale dovrebbe invece sollevare questione di costituzionalità con l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione al rispetto degli obblighi internazionali[7].

Secondo la Consulta, la CEDU – o meglio, la legge 4 agosto 1988, n. 848 che ne autorizza la ratifica – si configura come fonte interposta nel giudizio di legittimità costituzionale: ciò significa che la situazione di contrasto della norma interna con la Convenzione da adito a dubbi di incostituzionalità della prima, la quale si pone in diretta violazione con il disposto di cui all’art. 117, co. 1, Cost. e, solo indirettamente, con la norma CEDU. Vale la pena evidenziare che, al contrario di ciò che avviene con le fonti europee, in nessun caso la norma CEDU può avanzare la pretesa di avere la meglio su una qualsiasi delle leggi della Costituzione, divenendo, anzi, in caso di contrasto, essa stessa illegittima.

Nonostante l’adesione dell’Unione Europea alla CEDU, avvenuta con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in data 1 dicembre 2009, che ha comportato la modifica dell’art. 6 TUE, la Corte Costituzionale non ha mutato la previgente opinione, facendo leva sul fatto che, al momento, sarebbe stata semplicemente acconsentita tale adesione, la quale non sarebbe, peraltro, ancora avvenuta[8].

3. Le fonti dell’ordinamento nazionale

Al vertice del sistema gerarchico delle fonti dell’ordinamento nazionale, sono collocate la Costituzione, le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali integratrici della stessa.

Al livello subito inferiore si pongono le fonti normative di rango primario, tra le quali spicca, in primis, la legge formale del Parlamento, adottata collettivamente dalla Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica e promulgata dal Presidente della Repubblica (artt. 70-74 Cost.) e, accanto ad essa, gli atti aventi forza di legge – si tratta, in particolare, del decreto legislativo adottabile dal Governo su delega del Parlamento (art. 76 Cost.) e del decreto legge, che il Governo può emanare “in casi straordinari di necessità ed urgenza” (art. 77 Cost.) e soggetto a conversione da parte del Parlamento entro 60 giorni. Inoltre, fanno parte delle c.d. fonti primarie, il referendum abrogativo, le fonti a competenza costituzionalmente riservata (il Consiglio di Stato vi annovera i regolamenti parlamentari)[9], gli Statuti delle regioni ordinarie (per quanto riguarda le regioni a statuto speciale, questo viene approvato con legge costituzionale ai sensi dell’art. 116 Cost., vantando una posizione di preminenza rispetto alle fonti ordinarie) e le leggi regionali, nelle materie di loro competenza ex art. 117 Cost.

Sono subordinate alle c.d. fonti primarie, le fonti normative di rango secondario, le quali non possono quindi abrogare, derogare, modificare o dettare norme in contrasto con le fonti di rango costituzionale e con quelle di rango primario. Fanno parte di tale categoria, i regolamenti e gli statuti degli enti locali.

Infine, alla base della piramide delle fonti del diritto, si colloca la consuetudine, quale fonte non scritta (la dottrina parla, al riguardo, di “fonte di terzo grado”) subordinata sia alle leggi che ai regolamenti. Come noto, la consuetudine consiste nell’uniforme e costante ripetizione da parte della collettività di un certo comportamento (c.d. diuturnitas), accompagnata dalla convinzione della sua doverosità giuridica (c.d. opinio iuris ac necessitatis).

4. Le  linee guida ANAC

Così delineata la disciplina di cornice, veniamo ora alle linee guida ANAC.

L’Autorità nazionale anticorruzione, in acronimo ANAC, è stata istituita con la Legge n. 190/2012 e, a partire dal 2014, incorpora anche l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP), la quale è stata soppressa con il d.l. n. 90/2014, convertito in Legge n. 114/2014.

La stessa è annoverata tra le Autorità amministrative indipendenti italiane, ovverosia organismi definiti da autorevole dottrina (G. Amato) come “enti od organi pubblici dotati di sostanziale indipendenza dal governo, caratterizzati da autonomia organizzatoria, finanziaria e contabile e dalla mancanza di controlli e di soggezione al potere di direttiva dell’esecutivo, forniti di garanzia di autonomia nella nomina, nei requisiti soggettivi e nella durata delle cariche di vertici ed aventi funzione tutoria di interessi costituzionali in campi socialmente rilevanti“.

In particolare, l’ANAC è deputata a svolgere prevalentemente una funzione di prevenzione della corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione, attraverso la vigilanza, il controllo e la regolazione dei contratti pubblici.

A seguito dell’emanazione del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016), che ne ha rafforzato i poteri, l’ANAC si è affermata come “Autorità di regolazione” attraverso il riconoscimento di una funzione di “produzione para-normativa” attuata mediante l’emanazione di linee guida per la disciplina di dettaglio delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici (l’art. 213, co. 2, afferma che il potere di regolazione si esplica attraverso “linee guida, bandi – tipo, contratti – tipo ed altri strumenti di regolazione flessibile, comunque denominati”).

La questione del ruolo delle linee guida ANAC nel sistema delle fonti del diritto amministrativo è stato a lungo oggetto di un vivace dibattito in dottrina e in giurisprudenza, che ha condotto a definire le stesse, pur se impropriamente, come strumenti di soft law. Per quanto d’interesse in questa sede, la c.d. soft law, si è sviluppata nelle more del diritto europeo, involgendo diversi fenomeni normativi privi di efficacia vincolante. In particolare, ferma restando la varietà delle forme attraverso le quali il “diritto morbido” si manifesta (ad esempio, inviti, comunicazioni, segnalazioni, accordi…), le stesse sono caratterizzate da una tendenziale assenza di coercibilità: infatti, vengono posti precetti che, pur influenzando la volontà dei destinatari, restano tuttavia privi di sanzioni. Così, partendo dall’assunto che la sanzione non costituisce un elemento assolutamente indispensabile della norma, la dottrina riconosce agli strumenti di soft law natura di fonti del diritto e, in particolare, di fonti c.d. atipiche.

Tuttavia, si è obiettato che le linee guida ANAC non appaiono riconducibili al soft law in senso stretto, poiché se questo postula l’assenza di vincolatività del precetto, il cui rispetto viene sostanzialmente rimesso all’adesione volontaria del soggetto, anche per effetto della persuasività dell’autorità emanante, le linee guida, al contrario, risultano idonee a costituire diritti e obblighi in capo ai destinatari.

Un importante contributo chiarificatore è giunto dal Consiglio di Stato con il parere n. 855/2016, che ha distinto tre categorie principali di linee guida: la prima ricomprende quelle con funzione prettamente propositiva recepite dai regolamenti ministeriali (questa tipologia, a prescindere dal nomen juris, rientra tra i regolamenti ministeriali veri e propri disciplinati dall’art. 17, comma 3, della l. 23 agosto 1988, n. 400); la seconda riguarda le linee guida attuative non vincolanti, con funzione di indirizzo, di interpretazione e di sollecitazione (inquadrabili come ordinari atti amministrativi); la terza categoria ricomprende le linee guida vincolanti erga omnes, nei confronti delle quali si è a lungo dibattuto, riconducibili alla definizione di “altri atti di regolamentazione flessibile” di cui all’art. 213, co. 2 del Codice dei contratti pubblici. Secondo la ricostruzione offerta dal Consiglio di Stato, le linee guida vincolanti, rientranti nell’ultima categoria sopracitata, avrebbero natura di atti amministrativi generali[10] e apparterrebbero al genus degli atti di regolazione tipici delle Autorità amministrative indipendenti. Tali atti costituiscono la manifestazione diretta del potere di regolazione dell’ANACe la loro previsione trova giustificazione nel perseguimento dei fini determinati dalla legge e affidati all’ANAC.

In definitiva, secondo il giudizio del Consiglio di Stato, le linee guida ANAC, pur se vincolanti, non possono essere considerate fonti del diritto.

5. Le novità apportate dal c.d. Decreto Sblocca-Cantieri

Il d.l. 32/2019 recante “Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici” (c.d. Decreto Sblocca-Cantieri), entrato in vigore il 19 aprile 2019, ha apportato diverse modifiche al Codice dei contratti pubblici.

In particolare, il legislatore ha voluto superare il sistema che ruota attorno alle linee guida e ai decreti ministeriali, ai fini di soddisfare esigenze di maggiore certezza e chiarezza nei procedimenti ad evidenza pubblica, considerati i dubbi cui le stesse hanno dato adito in punto di vincolatività e conseguenze annesse.

Il d.l. 32/2019 dispone la sostituzione dei provvedimenti attuativi del Codice con un regolamento attuativo unico: infatti, è previsto che un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e sentita la Conferenza Stato-Regioni, sostituisca le linee guida dell’ANAC in una serie di materie individuate. Il decreto dovrà contenere un Regolamento Unico recante disposizioni di attuazione, esecuzione e integrazione del Codice, comprese le linee guida e i decreti attuativi già esistenti ed efficaci.

E’ previsto un termine di 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto legge per l’adozione del citato Regolamento (al riguardo, già si discorre se il termine verrà o meno rispettato): a ciò, si aggiunge un regime transitorio dettato dal nuovo comma 27 octies dell’art. 216 d.lgs. 50/2016, a tenore del quale le linee guida già adottate “rimangono in vigore o restano efficaci fino alla data di entrata in vigore del regolamento”.

In ogni caso, il Regolamento in esame non sostituirà tutte le linee guida e i decreti ministeriali indicati nel Codice, posto che alcune disposizioni contemplanti tali provvedimenti attuativi non sono state modificate, facendone quindi salva la loro applicazione: dunque, in relazione alle materie non oggetto di modifica da parte del d.l. 32/2019, le linee guida ANAC regolatrici della disciplina di dettaglio, continueranno ad  esplicare validamente i loro effetti.

In merito alla novella legislativa, l’ANAC ha già espresso i propri dubbi in termini di chiarezza della disciplina, effettiva semplificazione e snellimento delle procedure, rispetto delle tempistiche indicate.


[1]Manuale di diritto amministrativo, M. Clarich, III ed.
[2]Compendio di diritto amministrativo, R. Garofoli, VI ed.
[3]Corte Giustizia UE, causa 106/77, 9 marzo 1978
[4]Corte Costituzionale, sentenza n. 170, 8 giugno 1984
[5]Appendice di aggiornamento al “Nuovo corso di diritto civile” e “Nuovo corso di diritto penale”, R. Galli, ed. 2017-2018
[6]Compendio di diritto amministrativo, R. Garofoli, VI ed.
[7]Ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost. la potestà legislativa dello Stato e delle regioni è sottoposta ai “vincoli derivanti dal diritto comunitario”.
[8]Corte Costituzionale, sentenza n. 80, 11 marzo 2011
[9]Consiglio di Stato, Comm. spec., n. 2016, 3 agosto 2018
[10]Gli atti amministrativi generali si rivolgono a una pluralità di soggetti non determinabili a priori ma soltanto a posteriori, nel momento della loro effettiva adozione (ad esempio un bando di concorso). Essi non presentano il requisito della innovatività (esauriscono la loro efficacia con l’emanazione del singolo atto applicativo), né quello dell’astrattezza (non si applicano indefinitamente a fattispecie concrete). Si distinguono dalle fonti secondarie – che sono a tutti gli effetti fonti del diritto –  in quanto l’atto amministrativo generale è un semplice provvedimento amministrativo.

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