L’evoluzione normativa del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e le novità introdotte dal d.P.R. 81 del 13 giugno 2023

L’evoluzione normativa del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e le novità introdotte dal d.P.R. 81 del 13 giugno 2023

Sommario: 1. I codici di comportamento: dal Codice di comportamento del 1994 all’elaborazione del Codice di comportamento D.P.R. 62 del 16 aprile 2013 – 2. La natura giuridica del Codice di comportamento e la sua posizione nel sistema delle fonti – 2.1.  Rapporto tra il Codice di comportamento e la Legge n. 190/2012 sull’Anticorruzione – 3. Il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e il suo complesso iter di approvazione: le perplessità del Consiglio di Stato – 3.1. Primo schema di Decreto – 3.2. Il parere n. 93/2023 del Consiglio di Stato sullo “schema di decreto del Presidente della Repubblica adottato ai sensi dell’articolo 4, del decreto-legge 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni, dalla legge 29 giugno 2022, n. 79, recante modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 62, “Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165” – 3.3. Il secondo parere del Consiglio di Stato: Adunanza di Sezione del 4 aprile 202 – 4. Le novità introdotte dal D.P.R. 81 del 13 giugno 2023 – 4.1. Art. 11 bis – Utilizzo delle tecnologie informatiche – 4.2.  Art. 11 ter – Utilizzo di informazioni e dei social media – 4.3. Art. 12, commi 1 e 2 – Rapporti con il pubblico – 4.4. Art. 13, commi 4, 4-bis, 5, 7 – Disposizioni particolari per i dirigenti; 4.5. Art. 15, comma 5 – Vigilanza, monitoraggio e attività formative – 4.6. Art. 17, comma 2-bis, Disposizioni finali e abrogazioni – 5. Considerazioni conclusive: la disciplina del whistleblowing e il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici

 

1. I codici di comportamento: dal Codice di comportamento del 1994 all’elaborazione del Codice di comportamento D.P.R. 62 del 16 aprile 2013

Il Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni è stato introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 58-bis, comma 1°, del D.lgs. 29/93, adottato, per la prima volta, con decreto del Ministro della funzione pubblica il 31 marzo 1994, con la finalità di porre in essere un unico codice per tutto il personale delle amministrazioni pubbliche. Il Codice stabiliva regole dettagliate, fornendo principi, come quelli riportati all’art. 2 “il comportamento del dipendente è tale da stabilire un rapporto di fiducia e collaborazione tra i cittadini e l’amministrazione”. Inoltre, al comma 2 dello stesso articolo “il pubblico dipendente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire esclusivamente la Nazione con disciplina ed onore e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità”.

Queste regole non sono state stabilite con una legge parlamentare, ma dalla stessa pubblica amministrazione, che poteva irrogare delle “sanzioni disciplinari”. La PA dava delle direttive affinché le regole fossero recepite nei CCNLL e individuava i dirigenti quali responsabili della loro osservanza.

Pertanto, è sensato poter affermare, che attraverso questo Codice si era costituita una “giurisdizione domestica”, con la quale le sanzioni erano “calibrate” dalla pubblica amministrazione, intesa come un vero e proprio “corpo”, accezione che verrà confermata anche negli anni successivi[1].

Successivamente, con Decreto del Ministro della funzione pubblica del 28 novembre 2000, è stata disposta l’abrogazione del precedente Codice e la sua integrale sostituzione. A differenza del precedente, disponeva che “i contratti collettivi provvedono, a norme dell’art. 58-bis, comma 3, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, al coordinamento con le previsioni in materia di responsabilità disciplinare[2]. Inoltre, prevedeva l’applicazione delle disposizioni presenti nel Codice “in tutti i casi in cui non siano applicabili norme di legge o di regolamento o comunque per i profili non diversamente disciplinati da leggi o regolamenti[3].

Dopo alcuni anni, si è reso necessario un ulteriore intervento, determinato dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, che ha approvato le nuove norme per la prevenzione e repressione della correzione e ha riscritto l’art. 54, rubricato Codice di comportamento.

Il Governo definisce un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico. Il codice contiene una specifica sezione dedicata ai doveri dei dirigenti, articolati in relazione alle funzioni attribuite, e comunque prevede per tutti i dipendenti pubblici il divieto di chiedere o di accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità, in connessione con l’espletamento delle proprie funzioni o dei compiti affidati, fatti salvi i regali d’uso, purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia[4].

Pertanto, il Governo è stato chiamato ad elaborare un nuovo Codice di comportamento su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e dopo aver ottenuto il parere del Consiglio di Stato, è stato emanato con decreto del Presidente della Repubblica.

Infatti, è lo stesso D.lgs. 165/2001 a stabilire che “La violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento, compresi quelli relativi all’attuazione del Piano di prevenzione della corruzione, è fonte di responsabilità disciplinare. La violazione dei doveri è altresì rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile ogniqualvolta le stesse responsabilità siano collegate alla violazione di doveri, obblighi, leggi o regolamenti. Violazioni gravi o reiterate del codice comportano l’applicazione della sanzione di cui all’articolo 55-quater, comma 1[5].

In forza di tale previsione, è stato emanato il D.P.R. del 16 aprile 2013, n. 62, il nuovo Codice di comportamento, disponendo l’abrogazione di quello precedente.

Le principali disposizioni stabiliscono:

– il divieto per il dipendente di chiedere regali, compensi o altre utilità, nonché il divieto di accettare regali, compensi o altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore effettuati occasionalmente nell’ambito delle normali relazioni di cortesia e nell’ambito delle consuetudini internazionali. I regali e le altre utilità comunque ricevuti sono immediatamente messi a disposizione dell’Amministrazione per essere devoluti a fini istituzionali[6];

– la comunicazione tempestiva al responsabile d’ufficio di appartenenza della propria adesione o appartenenza ad associazioni od organizzazioni (esclusi partiti politici e sindacati), i cui ambiti di interesse possano interferire con lo svolgimento dell’attività dell’ufficio[7];

– la comunicazione, all’atto dell’assegnazione all’ufficio, rivolta al dirigente dell’ufficio di tutti i rapporti diretti o indiretti, di collaborazione con soggetti privati in qualunque modo retribuiti, che lo stesso abbia o abbia avuto negli ultimi tre anni, oltre all’obbligo di precisare se questi rapporti sussistano ancora (o sussistano con il coniuge, il convivente, i parenti e gli affini entro il secondo grado)[8];

– l’obbligo per il dipendente di astenersi dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto di interessi, anche non patrimoniali, derivanti dall’assecondare pressioni politiche, sindacali o dei superiori gerarchici[9];

– la tracciabilità e trasparenza dei processi decisionali che devono essere assicurati dal dipendente attraverso un adeguato supporto documentale[10];

– il rispetto dell’utilizzo del materiale o delle attrezzature di cui dispone per ragioni di ufficio e i servizi telematici e telefonici dell’ufficio nel rispetto dei vincoli posti dall’amministrazione[11];

– gli obblighi di comportamento in servizio nei rapporti e all’interno dell’organizzazione amministrativa;

– l’obbligo per il dirigente di comunicare all’amministrazione, prima dell’inizio delle sue funzioni, le partecipazioni azionarie e altri interessi finanziari che possano porlo in conflitto di interessi con la funzione pubblica che svolge; l’obbligo di fornire informazioni sulla propria situazione patrimoniale, nonché sulle dichiarazioni annuali dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche previste dalla legge[12].

2. La natura giuridica del Codice di comportamento e la sua posizione nel sistema delle fonti

Dopo aver analizzato l’evoluzione normativa del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, è giunto il momento di interrogarsi sulla sua natura giuridica.

Bisogna innanzitutto partire dal termine “Codice”, che nella sua accezione più risalente è da intendersi come raccolta organica di leggi e in tal senso in passato è stato utilizzato per indicare una raccolta importante di regole normative, basilari, basti pensare, ad esempio, al Codice di Giustiniano del quinto secolo dopo Cristo.

Nei tempi più vicini a noi, il termine “Codice” può essere inteso come espressione del sistema normativo dello Stato nazionale, inteso come raccolta di leggi complete e organiche, capace di disciplinare in maniera esaustiva e chiara un’intera materia.

Tuttavia, il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici non può essere considerato alla stregua di un vero e proprio Codice di leggi, ma più propriamente come un regolamento governativo[13], data l’esigenza di integrare e specificare le previsioni ivi contenute. Ed è proprio lo stesso “Codice” a stabilire che “le previsioni del presente Codice sono integrate e specificate dai codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni ai sensi dell’articolo 54, comma 5, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001[14]. Inoltre, le disposizioni ivi contenute sulle regole relative ai dipendenti pubblici ed al comportamento devono essere integrate dalle leggi sull’anticorruzione (L. 190/2012) e sulla pubblicità e la trasparenza (D.lgs. 337/2013), con le quali forma un “sistema”. La sua reale efficacia è determinata dal suo costante rimando alle altre norme legislative e alle norme del Codice penale sulla corruzione e concussione.

Pertanto, sebbene venga chiamato “Codice”, la sua scarsa completezza sulla materia trattata e l’esigenza di integrazione, richiamata a chiare lettere dalle sue disposizioni, porterebbero a ipotizzare una nuova intitolazione: “Regole regolamentari di comportamento dei dipendenti pubblici”.

Del resto, è lo stesso art. 54, comma 1, D.L. 165/2001 ad attribuire al Governo il potere di definire “un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico”, conseguentemente, è logico collocare il Codice, nel sistema delle fonti, a livello delle norme regolamentari.

Sebbene, questa qualificazione giuridica del Codice di comportamento sia molto convincente, con riferimento al Codice di comportamento del 2000 si avanzò una considerazione diversa. Infatti, si riteneva che il mancato riferimento all’art. 17, comma 1, della L. 400/1988, ed anche l’assenza della denominazione di “regolamento”, richiesta dal comma 4 dello stesso articolo, fossero due motivi sufficienti a considerare altra la natura giuridica del Codice.

Sulla stessa linea si posizionò anche l’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione che ritenne dubbia la considerazione della violazione dei precetti del Codice come fondamento della fattispecie del reato di abuso di ufficio, ritenendo che si potesse qualificare come un “atto amministrativo a contenuto generale”, in quanto allegato al contratto collettivo di lavoro.

Al Codice del 2000 veniva riconosciuta una “natura convenzionale”, tale da impedirgli di avere una forza sufficiente per imporsi al comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e per regolarne le azioni, stabilendo le sanzioni per l’inosservanza delle proprie norme[15].

Queste considerazioni possono trovare la loro ragion d’essere con riferimento al Decreto ministeriale del 28 novembre 2000, ma la qualificazione dell’attuale Codice deve essere desunta alla lettura dell’art. 54, D.lgs. n. 165/2001, come modificato dalla L. n. 190/2012. Ed è proprio l’art. 54, comma 3 a disporre che “la violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento, compresi quelli relativi all’attuazione del Piano di prevenzione della corruzione, è fonte di responsabilità disciplinare. La violazione dei doveri è altresì rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile ogniqualvolta le stesse responsabilità siano collegate alla violazione di doveri, obblighi, leggi o regolamenti. Violazioni gravi o reiterate del codice comportano l’applicazione della sanzione di cui all’articolo 55-quater, comma 1”.

Ed è proprio su questa riqualificazione giuridica dell’attuale Codice che torna a pronunciarsi la Cassazione, sezione Lavoro, affermando che “il comma 3 dell’art. 54 “nuovo testo” nel disporre che “la violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento, compresi quelli relativi all’attuazione del Piano di prevenzione della corruzione, “è fonte di responsabilità disciplinare”, che la violazione dei doveri è altresì rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile ogniqualvolta le stesse responsabilità siano collegate alla violazione di doveri, obblighi, leggi o regolamenti”, che le “violazioni gravi o reiterate del codice comportano l’applicazione della sanzione di cui all’articolo 55-quater, comma 1” conferma in maniera inequivocabile il rilievo disciplinare attribuito dal legislatore alla violazione degli obblighi e dei doveri indicati nel Codice di Comportamento”[16].

2.1. Rapporto tra il Codice di comportamento e la Legge n. 190/2012 sull’Anticorruzione

La fonte primaria della disciplina sui codici di comportamento è senz’altro la Costituzione che impone che le funzioni pubbliche siano svolte con imparzialità (art. 97), al servizio della Nazione (art. 98) con “disciplina e onore” (art. 54, co.2).

Questi principi sono ribaditi anche dalla L. n. 190 del 2012, che definisce le proprie disposizioni come diretta attuazione del principio di imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione.

La disciplina di revisione del codice di comportamento inserita nella Legge n. 190 porta a considerare che la volontà del Legislatore sia quella di ancorare saldamente il codice di comportamento non solo alle suddette norme costituzionali, ma anche alla strategia di prevenzione della corruzione nel settore pubblico.

La nuova formulazione dell’art. 54 introdotta dalla legge 190/2012 prevede chiaramente che la violazione dei doveri ivi contenuti è fonte di responsabilità disciplinare, essa rappresenta una importante novità rispetto alle precedenti disposizioni, le quali si limitavano a prevedere indirizzi affinché i princìpi del codice venissero coordinati con le previsioni dei contratti collettivi in materia di responsabilità disciplinare, lasciando a questi ultimi il compito di definire le conseguenze giuridiche delle violazioni[17].

3. Il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e il suo complesso iter di approvazione: le perplessità del Consiglio di Stato

Il D.P.R. n. 62 del 16.4.2013 è stato recentemente modificato, in ossequio a quanto disposto dal D.L. 30 aprile 2022, n. 36, con il Decreto del Presidente della Repubblica, n. 81/2023, recante “Regolamento concernente modifiche al D.P.R. 62/2013”, approvato dal Consiglio dei Ministri in una prima versione il 1° dicembre 2022.

L’art. 4 del D.L. 30 aprile 2022, recante “Ulteriori misure urgenti per la realizzazione del PNRR”, ha modificato l’art. 54 del TUPI, introducendo il comma 1-bis “Il codice contiene, altresì, una sezione dedicata al corretto utilizzo delle tecnologie informatiche e dei mezzi di informazione e social media da parte dei dipendenti pubblici, anche al fine di tutelare l’immagine della pubblica amministrazione”. Inoltre, nello stesso articolo il D.L. è intervenuto anche per modificare il comma 7, che oggi impone alle PP.AA., in determinate occasioni, di prevedere lo svolgimento di un ciclo formativo obbligatorio, sia a seguito di assunzione, sia in ogni caso di passaggio a ruoli o a funzioni superiori, sui temi dell’etica pubblica e sul comportamento etico.

Lo schema di Decreto, accompagnato dalla relazione tecnica, ATN e AIR, ha seguito il consueto iter di approvazione introdotto dalla L. n. 190/2012, che prevede la previa deliberazione del Consiglio dei ministri, avvenuta il 1° dicembre 2022, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, e l’intesa in sede di Conferenza Unificata. Tale iter richiede, prima della formale adozione, il parere del Consiglio di Stato, come previsto per tutti i regolamenti adottati ai sensi dell’art. 17 della L. 23 agosto 1988, n. 400.

3.1. Primo schema di Decreto

Lo schema di decreto si compone di due articoli:

– L’articolo 1 reca le “Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 62” e dispone la sostituzione, in funzione essenzialmente integrativa, di numerosi commi delle disposizioni del codice e l’inserimento di quattro nuovi articoli, segnatamente dell’art. 11-bis “Utilizzo delle tecnologie informatiche”, 11-ter “Utilizzo dei mezzi di informazione e dei social media”, 11-quater “Rispetto dell’ambiente” e 11-quinqueis “Rispetto della persona e divieto di discriminazioni”;

– L’articolo 2 reca la clausola di invarianza finanziaria, in base alla quale dalle disposizioni del presente regolamento non derivano nuovi o ulteriori oneri a carico della finanza pubblica e le amministrazioni provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili alla legislazione vigente, senza nuovi o ulteriori oneri a carico della finanza pubblica.

Alla Sezione consultiva del Consiglio di Stato è stata trasmessa insieme alla relazione tecnica, l’analisi tecnico-normativa (ATN) e l’analisi di impatto della regolamentazione (AIR).

Nell’ATN si evidenziava come lo schema di decreto in esame intendesse rispondere alle “nuove esigenze del contesto socio-lavorativo e di quelle derivanti dall’evoluzione e dalla maggiore diffusione delle tecnologie informatiche, le quali, rispetto all’attuale condizione lavorativa presente nel pubblico impiego, hanno creato diverse criticità avuto riguardo al corretto utilizzo delle tecnologie informatiche, dei mezzi di informazione e dei social media” oltre che “ far acquisire (…) nuova consapevolezza della necessità di procedere alla razionalizzazione delle spese, eliminando inefficienze e sprechi, soprattutto da lato dell’impatto ambientale derivante dall’attività che giornalmente viene svolta negli uffici pubblici”, descrivendo al tal fine le misure in esso previste”.

Negli stessi termini si esprime, anche l’AIR, ove si aggiunge che “per quanto attiene alla quantificazione dei destinatari, il regolamento si applica a tutte le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che poi provvederanno ai sensi dell’articolo del regolamento dell’articolo 54, comma 5, del medesimo decreto legislativo ad adottare propri specifici codici, attagliando le disposizioni di carattere generale dell’ordinamento alle proprie specificità”.

3.2. Il parere n. 93/2023 del Consiglio di Stato sullo “schema di decreto del Presidente della Repubblica adottato ai sensi dell’articolo 4, del decreto-legge 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni, dalla legge 29 giugno 2022, n. 79, recante modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 62, “Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165”

La Sezione Consultiva per gli Atti Normativi del Consiglio di Stato ha espresso un primo parere negativo in Adunanza di Sezione il 12 gennaio 2023.

Il Consiglio di Stato parte dalla considerazione che le integrazioni dello schema di decreto in esame introducono, in realtà, “nuove regole di condotta, provviste della cogenza propria di obblighi la cui violazione, come espressamente stabilisce l’art. 16 del Codice, integra “comportamenti contrari ai doveri d’ufficio”, molte delle quali vanno oltre quanto richiesto dall’art. 4 della L. n. 79 del 2022 e perciò dall’art. 54 del D.lgs. n. 165 del 2001, per come modificato da quest’ultimo intervento legislativo”.

Un esempio sono le integrazioni sul contenimento dei consumi energetici, delle risorse e dei materiali di consumo, sulla raccolta differenziata (art. 11-quater “Rispetto dell’ambiente”), sull’obbligo di astensione da azioni discriminatorie o lesive verso colleghi e utenti (art. 11- quinquies “Rispetto della persona e divieto di discriminazioni”).

Secondo il parere del Consiglio di Stato lo schema andrebbe oltre la “delega” ricevuta, limitata alla “ introduzione di una “sezione dedicata al corretto utilizzo delle tecnologie informatiche e dei mezzi di informazione e social media da parte dei dipendenti pubblici, anche al fine di tutelare l’immagine della pubblica amministrazione” oltre che lo svolgimento, da parte delle pubbliche amministrazioni “ di un ciclo formativo obbligatorio, sia a seguito di assunzione, sia in ogni caso di passaggio a ruoli o a funzioni superiori, nonché di trasferimento del personale”, con durata ed intensità “proporzionate al grado di responsabilità del dipendente, sui temi dell’etica pubblica e sul comportamento etico”.

Pertanto, il Consesso non può che esprimere delle perplessità su queste prescrizioni che non trovano titolo nella norma di legge e “sono prive di fondamento nella disciplina primaria come il principio di legalità che, costituzionalmente, governa l’azione e l’organizzazione amministrativa”.

La Sezione consultiva esprime importanti riserve anche con riferimento alle “nuove” regole di condotta che trovano astrattamente titolo nell’art. 4 della L. n. 79 del 2022, riferibili all’area dei doveri concernenti la tutela dell’immagine della pubblica amministrazione, sottesa all’utilizzo delle tecnologie informatiche, dei mezzi di informazione e dei social media.  I nuovi articoli 11-bis e 11-ter, dedicati rispettivamente all’”Utilizzo delle tecnologie informatiche” e all’ “Utilizzo dei mezzi di informazione e dei social media” codificano una “pluralità di regole connotate da un elevato dettaglio casistico, ma al contempo da un’indeterminatezza delle condotte sanzionabili”.

L’uso di espressioni linguistiche, lasciate prive di definizioni atte a esplicitarne il significato, da una parte non permette al Codice di enunciare i “doveri minimi” dei pubblici dipendenti e dall’altra “espone i pubblici dipendenti agli eccessi degli spazi interpretativi d’intervento, ed anche alla connessa dubbiosità, per così dire, disparitaria, circa l’attivazione delle procedure disciplinari, di chi sarà preposto ad assicurare il rispetto e a sanzionarne la violazione”.

Le condotte, in ossequio ai principi di legalità e tipicità, dovrebbero “avere un dettaglio tale da ricavarsene una ratio e una serie di ipotesi comportamentali “diffuse” (cioè rilevanti sulla soglia della decisione di intervenire normativamente) di “allarme sociale” dotate di una loro, almeno nucleare, evidenziazione e “determinatezza” ( a livello legislativo, trattandosi per sempre di introduzione di fattispecie in senso lato “punitive”.

Il Consesso si dimostra preoccupato rispetto alla capacità di queste nuove regole di condotta di incidere come fonti di nuove responsabilità disciplinari e rimette alla proponente la valutazione e verifica della stretta necessità e adeguatezza degli effetti penali e civili, amministrativi e contabili sulla sfera dei diritti e delle libertà dei singoli delle nuove norme.

La Sezione consultiva denuncia la parziale adeguatezza dell’AIR e l’assenza di oggettivi e stimatici elementi conosciti, in quanto le questioni sulle quali interviene lo schema di decreto in esame, richiedono un maggiore approfondimento e dunque anche una più estesa istruttoria.

Occorre che l’Amministrazione riferisca in merito a quelle che, genericamente, definisce le “criticità” riscontrate nell’utilizzo dei mezzi informatici, e perciò supporti con “ un adeguato apparato motivazionale ed accertativo l’introduzione di restrizioni e di limitazioni all’uso di mezzi che sono comunque funzionali anche alla manifestazione del pensiero e che, perciò, non possono fondarsi solo su assunti non confermati o non provati dall’esperienza, sia quanto, appunto, alla determinatezza tipologica sia quanto alla soglia si rilevanza e diffusione”.

3.3. Il secondo parere del Consiglio di Stato: Adunanza di Sezione del 4 aprile 2023

La sezione Consultiva del Consiglio di Stato nell’adunanza del 4 aprile 2023, si trova costretta a far presente che il Ministero proponente non ha trasmesso un nuovo testo dello schema di decreto.

I giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato la “peculiarità” di questo iter seguito dal Ministero “che sottopone nuovamente a parere il medesimo testo già oggetto di parere interlocutorio (…) senza però aver dato corso né alla preannunciata integrazione sotto il profilo istruttorio, delle lacune riscontrate relativamente ai dati, né alla modifica dell’originaria versione “al fine di risolvere le criticità legate all’indeterminatezza delle condotte sanzionabili attraverso la rielaborazione sintattica delle disposizioni”.

Il Consiglio di Stato prima di procedere al riesame del testo punto per punto si trova costretto a fare tre puntualizzazioni.

Il Ministero proponente avrebbe potuto procedere alle modifiche del testo come indicate dal parere interlocutorio, per le parti ritenute condivisibili senza passare per una nuova deliberazione preliminare del Consiglio dei Ministri.

In secondo luogo, la natura del parere reso dal Consiglio di Stato costituisce un sindacato preventivo sulla coerenza logico-giuridica dell’atto normativo con l’ordinamento nel suo complesso, ed è esercitato da un organo terzo e imparziale.

Infine, il parere della Sezione consultiva non può che avere ad oggetto il testo nel contenuto trasmesso, senza che sia possibile tenere conto di ipotetiche e/o possibili modifiche/integrazioni future. Pertanto, il Consiglio deve procedere all’esame del testo trasmesso, senza tenere conto dell’intenzione enunciata dal Ministero proponente, nella relazione del 1° marzo 2023, di modificare l’originaria versione “al fine di risolvere le criticità legate all’indeterminatezza delle condotte sanzionabili attraverso le rielaborazione sintattica delle disposizioni”.

Con riguardo agli artt. 11 bis (Utilizzo delle tecnologie informatiche) e 11 ter (Utilizzo dei mezzi di informazione e dei social media), nonché alle modifiche dell’art. 12 (Rapporti con il pubblico) la Sezione osserva, che molte delle condotte descritte, con un elevato dettaglio sintattico-verbale, erano già disciplinate dagli artt. 10 (Comportamento nei rapporti privati) e 11 (Comportamento in servizio) e 12 (Rapporti con il pubblico) del vigente Codice. Pertanto, sarebbe stato auspicabile novellare detti articoli estendendo le regole negli stessi contenute anche all’uso delle tecnologie informatiche (già previste dall’art. 11), dei mezzi di informazione e dei social media.

Gli artt. 11-bis e 11-ter non enunciano regole di condotta in termini essenziali, chiari e inequivoci, atti a rendere immediatamente riconoscibili ai destinatari i comportamenti sanzionabili, così persiste l’indeterminatezza della loro formulazione, favorita anche dall’utilizzo di espressioni, tratte dal linguaggio tecnico e lasciate prive di definizioni volte a esplicitarne il significato.

Inoltre, nel presente parere è stata evidenziata la mancanza di qualsiasi dato idoneo a evidenziare le criticità assertivamente riscontrate, sia sullo spreco e/o non corretto uso delle risorse e dei beni di consumo forniti dall’amministrazione, sia sull’esistenza di rilevanti e allarmanti fenomeni di discriminazione nell’ambito della PA, sia, da ultimo e soprattutto, su presunti danni all’immagine, al prestigio e al decoro delle amministrazioni conseguenti all’uso delle tecnologie informatiche e dei social media.

Si segnala nuovamente un inadeguato apparato motivazionale ed accertativo che non permette l’introduzione di nuovi obblighi di comportamento, restrizioni o limitazioni all’uso di mezzi informatici, funzionali anche alla manifestazione del pensiero.

4. Le novità introdotte dal D.P.R. 81 del 13 giugno 2023

Questo complesso iter di approvazione si è concluso con l’emanazione del D.P.R. n. 81 del 13 giugno 2023.

Quello che sembra emergere dall’esame dell’articolato finale è un parziale accoglimento delle indicazioni del Consiglio di Stato.

Dal decreto è stata eliminata la disposizione relativa all’impatto ambientale delle attività delle amministrazioni, contenuta nel cassato art. 11-quater, con il quale si disciplinava il contenimento dei consumi energetici, delle risorse e dei materiali di consumo forniti dall’amministrazione e la raccolta differenziata dei rifiuti. Allo stesso modo è stata espunta la disposizione relativa al rispetto della persona e al divieto di discriminazioni prevista dall’art. 11-quinquies, il quale stabiliva l’obbligo di astenersi da azioni discriminatorie o lesive dell’integrità psichica e fisica degli altri dipendenti e degli utenti.

 Le osservazioni sugli artt. 11-quater e 11-quinquies sono state recepite, ma non si può dire lo stesso con riferimento agli articoli riguardanti: l’utilizzo delle tecnologie informatiche (art. 11-bis), dei mezzi di informazione e dei social media (art. 11-ter); i rapporti con il pubblico (art. 12); i doveri del dirigente (art. 13); la formazione (comma 5-bis, art. 15).

4.1. Art.11 bis – Utilizzo delle tecnologie informatiche[18]

Come stabilito dal comma 1-bis dell’art. 54, d.lgs. n. 165/2001 “il codice contiene altresì, una sezione dedicata al corretto utilizzo delle tecnologie informatiche e dei mezzi di informazione e social media da parte dei dipendenti pubblici, anche al fine di tutelare l’immagine delle pubblica amministrazione”.

Le regole di comportamento stabilite dal D.P.R. n. 81 del 2023 introducono delle vere e proprie novità sia rispetto al Codice del 2002, sia con riferimento al Codice del 2013.

L’introduzione di queste disposizioni si è rilevata necessaria alla luce dell’attuale implemento dell’uso dei mezzi informatici, che ha coinvolto ormai tutto il mondo e sta coinvolgendo anche la Pubblica Amministrazione, che da anni porta avanti un’opera di digitalizzazione per essere al passo con i tempi e prestare più efficacemente la propria attività.

Con questa finalità, si richiama quanto disposto dal Codice dell’Amministrazione digitale, D.lgs. n. 82/2005, che all’art. 12, comma 1 prevede: “1. Le pubbliche amministrazioni nell’organizzare autonomamente la propria attività utilizzano le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione nel rispetto dei principi di uguaglianza e di non discriminazione, nonché per l’effettivo riconoscimento dei diritti dei cittadini e delle imprese di cui al presente Codice in conformità agli obiettivi indicati nel Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione di cui all’articolo 14-bis, comma 2, lettera b”.

Oggi, del resto, l’attività delle PP..AA. deve essere intesa non più come attività burocratica, farraginosa e lontana dai cittadini, ma come attività di management, intesa come servizio volto a soddisfare l’utenza.

Dopo questa breve introduzione, è giunto il momento di analizzare l’art. 11-bis in tutti i suoi cinque commi.

Comma 1:

“1. L’amministrazione, attraverso i propri responsabili di struttura, ha facoltà di svolgere gli accertamenti necessari e adottare ogni misura atta a garantire la sicurezza e la protezione dei sistemi informatici, delle informazioni e dei dati. Le modalità di svolgimento di tali accertamenti sono stabilite mediante linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale, sentito il Garante per la protezione dei dati personali. In caso di uso di dispositivi elettronici personali, trova applicazione l’articolo 12, comma 3-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82”.

Il comma in esame disciplina il diritto-dovere della PA di svolgere accertamenti e adottare le misure necessarie per garantire la sicurezza e la protezione dei sistemi informatici, nonché delle informazioni e dei dati raccolti e trattati.

La formulazione della norma in esame, però, secondo alcuni studiosi[19] nasconde una incongruenza. È corretto attribuire alla PA la facoltà di svolgere accertamenti in ambiti informatici, ma è doveroso considerare che questi possono riguardare anche dati personali degli operatori, i quali sono autorizzati all’utilizzo degli strumenti informatici anche per “incombenze personali”.

Dall’altra parte, sarebbe stato più corretto prevedere un vero e proprio dovere della PA di adottare tutte le misure di sicurezza e protezione necessarie, anche con specifico riferimento al Codice della Privacy e ss. modif., che all’art. 31, “Obblighi di sicurezza” stabilisce: “1. I dati personali oggetto di trattamento sono custoditi e controllati, anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, alla natura dei dati e alle specifiche caratteristiche del trattamento, in modo da ridurre al minimo, mediante l’adozione di idonee e preventive misure di sicurezza, i rischi di distruzione o perdita, anche accidentale, dei dati stessi, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta”.

Comma 2:

“2. L’utilizzo di account istituzionali è consentito per i soli fini connessi all’attività lavorativa o ad essa riconducibili e non può in alcun modo compromettere la sicurezza o la reputazione dell’amministrazione. L’utilizzo di caselle di posta elettroniche personali è di norma evitato per attività o comunicazioni afferenti al servizio, salvi i casi di forza maggiore dovuti a circostanze in cui il dipendente, per qualsiasi ragione, non possa accedere all’account istituzionale”.

L’utilizzo di account istituzionali è oggetto di un permesso, che risuona come un obbligo, in quanto “deve essere” limitato ai soli fini connessi all’attività lavorativa o ad essa riconducibili e non può “in alcun modo compromettere la sicurezza o la reputazione dell’amministrazione”.

L’uso delle caselle di posta elettronica personali deve essere “di norma vietato”, per attività e comunicazioni istituzionali, salvo che si versi in condizioni di impossibilità, per il dipendente di utilizzare la posta istituzionale. Si tratta di una raccomandazione volta ad evitare l’uso della casella di posta elettronica personale per attività e comunicazioni istituzionali, che trova la sua eccezione per motivi di forza maggiore, intesa come evento non imputabile al dipendente, inevitabile e imprevedibile, di una forza tale da non consentire di accedere all’account istituzionale[20].

Comma 3:

“3. Il dipendente è responsabile del contenuto dei messaggi inviati. I dipendenti si uniformano alle modalità di firma dei messaggi di posta elettronica di servizio individuate dall’amministrazione di appartenenza. Ciascun messaggio in uscita deve consentire l’identificazione del dipendente mittente e deve indicare un recapito istituzionale al quale il medesimo è reperibile”.

Il comma in esame disciplina la messaggistica, stabilendo che in ogni caso il dipendente è responsabile del contenuto dei messaggi inviati, che sono a lui riferibili.

Nell’elaborazione dei messaggi di posta elettronica di servizio, i dipendenti hanno il dovere di uniformarsi alle modalità di firma degli stessi; queste devono essere individuate a priori dalla singola amministrazione di appartenenza, la quale deve individuare anche una disciplina “minima” della messaggistica: è necessaria l’identificazione del dipendente mittente del messaggio e si deve indicare un recapito istituzionale ove il messaggio stesso sia reperibile[21].

Comma 4:

“4. Al dipendente è consentito l’utilizzo degli strumenti informatici forniti dall’amministrazione per poter assolvere alle incombenze personali senza doversi allontanare dalla sede di servizio, purché’ l’attività sia contenuta in tempi ristretti e senza alcun pregiudizio per i compiti istituzionali”.

La norma in esame esprime un’“apertura” all’utilizzo, per fini personali, degli strumenti informatici. Infatti, lo stesso Legislatore ritiene più economico, efficiente ed efficace, che il dipendente non debba allontanarsi dalla sede di servizio per assolvere ad incombenze personali, purché sia limitato a tempi ristretti e non pregiudichi i compiti istituzionali.

Tuttavia, è importante precisare che l’uso degli strumenti informatici per fini diversi da quelli prioritariamente istituzionali può essere sempre illegittimo se sussistano gli estremi del reato di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, ex art. 615 ter c.p.

Allo stesso modo, l’uso degli strumenti informatici per fini diversi da quelli propriamente istituzionali può costituire gli estremi del reato di abuso d’ufficio.

In tal senso una recente sentenza del Tribunale di Campobasso[22], ha ritenuto che si potesse concretizzare la fattispecie di reato dell’abuso d’ufficio, riferibile alla condotta di un dipendente dell’Agenzia delle Entrate, il quale, nella sua qualità di pubblico ufficiale, approfittando dell’abilitazione ad accedere ed operare sui sistemi informatici dell’ufficio, senza alcuna autorizzazione, aveva operato delle variazioni dei dati di alcuni fabbricati e terreni, per ottenere risparmi fiscali per tasse e imposte su beni di sua proprietà.

Inoltre, il Tribunale ha ritenuto che la condotta integrasse anche il reato di accesso abusivo a sistema informatico, avendo agito in assenza di un’autorizzazione del suo superiore ed in violazione del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.

Comma 5:

“5. È vietato l’invio di messaggi di posta elettronica, all’interno o all’esterno dell’amministrazione, che siano oltraggiosi, discriminatori o che possano essere in qualunque modo fonte di responsabilità dell’amministrazione”.

Infine, il comma 5 esprime il divieto assoluto di invio di messaggi oltraggiosi, discriminatori o fonte in qualsiasi modo di responsabilità della PA.

È evidente il richiamo che il Legislatore fa all’art. 3 Costituzione, espressione del principio fondamentale di eguaglianza e non discriminazione.

Non è necessario che il contenuto dei messaggi sia contemporaneamente oltraggioso, discriminatorio e generi responsabilità civile della PA, ma è sufficiente la presenza di uno solo di questi elementi affinché questo risulti illecito e quindi vietato.

Lo scopo di questa norma è quello di impedire la trasmissione di questi messaggi, indipendentemente dal fatto che essi vadano a ledere direttamente il prestigio e l’immagine della PA, ma il divieto è funzionale ad evitare l’offesa di soggetti terzi o anche solo del comune sentire.

4.2. Art.11 ter – Utilizzo di informazioni e dei social media[23] 

Comma 1:

“1. Nell’utilizzo dei propri account di social media, il dipendente utilizza ogni cautela affinché’ le proprie opinioni o i propri giudizi su eventi, cose o persone, non siano in alcun modo attribuibili direttamente alla pubblica amministrazione di appartenenza”.

La versione precedente aveva una portata decisamente troppo estesa, finendo col comprimere eccessivamente la libertà del dipendente pubblico, chiamato a rispondere per qualsiasi contenuto presente sui suoi account, anche se inserito da terzi.

La formulazione vigente ridimensiona la norma imponendo al dipendente di usare ogni cautela possibile, secondo la conoscenza delle tecnologiche attuali, senza l’imposizione di un divieto. Così facendo rileveranno solo le sue opinioni e i suoi giudizi, espressi su eventi, cose o persone, che non siano in alcun modo attribuibili alla PA di appartenenza e rimangono nella sfera di personale del dipendente, il quale ne risponde in proprio, senza poter coinvolgere la PA.

Comma 2:

“2. In ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale”.

Il fine espresso dalla norma è quello di impedire che sui mezzi di informazione e/o social media il dipendente pubblico possa muoversi ledendo il prestigio, il decoro o l’immagine della PA, o comunque coinvolgendo inopinatamente la PA.

Il termine “prestigio”, nell’accezione qui usata, vuole significare autorevolezza; ascendente che, in virtù di particolari meriti e doti, un soggetto può esercitare su altri.

Diversamente per “decoro” si intende più propriamente la dignità, che si manifesta nell’aspetto e nel contegno.

Il prestigio e il decoro vanno a costituire l’immagine della PA, che deve essere salvaguardata, difesa e tutelata, e alla sua lesione si risponde con il risarcimento del danno ad essa provocato, che ricomprende le spese sostenute per il suo ripristino.

A titolo esemplificativo è bene citare, una recente sentenza del Tribunale di Vibo Valentia n. 147/21 del 12.2.2021, in cui si dà una definizione del danno all’immagine della PA, qualificabile come il danno “ che investe il rapporto che lega la comunità degli amministrati all’ente per il quale il dipendente infedele agisce e postula il venire meno, da parte dei cittadini o anche da una categoria di soggetti ( fruitori o prestatori di servizi ad opere), del senso di affidamento e di fiducia nel corretto funzionamento dell’apparato della pubblica amministrazione nonché nel senso di “appartenenza all’istituzione stessa”.

In sostanza, esso si identifica nell’offesa al rispetto di tutte quelle disposizioni poste a tutela delle competenze, delle funzioni e delle responsabilità dei soggetti pubblici e nella conseguente alterazione dell’identità della PA, quale garante dei principi di trasparenza, legalità, imparzialità ed efficienza.

Comma 3:

Nella prima versione del comma 3 si imponeva un obbligo positivo: vietava in assoluto al dipendente di trattare comunicazioni, afferenti direttamente o indirettamente al servizio, tramite conversazioni pubbliche svolte su piattaforma digitale.

La norma, per alcuni studiosi, non appariva rispettosa del principio democratico della libertà d’espressione, tutelato dall’art. 21 Cost, né dalla normativa sulla privacy. La precedente formulazione permetteva all’Amministrazione di operare un controllo sui social dei dipendenti pubblici, con la finalità verificare che non sussistessero comportamenti valutabili come inappropriati. La PA, ogni qualvolta avesse registrato interventi o commenti nocivi per la PA, afferenti in qualche modo il servizio, avrebbe potuto irrogare, per violazione della normativa, una congrua sanzione disciplinare, che poteva consistere anche in una sanzione penale, se si fossero ravvisati gli estremi di un reato.

Pertanto, la norma regolamentare, così posta, poteva assumere le sembianze di una norma “in bianco”, questo perché la valutazione dell’appropriatezza del comportamento e della sua nocività per la PA era rimessa totalmente al datore di lavoro, senza possibilità di scriminanti, impedendo al dipendente di manifestare il proprio pensiero, in conversazioni pubbliche su piattaforme digitali.

È legittimo ritenere che la condotta del dipendente non possa mia andare oltre i limiti del diritto di critica, ma una giusta reazione non può arrivare a limitare la libertà di pensiero al punto di vietare, le partecipazioni a conversazioni pubbliche su piattaforme digitali.

Infatti, è bene ricordare come il diritto di critica sia garantito dalla Costituzione stessa, all’art. 21.

3. Al fine di garantirne i necessari profili di riservatezza le comunicazioni, afferenti direttamente o indirettamente il servizio non si svolgono, di norma, attraverso conversazioni pubbliche mediante l’utilizzo di piattaforme digitali o social media. Sono escluse da tale limitazione le attività o le comunicazioni per le quali l’utilizzo dei social media risponde ad una esigenza di carattere istituzionale.

Oggi, dopo il parere negativo del Consiglio di Stato sul primo schema di decreto, questa norma è stata riscritta cercando di adottare una formulazione più attenta al rispetto dei diritti e delle libertà costituzionalmente garantiti per tutti i cittadini e dunque anche per i dipendenti pubblici.

Con il precipuo fine “di garantire i necessari profili di riservatezza”, le comunicazioni, quando siano afferenti direttamente o indirettamente il servizio, non si svolgono, normalmente, attraverso conversazioni pubbliche mediante l’utilizzo di piattaforme digitali o social media.

La previsione concerne una situazione di “normalità” e quindi l’interprete potrebbe valutare l’eccezionalità di alcune situazioni, in cui potrebbe essere consentito un intervento, anche da parte del dipendente pubblico, su piattaforme digitali/social, anche in ordine a comunicazioni afferenti al servizio, direttamente o anche solo indirettamente.

Comma 4:

“4. Nei codici di cui all’articolo 1, comma 2, le amministrazioni si possono dotare di una “social media policy” per ciascuna tipologia di piattaforma digitale, al fine di adeguare alle proprie specificità le disposizioni di cui al presente articolo. In particolare, la “social media policy” deve individuare, graduandole in base al livello gerarchico e di responsabilità del dipendente, le condotte che possono danneggiare la reputazione delle amministrazioni”.

Ciascuna PA è sollecitata a dotarsi di una specifica policy avente ad oggetto i social media e più in generale ogni singola tipologia di piattaforma digitale, che potrà anche essere via via aggiornata, in relazione allo sviluppo delle stesse.

La norma indica gli obiettivi della social media policy che deve: individuare le condotte danneggianti la reputazione delle PPAA; graduare le sanzioni in relazione al livello gerarchico e di responsabilità dei dipendenti.

Comma 5:

“5. Fermi restando i casi di divieto previsti dalla legge, i dipendenti non possono divulgare o diffondere per ragioni estranee al loro rapporto di lavoro con l’amministrazione e in difformità alle disposizioni di cui al decreto legislativo 13 marzo 2013, n. 33, e alla legge 7 agosto 1990, n. 241, documenti, anche istruttori, e informazioni di cui essi abbiano la disponibilità”.

La norma, inserita ad abundantiam, ribadisce che per i dipendenti (e per chiunque abbia un rapporto di “dipendenza di servizio” dalla PA) è fatto divieto di divulgare/diffondere documenti, anche istruttori, e informazioni di cui abbiano disponibilità, per motivazioni che siano estranee al loro rapporto di lavoro e comunque in difformità da quanto previsto dalle Leggi speciali sulla trasparenza (D.lgs. n.33/2013) e sul procedimento (L. 241/90).

Dalla lettura analitica degli artt. 11-bis e 11-ter si può confermare il mancato accoglimento delle osservazioni e puntualizzazioni del Consiglio di Stato, in quanto queste rimangono norme “dettagliate nella casistica e indeterminate nelle condizioni sanzionabili”, tanto da esporre “i pubblici dipendenti agli eccessi degli spazi interpretativi d’intervento, ed anche alla connessa dubbiosità, per così dire, disparitaria, circa l’attivazione delle procedure disciplinari, chi sarà preposto ad assicurare il rispetto e a sanzionare la violazione[24].

 4.3. Art. 12, commi 1 e 2 – Rapporti con il pubblico[25]

L’articolo 12, rubricato “Rapporti con il pubblico”, contiene infatti le regole di comportamento già previste nel precedente Codice del 2002, ma introduce nuove fattispecie, che fanno sorgere alcuni problemi pratici di interpretazione e di applicazione.

Il D.P.R. n. 81/2023 ha apportato due integrazioni: una con riferimento al prima comma, secondo la logica che intende l’attività della PA come servizio all’utenza, che deve poter riporre nella PA la propria fiducia; l’altra nell’ottica di tutelare l’immagine della PA.

Comma 1:

“1. Il dipendente in rapporto con il pubblico si fa riconoscere attraverso l’esposizione in modo visibile del badge od altro supporto identificativo messo a disposizione dall’amministrazione, salvo diverse disposizioni di servizio, anche in considerazione della sicurezza dei dipendenti, opera con spirito di servizio, correttezza, cortesia e disponibilità e, nel rispondere alla corrispondenza, a chiamate telefoniche e ai messaggi di posta elettronica, opera nella maniera più completa e accurata possibile e, in ogni caso, orientando il proprio comportamento alla soddisfazione dell’utente. Qualora non sia competente per posizione rivestita o per materia, indirizza l’interessato al funzionario o ufficio competente della medesima amministrazione. Il dipendente, fatte salve le norme sul segreto d’ufficio, fornisce le spiegazioni e di altri dipendenti dell’ufficio dei quali ha la responsabilità od il coordinamento. Nelle operazioni da svolgersi e nella trattazione delle pratiche il dipendente rispetta, salvo diverse esigenze di servizio o diverso ordine di priorità stabilito dall’amministrazione, l’ordine cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia tenuto con motivazioni generiche. Il dipendente rispetta gli appuntamenti con i cittadini e risponde senza ritardo ai loro reclami”.

(comma così modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 81 del 2023)

Il nucleo del primo comma è il principio basilare del dovere del dipendente: operare con spirito di servizio, correttezza, cortesia e disponibilità.

Con l’espressione spirito di servizio si intende l’atteggiamento, la convinzione di operare nello svolgimento di un dovere, di un servizio, che trova il suo naturale riferimento nella norma costituzionale secondo la quale “il dipendente pubblico è al servizio esclusivo della Nazione”.

Questa disposizione rileva che l’attività del dipendente è qualificata dalla continuità, dallo svolgimento costante e diligente di un servizio, da un comportamento che deve essere corretto, anche quando non è in servizio e agisce in ambito privato.

Inoltre, la norma fa riferimento alle caratteristiche sostanziali del comportamento, perché il dipendente “deve operare con correttezza, cortesia e disponibilità”, questi profili di comportamento sono singole sfaccettature della “diligenza” che il dipendente deve avere.

Infine, in questo primo comma, è previsto il dovere di rispondere nella maniera più completa ed accurata possibile.

Il dipendente non deve solo rispondere alla corrispondenza, alle chiamate telefoniche e ai messaggi ma lo deve fare nella maniera più completa e accurata possibile.

Si tratta di una sorta di duplice dovere che è una specificazione della diligenza, applicata alla risposta che deve essere data alla corrispondenza telefonica e dei messaggi di posta elettronica.

La completezza e l’accuratezza devono essere “massime” ma nei limiti del “possibile”. Ovviamente tale previsione non deve trarre in errore, il dipendente è comunque tenuto a rispettare il parametro della diligenza in tutte le sue attività, in quanto il suo operato andrà valutato in riferimento alla situazione concreta.

Comma 2:

“2. Salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione o che possano nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale”.
(comma così modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 81 del 2023)

Il presente comma ha come oggetto i limiti della libertà di pensiero del dipendente pubblico e ai fini di un inquadramento della materia è essenziale richiamare le norme di riferimento.

L’articolo 21 Costituzione stabilisce che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (…) tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”.

L’articolo 42 del D.lgs. n 165/2001 prevede che “Nelle pubbliche amministrazioni la libertà e l’attività sindacali sono tutelate nelle forme previste dalle disposizioni della legge 20 maggio 1970, n. 300”.

Date le norme di riferimento, ci si deve chiedere se quest’obbligo del dipendente di astenersi da dichiarazioni pubbliche offensive, o che possono nuocere al prestigio, al decoro e all’immagine della PA, in generale o di appartenenza provochi dei problemi pratici.

La prima questione riguarda il dovere di “astenersi”, che riguarda soltanto le dichiarazioni pubbliche, ossia quelle espresse su un giornale, o in una conferenza, in un comizio ed oggi anche in ambiti social. La norma non ricomprende le dichiarazioni private, ma cosa succede se queste avvengono in un luogo aperto al pubblico o pubblico? In tal caso, la dichiarazione è pubblica se può essere ascoltata da altre persone presenti al bar o nella piazza.

Affinché si configuri la violazione del Codice di comportamento, queste esternazioni del dipendente devono essere oltre che pubbliche anche offensive, ossia devono contenere un linguaggio ingiurioso e allo stesso tempo devono superare il diritto di critica costituzionalmente tutelato. In altri termini, il dipendente deve astenersi dal pronunciare espressioni offensive che si risolvono in insulti, e che non sono considerabili alla stregua di critiche nei confronti della pubblica amministrazione.

Inoltre, con l’espressione “nei confronti della pubblica amministrazione” si potrebbe creare confusione rispetto ai destinatari della dichiarazione offensiva. Infatti, la norma intende far riferimento alla pubblica amministrazione nel suo complesso, agli uffici e a coloro che ne fanno parte. Di conseguenza, un dipendente non potrebbe affermare che, insultando il Dirigente X, non abbia violato il Codice, asserendo che la norma faccia riferimento alle dichiarazioni offensive rivolte alla pubblica amministrazione in generale e non anche ai suoi singoli componenti.

Tuttavia, il punto più delicato e problematico del comma riguarda l’inciso “Salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali”.

La disposizione stabilisce che al dipendente viene riconosciuto il diritto di esprimere valutazioni a tutela di diritti sindacali ed il diritto di diffondere informazioni su questi diritti.

Il riconoscimento di questo diritto può essere considerato non solo come superfluo, se si pensa al fatto che è già ricompreso a livello costituzionale nell’art. 21, ma anche errato perché è consentito al dipendente di manifestare liberamente il proprio pensiero, se le sue valutazioni sono a tutela e quindi favorevoli nei confronti dei diritti sindacali[26].

4.4. Art.13, commi 4, 4-bis, 5, 7 – Disposizioni particolari per i dirigenti

L’articolo 13 del Codice di comportamento costituiva già una novità rispetto al precedente Codice di comportamento ed è stato ulteriormente aggiornato con l’ultimo intervento modificativo del D.P.R. n. 81/2023.

Con la nuova formulazione sono state inserite diverse disposizioni rilevanti per i dirigenti, che il Legislatore oggi indica come i manager della PA, con compiti organizzativi e attributivi di obiettivi, il cui raggiungimento condiziona il riconoscimento di indennità, definite “di risultato”.

I commi modificati dal D.P.R. n. 81/2023 sono il comma 4, il comma 5, il comma 7, mentre il comma 4-bis è un’assoluta novità.

Comma 4:

“4. Il dirigente assume atteggiamenti leali e trasparenti e adotta un comportamento esemplare, in termini di integrità, imparzialità, buona fede e correttezza, parità di trattamento, equità, inclusione e ragionevolezza e imparziale nei rapporti con i colleghi, i collaboratori e i destinatari dell’azione amministrativa. Il dirigente cura, altresì, che le risorse assegnate al suo ufficio siano utilizzate per finalità esclusivamente istituzionali e, in nessun caso, per esigenze personali”.

(comma così modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 81 del 2023)

Questo comma si compone di due parti.

La prima è stata integrata dal D.P.R. n. 81 del 2023 e si riferisce agli atteggiamenti e comportamenti che il dirigente deve tenere.

Il dirigente deve fare propri atteggiamenti ispirati alla lealtà e alla trasparenza, in quanto è chiamato ad avere rapporti caratterizzati sia dalla sincerità sia dalla buona fede con tutti i colleghi, i collaboratori ed i destinatari dell’azione amministrativa.

Inoltre, il dirigente deve avere un comportamento “esemplare”, quindi, deve essere di esempio per i colleghi e collaboratori nonché per i destinatari dell’azione amministrativa.

In sostanza, viene chiesto al dirigente di essere assolutamente integro, imparziale, di comportarsi secondo buona fede e correttezza, al fine di realizzare un trattamento che sia paritario in concreto. Il suo agire deve essere guidato dall’equità, esprimendo la sua capacità di giudicare e valutare con equilibrio e imparzialità, e da un senso di inclusione, perché la sua attività deve raggiungere ed accogliere tutti i destinatari della pubblica amministrazione. Con l’introduzione del termine “inclusione” il Legislatore vuole impedire la discriminazione; quindi, le azioni del dirigente hanno l’alto obiettivo di eliminare qualunque discriminazione all’interno e all’esterno della PA, oltre che essere guidate da ragionevolezza.

La seconda parte del comma indica un comportamento concreto, stabilendo che il dirigente, quasi come conseguenza della lealtà, imparzialità, trasparenza, esemplarità, fa in modo che le risorse assegnate al suo ufficio siano utilizzate per finalità esclusivamente istituzionali, ed in nessun caso per esigenze personali.

Comma 4-bis:

“4-bis. Il dirigente cura, compatibilmente con le risorse disponibili, il benessere organizzativo nella struttura a cui è preposto, favorendo l’instaurarsi di rapporti cordiali e rispettosi tra i collaboratori, nonché di relazioni, interne ed esterne alla struttura, basate su una leale collaborazione e su una reciproca fiducia e assume iniziative finalizzate alla circolazione delle informazioni, all’inclusione e alla valorizzazione delle differenze di genere, di età e di condizioni personali”.

(comma introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 81 del 2023)

Il comma 4-bis è stato introdotto con l’ultimo intervento modificativo del Codice, che mira a modernizzare la PA, rendendola più tecnologica e al passo con i tempi.

Così si introduce un nuovo compito per il dirigente, che è chiamato a curare la crescita professionale dei collaboratori. Del resto, l’esperienza delle realtà aziendali più innovative porta a sostenere che più un lavoratore riesce ad esprimere al meglio il proprio potenziale, più ne deriverà un beneficio sia per il dipendente stesso, sia per l’azienda nel suo insieme.

Offrire l’opportunità di sviluppo professionale risulta essere la migliore strategia per “fidelizzare” i talenti, in modo da raggiungere gli obiettivi di business e far crescere l’azienda. Con la finalità di rispondere a questa esigenza sono stati pensati piani di carriera, che assicurano ad ogni lavoratore opportunità di crescita professionale coerenti e reali, ottenendo, così, dipendenti impegnati, motivati, propositivi e consentendo all’azienda di beneficiare di tutte le nuove competenze professionali acquisitive dai dipendenti.

Il Legislatore, nella formulazione del comma, si è spinto oltre ed ha individuato le modalità con le quali ottenere questa “crescita”: occasioni di formazione; promozione di opportunità di sviluppo professionale, sia interne che esterne alla struttura che dirigono. In riferimento a quest’ultima considerazione, si pensi alla copertura di fabbisogno di personale che potrebbe essere raggiunta non solo attraverso concorsi pubblici per l’accesso al pubblico impiego all’esterno, ma anche con selezioni per la progressione verticale, che consentono di ottenere risparmi economici e allo stesso tempo di andare a migliorare i profili professionali dei dipendenti meritevoli.

Comma 5:

“5. Il dirigente cura, compatibilmente con le risorse disponibili, il benessere organizzativo nella struttura a cui è preposto, favorendo l’instaurarsi di rapporti cordiali e rispettosi tra i collaboratori, assume iniziative finalizzate alla circolazione delle informazioni, alla formazione e all’aggiornamento del personale, all’inclusione e alla valorizzazione delle differenze di genere, di età e di condizioni personali”.
(comma così sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 81 del 2023)

Il Legislatore con l’intervento del D.P.R. n. 81/2023 ha parzialmente modificato il comma previgente.

La novità più rilevante è senz’altro l’introduzione dell’espressione “benessere organizzativo”, che riguarda l’ambito della struttura, e ciò significa che i dipendenti devono essere messi in condizione di poter operare in una situazione psicologica e materiale positiva. In altre parole, la struttura, intesa come complesso di uffici, deve essere produttiva e dotata delle qualità di una buona amministrazione, anche nel suo atteggiarsi verso l’esterno.

L’avverarsi di questo “benessere organizzativo” è la conseguenza degli atteggiamenti e del comportamento del dirigente, il quale è tenuto ad impedire situazioni discriminatorie, di abuso e più in generale di contrasto[27].

Al dirigente, inoltre, è assegnato il compito di favorire relazioni tanto interne, quanto esterne alla struttura da lui diretta, basate sulla leale collaborazione e sulla fiducia reciproca.

Il dirigente deve assumere iniziative per la circolazione delle informazioni, che attengono alla vita amministrativa, informazioni sulle novità legislative, amministrative e giurisprudenziali.

In ultimo, l’obiettivo forse più delicato e complesso è quello dell’inclusione e valorizzazione della differenza di genere, di età e di condizioni personali.

Il compito del dirigente in termini di inclusione è quello di superare le differenze che si traducono in esclusione, esaltando il valore insito in loro nell’ambito delle strutture amministrative.

Sebbene la disposizione cerchi di soddisfare il criterio della completezza, è indiscusso che il grado di vaghezza dei termini usati porti con sé dubbi interpretativi sull’età e sulle condizioni personali, che risultano essere formule vuote per le quali è difficile identificare dei destinatari.

Comma 7:

“7. Il dirigente svolge la valutazione del personale assegnato alla struttura cui è preposto con imparzialità e rispettando le indicazioni ed i tempi prescritti, misurando il raggiungimento dei risultati ed il comportamento organizzativo”.

(comma così modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 81 del 2023)

Il dirigente nello svolgimento della valutazione del personale deve essere imparziale, il principio alla base del comma viene richiamato anche da altri articoli del Codice, come l’art. 4, comma 3.

Dall’esame dell’articolo 13 emerge che la posizione del dirigente non è facile, e che i suoi doveri non sono esteriori, ma riguardano la sua personalità ed incidono sull’attività amministrativa dell’intero ufficio.

La genericità delle disposizioni dovrà essere risolta con riferimento ai casi concreti, anche se le novità introdotte dal recente D.P.R. sicuramente danno un segnale più che positivo, introducendo alcune importanti linee guida per una buona organizzazione dell’apparato amministrativo e per una sua buona “attività[28].

4.5. Art. 15, comma 5 – Vigilanza, monitoraggio e attività formative

Questo articolo comprende le regole della vigilanza sull’applicazione del Codice di comportamento da parte dei Dirigenti responsabili di ciascuna struttura.

5. Al personale delle pubbliche amministrazioni sono rivolte attività formative in materia di trasparenza e integrità, che consentano ai dipendenti di conseguire una piena conoscenza dei contenuti del codice di comportamento, nonché un aggiornamento annuale e sistematico sulle misure e sulle disposizioni applicabili in tali ambiti. (comma cos’ sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 81 del 2023)

Le attività formative sono rivolte al personale delle pubbliche amministrazioni, quindi a tutto il personale di tutte le pubbliche amministrazioni.

Ma cosa si intende per attività formative? Si tratta di attività finalizzate a formare i dipendenti sulle materie della trasparenza e dell’integrità, le quali sono alla base delle disposizioni del Codice di comportamento.

Per quanto riguarda la materia della trasparenza, essa fa riferimento non soltanto alla tematica del diritto di accesso, ma anche ai problemi riguardanti la pubblicità e la trasparenza di cui al D.lgs. n. 33/2013 e al d.lgs. n. 97/2016.

Con riferimento alla materia dell’integrità, il termine, già ripreso dall’art. 3, comma 2 del Codice con espresso richiamo al principio di integrità, indica quelle attività che devono essere per loro natura complete e trasparenti[29].

4.6 Art.  17, comma 2-bis, Disposizioni finali e abrogazioni

2-bis. Alle attività di cui al presente decreto le amministrazioni provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o ulteriori oneri a carico della finanza pubblica.

(comma aggiunto dall’art. 1, comma 1, lettera e), del d.P.R. n. 81 del 2023)

Con il comma in esame, il Legislatore pretende non solo che tutte le attività indicate nel presente Codice siano svolte dalle PPAA, ma altresì che esse siano svolte senza oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica.

A questo fine, il D.P.R. n. 81 ha espressamente inserito anche un art. 2, rubricato “clausola di invarianza finanziaria”, che ribadisce come dalle disposizioni del presente regolamento “non derivano” nuovi o ulteriori oneri a carico della finanza pubblica.

Tuttavia, è giusto chiedersi come potranno le pubbliche amministrazioni provvedere all’attuazione di queste norme, tese all’ammodernamento della PA, senza costi aggiuntivi ed è inevitabile pensare che le stesse risorse dovranno essere redistribuite a discapito di altri servizi utili alla collettività.

Pertanto, viene chiesto al dirigente di individuare in maniera oculata e lungimirante le attività da snellire, nell’ottica dei nuovi obiettivi del Codice, di semplificare procedimenti burocratici farraginosi nel rispetto del principio di trasparenza della PA e di incrementare l’uso delle tecnologie informatiche e di quelle più moderne tecnologie, rispettose dell’ambiente e della persona[30].

5. Considerazioni conclusive: la disciplina del whistleblowing e il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici

La riforma non ha affrontato il tema, indispensabile e urgente, della riscrittura dell’art. 8 e, di conseguenze, dell’art. 13 dell’attuale Codice di Comportamento.

Il Codice di comportamento all’art. 8 stabilisce che “Il dipendente rispetta le misure necessarie alla prevenzione degli illeciti nell’amministrazione. In particolare, il dipendente rispetta le prescrizioni contenute nel piano per la prevenzione della corruzione, presta la sua collaborazione al responsabile della prevenzione della corruzione e, fermo restando l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, segnala al proprio superiore gerarchico eventuali situazioni di illecito nell’amministrazione di cui sia venuto a conoscenza”.

In maniera speculare, l’art. 13, al comma 8, dispone che “Il dirigente intraprende con tempestività le iniziative necessarie ove venga a conoscenza di un illecito, attiva e conclude, se competente, il procedimento disciplinare, ovvero segnala tempestivamente l’illecito all’autorità disciplinare, prestando ove richiesta la propria collaborazione e provvede ad inoltrare tempestiva denuncia all’autorità giudiziaria penale o segnalazione alla corte dei conti per le rispettive competenze. Nel caso in cui riceva segnalazione di un illecito da parte di un dipendente, adotta ogni cautela di legge affinché sia tutelato il segnalante e non sia indebitamente rilevata la sua identità nel procedimento disciplinare, ai sensi dell’articolo 54-bis del decreto legislativo n. 165 del 2001”.

È ovvio che in forza del principio di successione della legge nel tempo, queste due norme dovrebbero ritenersi implicitamente abrogate, nelle parti che risultano in contrasto con la normativa successiva, ma questa interpretazione non restituisce una chiarezza tale da superare l’erronea indicazione del destinatario della segnalazione.

L’indicazione del destinatario sbagliato rimane presente sia nel Codice nazionale di dipendenti, sia nei singoli codici di amministrazione, che continuano a riprodurre la disciplina contenuta all’art. 8. Le conseguenze di questa indicazione erronea sono concrete e si riversano sulla corretta applicazione della tutela del whistleblower, che, qualora segnali l’illecito al superiore gerarchico si vedrà privato della tutela della riservatezza.

Infatti, oggi con le modiche introdotte con il d.lgs. n. 24 del 30 marzo 2023[31], il whistleblower può trasmettere attraverso appositi canali la propria segnalazione: canale interno; canale esterno (gestito da A.N.A.C.); divulgazione pubbliche; denuncia all’autorità giudiziaria o contabile. Come si può constatare non viene indicato il superiore gerarchico come destinatario della segnalazione[32].

Pertanto, sebbene il D.P.R. n. 81 abbia evidenziato uno sforzo del Legislatore, questo non è stato sufficiente. Il Codice di comportamento anche se arricchito di nuove norme rimane intessuto di varie criticità che non possono essere taciute, soprattutto se riguardano il mancato coordinamento con una materia importante con quella del whistleblowing[33].

 

 

 

 

 

 


[1] V. Italia, M. Bassani, P.M. Ceccoli, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, Milano, Key Editore, luglio 2023, p. 31
[2] Art. 1, comma 2, Decreto 28 novembre 2000, Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni
[3] Art. 1, comma 3, Decreto 28 novembre 2000, Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni
[4] Art. 54, comma 1, D.lgs. n. 165/2001
[5] Art. 54, comma 3, D.lgs. n. 165/2001
[6] Art. 4, D.P.R. n. 62/2013
[7] Art.5, D.P.R. n. 62/2013
[8] Art. 6, D.P.R. n. 62/2013
[9] Art. 6, D.P.R. n. 62/2013
[10] Art.9, D.P.R. n. 62/2013
[11] Art. 11, D.P.R. 62/2013
[12] Art. 13, D.P.R. n. 62/2013
[13] V. Italia, M. Bassani, P.M. Ceccoli, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, cit., p.28ss.
[14] Art. 1, comma 2, D.P.R. N. 62/2013
[15] V. Italia, M. Bassani, P.M. Ceccoli, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, cit., p.39ss.
[16] Cassazione, Sez. Lav., n. 11160 del 9.5.2018
[17] ANAC, Linee guida in materia di Codici di comportamento delle amministrazioni pubbliche, delibera n. 177 del 19 febbraio 2020
[18] L’articolo 11 bis, “Utilizzo delle tecnologie informatiche”, è stato inserito dall’art. 1 del nuovo Decreto del Presidente della Repubblica, n. 81/2023, recante “Regolamento concernente modifiche al D.P.R. 62/2013”, il cui schema era stato approvato dal Consiglio dei Ministri in prima versione il 1°.12.2022 ed è stato parzialmente modificato, anche con riferimento all’articolo in esame, nella seconda versione, approvata il 31.5.2023.
[19] V. Italia, M. Bassani, P.M. Ceccoli, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, cit., p.199ss.
[20] Esempio esemplificativo può essere la prima situazione da Covid 19, dove la limitazione della libertà di circolazione non permetteva ai dipendenti di poter raggiungere i propri uffici.
[21] V. Italia, M. Bassani, P.M. Ceccoli, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, cit., p.183ss.
[22] Tribunale di Campobasso, n. 350 del 25 gennaio 2021
[23] L’articolo 11 ter del Codice di comportamento, la cui Rubrica recita: “Utilizzo dei mezzi di informazione e dei social media”, è stato inserito dall’art. 1 del Decreto del Presidente della Repubblica, recante “Regolamento concernente modifiche al D.P.R. 62/2013”, che è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il 1°.12.2022, rientra nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), di riforma della Pubblica amministrazione.
[24] Donini, Ragone, Dipendenti pubblici: in vigore le modifiche al Codice di Comportamento. Tutte le novità e qualche riflessione, Dipendenti pubblici: modifiche al Codice di Comportamento. Novità (forumpa.it), 14 luglio 2023
[25] Su questo articolo è intervenuto il nuovo Decreto del Presidente della Repubblica, recante “Regolamento concernente modifiche al DPR 62/2013”, che era stato approvato dal Consiglio dei Ministri il 1°.12.2022 in prima versione e il 31.5.2023 in versione definitiva, che, con riferimento all’articolo qui in esame, è rimasta immutata.
[26] V. Italia, M. Bassani, P.M. Ceccoli, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, cit., p.241ss.
[27] Si pensi, ad esempio, al mobbing tanto verticale, quanto orizzontale.
[28] V. Italia, M. Bassani, P.M. Ceccoli, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, cit., p.267ss.
[29] V. Italia, M. Bassani, P.M. Ceccoli, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, cit., p.309ss.
[30] V. Italia, M. Bassani, P.M. Ceccoli, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, cit., p.343ss.
[31] Il mancato coordinamento tra il Codice di comportamento e la materia del whistleblowing era evidente con la L. n. 179/2017, che prevedeva la trasmissione della segnalazione alla RPCT o all’ANAC.
[32] Art. 4, D.lgs. n. 24/2023
[33] Donini, Ragone, Dipendenti pubblici: in vigore le modifiche al Codice di Comportamento. Tutte le novità e qualche riflessione, cit.

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Dott. ssa Emily Pantalone

Laureata in Giurisprudenza, specializzata in Diritto Amministrativo e Scienza dell'amministrazione presso l'Università degli Studi di Teramo.

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