Dante e il diritto internazionale in Hans Kelsen

Dante e il diritto internazionale in Hans Kelsen

La riflessione giovanile di Hans Kelsen sulla filosofia politica di Dante è di particolare interesse per lo studioso, poiché consente di cogliere un profilo intellettuale del giurista praghese “eccentrico” rispetto a quello a cui si è abituati. Infatti, nella riflessione sullo Stato in Dante, Kelsen dismette i panni del giurista positivo per assumere quelli dello storico.

Le ragioni di una simile scelta si possono rinvenire innanzitutto nel clima culturale in cui Kelsen stesso si formò e nei problemi che agitavano la riflessione giuridica tedesca a cavallo del secolo. Proprio qui risiede l’importanza della riflessione giovanile per inquadrare lo sviluppo del pensiero kelseniano.

Il titolo scelto per questo contributo ha infatti un duplice significato: cronologico e scientifico. Sotto il primo profilo, vale sottolineare che l’opera in parola fu pubblicata nel 1905, quando l’Autore aveva 24 anni, e costituì una rielaborazione della sua tesi di laurea[1]. La collocazione del lavoro sul pensiero politico dantesco agli inizi del percorso intellettuale di Kelsen consente, quindi, di esplorare il momento di origine della ricerca del giurista intorno ai fondamenti del diritto e della sovranità. D’altro canto, si cercherà di dimostrare che il confronto con l’ideale di pax universalis promosso dal Poeta fiorentino ha direttamente influenzato una costante della ricerca kelseniana, ossia l’individuazione della fondazione giuridica unitaria di un ordine internazionale in grado di garantire la coesistenza pacifica tra gli Stati.

Il tema, peraltro, era ben vivo nel clima culturale in cui Kelsen si formò, già oggetto delle riflessioni del suo maestro, Georg Jellinek. La riflessione di quest’ultimo incentrò uno dei suoi snodi fondamentali proprio sul problema della fondazione del diritto internazionale, cui volle trovare un fondamento oggettivo che sfuggisse alla tradizionale concezione delle sovranità statale, risalente a Hobbes, secondo cui la volontà dello Stato sfuggirebbe concettualmente ad autolimitazioni[2].

Proprio qui si incentra uno dei punti più interessanti della riflessione di Kelsen sul pensiero dantesco: l’individuazione dei caratteri fondamentali della riflessione medievale sullo Stato e la sovranità, concetti che erano al centro anche della riflessione giuridica del suo tempo e che sarebbero stati un tratto caratterizzante in tutto il percorso di ricerca del giurista.

Come è stato acutamente messo in luce[3], il pensiero medievale conosce una vivace riflessione sulla sovranità, sulle prerogative e sui limiti che ineriscono tale concetto. Il primo pregio dell’analisi di Kelsen, soprattutto per il periodo in cui fu scritta, è stato quindi quello di rimettere al centro della riflessione le peculiarità delle elaborazioni medievali sul diritto pubblico, filtrate attraverso l’opera dantesca. Un’opera che, peraltro, lo stesso Kelsen definisce un “saggio scientifico” intorno alla natura e alla funzione dello Stato, declinato come Monarchia universale[4].

I tratti salienti dell’opera che lo studioso viennese ritiene di individuare sono essenzialmente due: da un lato, l’edificazione da parte del Poeta di una teoria del Rechtsstaat, dello Stato di diritto inteso come sistema di funzionamento del potere pubblico secondo norme giuridiche. Qui si incentra probabilmente il maggior equivoco dell’analisi kelseniana[5], dettato della sua formazione culturale e dall’emergere, sin dal suo primo lavoro scientifico, di quel metodo che avrebbe trovato il suo massimo compimento nella dottrina pura. D’altro lato, per ciò che qui più rileva, la funzione assegnata da Dante alla Monarchia universale come garante supremo della pace tocca un altro tema che sarà caro a Kelsen, quello dei rapporti tra ordinamento internazionale e ordinamenti interni degli Stati: un rapporto che lo studioso, com’è noto, ricostruì nella maturità in termini monistici.

Proprio la teoria monistica kelseniana costituisce il banco di prova più stimolante dell’analisi delle influenze dantesche sull’opera del giurista novecentesco.

I rapporti tra Monarca e poteri particolari sono oggetto dell’analisi che Dante compie nel primo libro del suo trattato, dedicato alla dimostrazione della necessità della Monarchia come autorità universale e sovraordinata rispetto ai principi territoriali.

Il ragionamento del Poeta segue il metodo scolastico proprio della filosofia medievale e prende le mosse dal principium unitatis, di matrice tomista, che postulava la necessità di ricondurre il potere politico guida della comunità ad un soggetto unico, come tale idoneo a mantenere l’unità e la concordia della res publica[6]: valori, questi, centrali per l’uomo del Medioevo, che vedeva nella divisione in partiti e fazioni la rovina della comunità politica (concezione ripresa da Aristotele e che, attraverso di lui, esercitò un’enorme influenza su tutto il pensiero politico medievale, compreso quello di Dante).

Sotto il profilo più strettamente giuridico, sono di particolare interesse i capitoli X e XI del libro I della Monarchia, nei quali Dante intende dimostrare che la giustizia tra gli uomini (e, quindi, tra le diverse entità politiche nelle quali gli uomini si aggregano) può sussistere solo riconoscendo la suprema potestà giurisdizionale ad un sovrano universale, il Monarca per l’appunto[7]. Questo perché, da un lato, le controversie tra i principi territoriali necessitano di un giudice superiore per dirimerle, e questo giudice non può che essere un Monarca che non debba a sua volta riconoscere un pari o un superiore sopra di sé[8]. Il secondo argomento si basa invece sull’idea aristotelica di giustizia come assenza di cupidigia e amore per il bene comune degli uomini: solo il Monarca, ribadisce Dante, può essere colui che sulla Terra è dotato di tali qualità. Ciò perché, essendo il suo potere universale, non può desiderarne dell’altro e, pertanto, non potrebbe essere mosso dalla sete di conquista dei regni e principati altrui (cupidigia).  Inoltre, e questo è il passaggio di maggior interesse, solo il Monarca è titolare di un rapporto immediato con gli uomini da lui governati, perché i sovrani particolari governano per mezzo di lui e, quindi, non hanno a cuore la felicità dei sudditi come può averla il Monarca, causa prima e universale di tutti i poteri pubblici[9].

Naturalmente, i postulati danteschi devono essere inquadrati nelle coordinate di riferimento concettuali proprie del pensiero medievale. Ciò che più interessa rilevare è la costruzione di una teoria della sovranità universale esercitata immediatamente sull’intera umanità, senza il diaframma dei poteri particolari (usare il termine nazionali per il Medioevo sarebbe fuorviante).

Nel commentare questi ed altri successivi passi, in particolare il cap. XIV del libro I, Kelsen si sofferma sulla concezione dantesca dei rapporti tra Stato universale e regni particolari, e sull’unità dell’ordinamento giuridico internazionale postulato dal Poeta nei termini suddetti.

Kelsen osserva che, secondo Dante, “L’unica formazione che, secondo il nostro odierno modo di vedere, avrebbe meritato il nome di Stato, è esclusivamente la Monarchia, l’impero mondiale[10]. Ancora, proprio a proposito del cap. XIV, emerge come “Per tutti gli affari comuni importanti la legislazione rimane esclusivamente riservata al monarca universale[11]. Per quanto attiene poi ai rapporti tra Monarca e sudditi, di cui al già citato cap. XI, allo studioso preme sottolineare la modernità della visione dantesca, che tende a superare i rapporti di potere feudali in vista della costruzione di un autentico diritto pubblico[12].

Facendo un balzo in avanti di trent’anni, si giunge alla pubblicazione dei Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934), l’opera che segna la piena maturità del pensiero kelseniano. Nel capitolo IX dell’opera, intitolato “Stato e diritto internazionale”, il giurista espone la sua concezione dei rapporti tra ordinamenti giuridici secondo lo schema monistico, come già si è accennato.

Sin dalle prime pagine viene enunciato il proposito ideale verso cui tendere: “Tutto il movimento tecnico-giuridico qui indicato, tende in ultima analisi a cancellare la linea di demarcazione fra diritto internazionale e ordinamento giuridico statale, di modo che lo scopo ultimo della evoluzione giuridica reale diretta a un crescente accentramento sembra essere l’unità organizzata di una universale comunità giuridica mondiale, cioè la formazione di uno stato mondiale[13]. Ossia, precisamente la Monarchia dantesca. Naturalmente, Kelsen è consapevole che una tale conformazione dell’ordinamento internazionale non si può rinvenire al suo tempo, ma tutta la sua concezione dei rapporti tra diritto internazionale e diritti statuali è diretta a dimostrare l’interdipendenza dei secondi rispetto al primo, secondo lo schema logico-deduttivo proprio del metodo normativista del giurista austriaco.

Le reminiscenze dantesche sono maggiormente identificabili in almeno due punti del ragionamento di Kelsen. Il primo attiene al rapporto tra norma giuridica internazionale e individui cittadini dei singoli Stati: il giurista postula un’imputazione diretta di diritti ed obblighi in capo agli stessi, seppur mediata attraverso l’azione dello Stato[14]. Qui è evidente un’impasse: la norma giuridica, intesa, kelsenianamente, come obbligo o come autorizzazione di comportamenti umani, può avere come logico referente solo questi ultimi[15]. D’altra parte, non è possibile per lo studioso novecentesco superare pienamente il limite concettuale rappresentato dalla conformazione dello Stato westfaliano, diaframma ineludibile tra ciò che sta fuori di esso (il diritto internazionale appunto) e ciò che sta dentro (popolo e territorio).

Un tentativo di andare oltre, di superare la “trappola” dualistica che, nelle sue forme più estreme, finisce per negare la giuridicità stessa del diritto internazionale, è proprio quello compiuto da Kelsen nella pars construens del capitolo in esame, nel quale la norma internazionale è concepita come “norma di riconoscimento” dell’ambito di validità spazio-temporale dell’ordinamento giuridico statale che, come tale, viene definito “un organo della comunità giuridica internazionale”[16]. Le norme internazionali, osserva Kelsen, definiscono i confini degli Stati, le successioni tra entità statali e, infine, mediante i trattati, delimitano anche la sfera di validità delle norme interne, definendone l’ambito di competenza[17].

In conclusione, Kelsen giunge quindi a postulare un rapporto di delegazione tra ordinamento giuridico internazionale e ordinamenti statali, all’interno del quale questi ultimi si integrano in un ordine superiore: “La dottrina pura del diritto relativizza lo stato, lo concepisce come un grado giuridico intermedio e giunge così a riconoscere una serie continua e graduale di istituzioni giuridiche che passano l’una nell’altra e che va dalla comunità internazionale universale comprendente tutti gli stati fino alle comunità giuridiche comprese nel singolo stato[18]. Quasi per un moto ciclico delle cose, sembra di poter riprendere i commenti svolti dal giovane Hans alle pagine della Monarchia, nelle quali si descrive il rapporto tra gli Stati e il Monarca (laicamente, il diritto internazionale), paragonandolo a quelli tra la suprema autorità di Mosè e i capi delle dodici tribù di Israele: “Certamente non si può trarre una suddivisione di competenza giuridicamente precisa tra Stato universale e consociazioni particolari da tutto il passo[…]Da esso risulta soltanto la situazione approssimativa dei confini tra entrambi. Questa delimitazione di competenza si trova però decisamente a favore dello Stato universale[19].

Si può quindi affermare che l’ideale dantesco ha esercitato un’influenza, o perlomeno una suggestione, sulla concezione che Kelsen maturò circa i rapporti tra ordinamento internazionale e statale, e che trovò la sua definitiva sistemazione all’interno del grande edificio della dottrina pura.

Volendo dunque tirare le fila di queste brevi riflessioni, si possono svolgere due osservazioni. La prima è che, almeno a far tempo dalla seconda metà del secolo passato, le tendenze monistiche prefigurate da Kelsen hanno trovato un diffuso terreno di coltura, con l’avvento in particolare di quell’originalissimo esperimento di “ordinamento di nuovo genere” rappresentato dall’Unione europea, il quale compenetra sempre più in profondità quelli degli Stati membri. Più in generale, si pensi a quante delle materie un tempo prerogativa dei codici nazionali, dai contratti, al diritto di famiglia, a quello commerciale, sono oggi regolati in interi settori da convenzioni internazionali. La seconda, è invece la constatazione che né l’edificio teorico dantesco, né quello, di sei secoli successivo, della dottrina pura, sono riusciti  a evitare del tutto di confrontarsi con la realtà dei rapporti di forza sottesi alla cogenza delle norme internazionali: il Poeta dedica l’intero secondo libro della sua opera a dimostrare che il popolo romano è di diritto titolare dell’imperium, in quanto ha vinto in armi tutti gli altri[20]. Kelsen, più blandamente, si limita ad ammettere che l’effettività delle norme poste è presupposto ineludibile della loro validità[21]: effettività che sta a significare la capacità, extragiuridica, di porre la norma con un atto di violenza originaria. È qui che continua ad agitarsi il dilemma della “Gorgone del potere”.

 

 

 

 


[1] V. Frosini, Prefazione all’edizione originale Kelsen e Dante, in Atti del Convegno su Dante e la Magna Curia, Palermo 1965 p. 21. L’Autore fa peraltro osservare che la Monarchia era l’opera di Dante meglio conosciuta nel mondo tedesco. La prima edizione risale infatti al 1559, e precede di circa due secoli quella della Commedia, avvenuta solo nel 1767. Cfr. Ivi p. 17.
[2] G. Scotto Prefazione in G. Jellinek-La natura giuridica degli accordi fra Stati. Contributo all’edificio giuridico del diritto internazionale 2012
[3] M. Fioravanti Costituzione Bologna 2015 p. 46
[4] V. Frosini, op. cit. p. 22
[5] Come fa notare M. Fioravanti op. cit., le limitazioni giuridiche che i pensatori medievali riconoscevano al potere monarchico non devono essere anacronisticamente intese come la costituzionalizzazione del potere in senso moderno, ma come i limiti che la consuetudine, espressione della comunità politica nel suo insieme, impone all’azione sovrana.
[6] Ivi p. 39
[7] Dante Monarchia, Milano 1985 pp. 19-25
[8] Ibidem
[9] Ibidem
[10] H. Kelsen, Lo Stato in Dante, Milano-Udine 2017 p. 165
[11] Ivi p. 166
[12] Ivi p. 167
[13] H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino 2000, pp.153-154
[14] Ivi pp. 152-153
[15] Inoltre, sottolinea sempre Kelsen, in alcuni casi le norme internazionali non passano comunque attraverso la mediazione statale (ciò è ancor più vero oggi, dopo l’affermazione del diritto penale internazionale). Cfr. Ibidem
[16] Ivi p. 166
[17] Ivi p. 167
[18] Ivi p. 168
[19] H. Kelsen, Lo Stato cit. p. 166
[20] Dante, Monarchia cit. p. 75 ss.
[21] H. Kelsen, Lineamenti cit. pp. 158-159

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Giacomo Busca

Laureato presso l'Università degli Studi di Milano nel 2017 con votazione 110/110 e lode. Abilitato all'esercizio della professione forense presso la Corte d'Appello di Torino in data 9.11.2020

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