La “extreme emotional disturbance” come strategia difensiva nei tribunali statunitensi

La “extreme emotional disturbance” come strategia difensiva nei tribunali statunitensi

Tra i primi Paesi occidentali che hanno dovuto, per forza di cose, fare i conti con i problemi legati all’interpretazione del proprio diritto interno da parte degli stranieri sono stati gli Stati Uniti d’America, paese ove è nato proprio il concetto di multiculturalità per antonomasia dove la dottrina, sollecitata da un’abbondante casistica giurisprudenziale, ha avviato un’ampia ed approfondita riflessione sui reati commessi per motivi culturali dagli appartenenti a gruppi culturali di minoranza (immigrati e, in misura minore, autoctoni d’America: indiani ed
eschimesi).1

Tali studi condotti dalla prassi giurisprudenziale e della dottrina statunitense, potranno essere utili anche all’osservatore italiano sul trattamento da riservare a tali reati.2

Una siffatta pluralità di culture affermatasi nel sociale, non poteva rimanere a lungo fuori dalle aule di giustizia: numerosi sono pertanto i casi giudiziari di rilevanza penale in cui l’imputato invoca il suo background culturale, la differenza della sua cultura d’origine dalla cultura americana di maggioranza, per fornire una spiegazione del suo
comportamento criminoso, con lo scopo di ottenere dai giudici un trattamento “più benevolo”.3

Dall’analisi della casistica giurisprudenziale trova conferma il fatto che il termine “cultural defense” non indica un preciso istituto giuridico, ma si riferisce piuttosto ad una strategia difensiva che, facendo leva sulla diversità culturale dell’imputato, può assumere, a seconda delle peculiarità del caso concreto e delle specifiche scelte dell’avvocato difensore , la veste tecnico-giuridica più varia al fine di ottenere la piena assoluzione, ovvero la derubricazione del reato contestato, o ancora, un trattamento sanzionatorio più mite.4

Osservando la casistica giurisprudenziale americana, è pertanto agevole constatare che la motivazione culturale ha assunto (o per lo meno ha cercato di assumere) rilievo:

1) in sede di plea bargaining, ovvero un istituto tipico del diritto processuale americano che consiste in sostanza in un accordo-patteggiamento sottoscritto dalle parti e ratificato dal giudice al fine di indurre il “prosecutor” (attore, accusatore) ad offrire una definizione anticipata del procedimento favorevole all’imputato;5

2) in sede dibattimentale, al fine di ottenere il riconoscimento di una criminal defense.6 In particolare un esonero parziale o totale della responsabilità tramite vere e proprie eccezioni processuali;

3) in sede di sentencing (sentenza), al fine di ottenere una più benevola commisurazione della pena.7

Le modalità con le quali può essere fornita una “prova culturale” possono essere di 2 tipologie (utilizzabili anche congiuntamente). Infatti all’imputato non basta invocare la sua diversità culturale ma deve anche provarla i contenuti in relazione al caso concreto. Egli potrà farlo:

a) chiamando a testimoniare alcuni esperti come consulenti tecnici di parte, psicologi esperti di psicologia transculturale, antropologi ecc.

b) chiamando a testimoniare altri membri del suo gruppo culturale.8

Per quanto riguarda l’ammissibilità e rilevanza della prova culturale devono riguardare la persona dell’imputato sotto un triplice profilo: 1) il motivo della sua presenza sul suolo americano, escludendo tutti quegli immigrati che si sono trasferiti negli Stati Uniti volontariamente e ricomprendendo dunque tutte quelle categorie di autoctoni americani, afro- americani e i rifugiati. 2) Il suo grado di integrazione nella cultura americana. Infatti se l’imputato presenta ormai un alto grado di integrazione non potrà invocare la sua cultura di origine perché si è inevitabilmente allentato e scardinato ed il soggetto è ormai più impregnato nella cultura degli Stati Uniti che in quella di origine. Tale grado di integrazione potrebbe essere dettato da alcuni fattori come la durata del soggiorno in America (anche se tale periodo è del tutto soggettivo perché può variare di persona in persona. C’è chi si adatta quasi subito e chi lo fa dopo diversi anni); Eventuale frequentazione di scuole o altri istituti di istruzione in America ecc.9 3) Che vi sia un’effettiva relazione fra la cultura di origine dell’imputato e il fatto commesso.10

Questi alcuni dei casi che hanno interessato la giustizia statunitense:

1) CASO HELEN WU (1991)  – caso di omicidio dei figli e tentativo di suicidio da parte del coniuge tradito

Helen Wu, donna di 36 anni, lascia la Cina per trasferirsi negli Stati Uniti a seguito di una promessa di matrimonio fattagli da un tal Gary Wu che viveva già negli Stati Uniti. La coppia ha un figlio di nome Sidney ma ben presto si scopre che gli intenti di Gary Wu erano quelli di sposarla, tra l’altro ben 9 anni dopo dalla nascita del loro figlio, solo per questioni economiche. Gary conduceva infatti una vita parallela avendo anche un’amante a cui aveva intestato la loro casa. Helen presa dallo sconforto e dalla depressione uccide il figlio Sidney e tenta a sua volta il suicidio. In primo grado la donna verrà condannata per murder (Negli Stati Uniti vi è una una prima distinzione tra murder e manslaughter: si tratta di due distinti reati entrambi rientranti nella categoria dell’omicidio, inteso come criminal homicide, poiché il fatto materiale di entrambi è l’uccisione di un uomo. Il murder è un reato più grave del manslaughter, dal quale si differenzia tanto per circostanze soggettive attinenti all’autore del reato quanto per circostanze oggettive relative alla modalità di esecuzione dell’azione criminosa. Il murder può essere sanzionato con pene molto pesanti, che possono arrivare all’ergastolo fino alla pena di morte negli stati in cui è prevista. Con il giudizio di Appello invece, il giudice tenne in considerazione il suo background culturale ed il fatto che l’omicidio sia avvenuto a causa di uno stato di “extreme emotional disturbance”. Secondo la difesa, sostenuta per altro da esperti di psicologia transculturale, la donna avrebbe agito per una sorta di senso di responsabilità verso il figlio che se fosse sopravvissuto, avrebbe avuto un destino di abbandono e di trascuratezza. Questo, insieme allo stato mentale precario della donna, hanno convinto i giudici a riconoscerla colpevole semplicemente di reato di “voluntary manslaughter” con conseguente riduzione di pena ad 11 anni di detenzione.11

2) CASO METALLIDES (1974) – omicidi per causa d’onore

A Miami, Florida, nel 1974 un immigrato di origine greca, Kostas Metallides, uccide il suo miglior amico dopo aver scoperto che questi aveva stuprato sua figlia. Chiamato a rispondere di tale omicidio, Metallides invoca la defense di “temporary insanity”, a sostegno della quale chiama a testimoniare ben nove psichiatri. Tale richiesta fa leva sulla sua cultura d’origine e, in particolare, sulla concezione dell’onore ivi diffusa, la quale avrebbe esercitato una pressione irresistibile su Metallides, giacché, osservano i suoi avvocati , “la legge del paese d’origine ti impone di non aspettare la polizia se tua figlia è stata stuprata”. Tale argomentazione verrà accolta dalla Corte, la quale lo riterrà “non colpevole perché temporaneamente incapace”.12

3) CASO PATRICK “HOOTY” CROY (1990) – omicidio legato alle condizioni dei nativi americani

La sera del 16 luglio 1978, Patrick “Hooty” Croy, un giovane nativo Americano, residente a Yreka, nel nord della California, insieme ad altri giovani indiani fa una sosta presso un emporio per procurarsi cibo, bevande e sigarette per una festa. Tra Croy ed il commesso del negozio scoppia, tuttavia, una lite, a causa della quale il gruppo di Natives, allontanatosi in auto, viene inseguito da ben quindici volanti della polizia e ventisette poliziotti. Giunti presso l’abitazione della nonna di Croy, mentre i poliziotti, armati ‘fino ai denti’, circondano la casa, Croy si procura una pistola dalla quale spara alcuni proiettili, uno dei quali colpisce un poliziotto uccidendolo. Condannato in primo grado per murder alla pena di morte, in appello il suo avvocato chiede il riconoscimento della self-defense. A tal fine, e in particolare al fine di provare la “ragionevolezza” del timore di Croy di trovarsi in una situazione di imminente pericolo di vita a causa dell’accerchiamento dei poliziotti, il suo avvocato chiede di poter dimostrare, attraverso testimonianze di esperti antropologi, psicologi e di altri Natives, la condizione sociale e psicologica degli indiani nella zona di Yreka, dove per tutto il XIX secolo i Natives avevano subito, dai coloni anglosassoni alla ricerca dell’oro, soprusi di ogni tipo al punto che, oggigiorno, in quella zona “ogni indiano è consapevole che in qualsiasi momento il latente istinto di razzismo genocidiale contro gli Indiani potrebbe riemergere sotto forma o di violenze da parte dei bianchi, o di aggressioni da parte della polizia”. A seguito di tali “testimonianze dell’esperienza culturale” vissuta dagli indiani della zona di Yreka, l’avvocato riesce ad ottenere che la giuria applichi la selfdefense. La giuria riconosce che il timore di Croy di essere in imminente pericolo di vita era “oggettivamente ragionevole in quelle circostanze”, con conseguente sua piena assoluzione.13

4) CASO JONES (1985) – questione legata alle “parti intime”

Jack Jones, un eschimese cinquantasettenne dell’etnia Inupiat, durante la festa di compleanno di un suo nipote intraprende per gioco una lotta con il nipote stesso e con un suo amichetto (non appartenente al gruppo degli eschimesi). Durante tale lotta “per gioco” , dopo aver cercato di sfilare i pantaloni ai due bambini, Jones li tocca ripetutamente le parti intime, tentando di “strizzare” i loro testicoli. Chiamato a rispondere di abusi sessuali su minori, Jones si difende sostenendo di essere caduto in un errore di fatto per aver letto i dati della realtà con gli occhiali della sua cultura d’origine, senza così rendersi conto che il bambino non eschimese, dalla cui famiglia era partita la denuncia di abusi sessuali, non comprendeva il significato di quei toccamenti, e non intendeva stare al gioco. A sostegno di tale tesi difensiva, l’imputato produce le testimonianze di un esperto di lingua Inupiat, di due antropologi esperti di cultura eschimese, nonché di altri membri del suo gruppo etnico, dalle quali risulta che il suo comportamento era assolutamente accettabile per la sua cultura d’origine e privo di qualsiasi valenza sessuale, in quanto la lotta ingaggiata con i bambini era destinata ad insegnare loro a ridere delle avversità e a sapersi difendere prontamente. La Corte, accogliendo tali argomentazioni difensive, lo assolve.14 Non in tutti i casi in cui si è cercato di invocare a proprio vantaggio l’esimente del reato culturalmente motivato il giudice ha emanato una sentenza di assoluzione o comunque di riduzione di pena. In molti altri casi le motivazioni legate alla propria cultura di origine non sono state ritenute sufficienti.

 

 

 

 

 

 


1 Basile Fabio, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società
multiculturali Giuffre, 2010. Cit. pag. 262.
2 Idem.
3 Ibidem. Cit. pag 263/264.
4 Basile Fabio, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società multiculturali Giuffre, 2010. Cit. pag. 310.
5 Idem.
6 Idem.
7 Basile Fabio, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società multiculturali Giuffre, 2010. Cit. pag. 311.
8 Ibidem. Cit. pag. 320/321.
9 Basile Fabio, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società multiculturali Giuffre, 2010. Cit. e lettura approfondita delle pagine 321 a 326.
10 Idem.
11 Basile Fabio, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società multiculturali Giuffre, 2010. Caso da pag. 275 a pag. 278.
12 Basile Fabio, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società multiculturali Giuffre, 2010. Caso pagine 282 e 283.
13 Basile Fabio, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società multiculturali Giuffre, 2010. Cit. pag. 290.
14 Basile Fabio, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società multiculturali Giuffre, 2010. Cit. pag. 295 e 296.

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