GPA: avere un figlio è un diritto?

GPA: avere un figlio è un diritto?

Sommario: 1. Questioni (preliminari) di filosofia del diritto – 2. Questioni sulla filiazione – 3. Questioni sulla indisponibilità dei corpi – 4. Diritto e questione sociale – 5. Conclusioni

 

Abstract. Negli ultimi mesi nella società italiana c’è stato un gran parlare della gestazione per altri. Alcuni a favore sollevano l’eccezione della “libertà di scelta”. Alcuni contro puntano sulla questione dello sfruttamento del corpo delle donne.

Solitamente tertium non datur. Non può esistere una posizione “tiepida” a favore o contro, tra le due argomentazioni.

Ma dal punto di vista giuridico, una terza analisi può essere affrontata spostando l’attenzione a quello che in narrativa si chiama “punto d’osservazione zero”. Cioè guardando il fenomeno in maniera estremamente generale e astratta, cercando di osservare tutte le componenti.

1. Questioni (preliminari) di filosofia del diritto

Il dato di partenza è uno: non ci si può interrogare se la gestazione per altri sia giusta o sbagliata in re ipsa. Questo genere di valutazione tiene conto necessariamente di un postulato morale. Lo stato di diritto pone l’accento sui principi laici e, parafrasando Kelsen, di pragmaticità giuridica. Lo stato etico è altra cosa, ed è antitetico allo stato di diritto.

Bisogna dunque porsi il problema da un altro punto di vista, prima di arrivare a valutazioni su corpi eccetera.

Alla base, si parla di fenomeni su cui porre una normativa, tutrice o sanzionatoria. La questione è: quale posizione giuridicamente è sostenibile?

Facciamo un passo indietro, su questioni di filosofia e teoria del diritto. L’autodeterminazione del soggetto è frutto di un esercizio di libertà. A sua volta, la libertà è la facoltà di esercizio di un diritto.

La facoltà è connessa a doppio filo col diritto: si tratta della libera scelta, e quindi dell’autodeterminazione, di esercitare o meno un diritto.  La scelta, e quindi la facoltà d’esercizio, è volontà connessa al diritto, ma non è mero esercizio volitivo, che può anche esulare dai diritti da tutelare.

Perché vi sia autodeterminazione, tuttavia, le libertà, e quindi i diritti, devono essere equilibrati. Non può esistere autodeterminazione, cioè, per chi vede la propria facoltà di esercizio di un diritto, preclusa o squilibrata per qualsiasi motivazione.

L’autodeterminazione di una pluralità di soggetti si ha nel momento in cui essi scelgono, ciascuno liberamente, se esercitare o meno i propri diritti, e solo se la facoltà di esercitarli non sia preclusa o squilibrata rispetto alle facoltà in capo a terzi. Sul punto, l’approfondimento formidabile di Fabio Macioce in “Ordine pubblico e autodeterminazione” è dirimente.

Interroghiamoci dunque su chi sia l’effettivo depositario del diritto, e quale sia il diritto tutelato o da tutelare.

2. Questioni sulla filiazione

Il fine ultimo della gestazione per altri è garantire a terzi un figlio geneticamente compatibile. La domanda quindi è: avere un figlio genetico è, di per sé, un diritto?

Il diritto italiano, come quasi tutti gli ordinamenti nel mondo occidentale, tutela il concepito e il figlio. È così da millenni.

Già nel diritto romano, il figlio non ancora nato (concepito) era già depositario di diritti e tutele. Diritti che acquistava compiutamente all’atto della nascita, come argomentato ampiamente nella monografia di Maria Pia Baccari “La difesa del concepito nel diritto romano”.

Nel diritto contemporaneo, la posizione non è cambiata. I diritti, soprattutto quelli di natura patrimoniale, del concepito sono tutelati sin da prima della nascita, ma divengono effettivi solo all’atto della nascita.

L’attuale formulazione dell’articolo 1 del codice civile non lascia spazio a fraintendimenti: “I diritti che la legge riconosce al concepito sono subordinati all’evento della nascita”. L’acquisizione effettiva dei diritti, dunque, è tutelata per il concepito, ma è soggetta a condizione sospensiva. Con la nascita il concepito diventa soggetto di diritto e acquisisce, insieme alla capacità giuridica, i diritti che l’ordinamento gli ha riservato.

Tutti gli interventi normativi sulla genitorialità, sia di vantaggi economici e fiscali che di vantaggi lavorativi, sono meramente finalizzati alla tutela del figlio, più che del genitore.

I bonus maternità e i congedi parentali, per esempio, non sono un sostegno indirizzato tout court ai genitori. Sono finalizzati e pensati per il benessere della crescita, e quindi della cura, del figlio.

Dopotutto, la potestà genitoriale non è una posizione giuridica soggettiva di tipo attivo, come chiarisce anche Francesco Gazzoni. Assume una condizione ibrida in cui, pur esercitando una potestas sul singolo soggetto, chi ne è investito è tenuto ad adempiere ad obblighi e doveri che sorgono per la qualità di genitore e ai soli fini e a tutela esclusiva della crescita del figlio.

Un figlio non è, quindi, un diritto per i genitori. Al contrario, sono i genitori (o il genitore) a essere un diritto per il figlio.

Il principio su cui si fonda la genitorialità, naturale o mediante adozione, è infatti questo. Garantire il diritto di un nato a una famiglia (ottocentesca, monogenitoriale, omogenitoriale eccetera) capace di crescerlo mantenendolo, istruendolo, educandolo e assistendolo moralmente, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni.

È quindi un figlio genetico un diritto? Assolutamente no! Un figlio è una responsabilità giuridica, materiale e immateriale, di cui sono investiti i genitori.

3. Questioni sulla indisponibilità dei corpi

Atteso dunque che avere un figlio non è un diritto per uno, due o più adulti, cosa continuerebbe a legittimare la gestazione per altri?

Di base, noi sappiamo che gli atti di disposizione del proprio corpo raramente sono leciti. L’integrità fisica e psichica è bene, ancorché immateriale,  irrinunciabile. Da qui consegue l’orientamento, pressoché unanime, sull’indisponibilità del corpo come bene di proprietà. Il corpo non è infatti un bene tout court, ma bensì un elemento inscindibile dell’esistenza umana. Da qui discendono le limitazioni fortissime sugli atti di disposizione del corpo.

Quand’anche ammettessimo che il corpo sia un bene disponibile, subentrano le ragioni, da valutare giuridicamente, per cui una donna possa essere legittimata a farsi “locare” per nove mesi per soddisfare un non-diritto di terzi.

Qui entrano in gioco la volontà e l’economicità. La volontà è quella di chi desidera un figlio che condivida parte del patrimonio genetico di almeno un membro della coppia “sterile”. O, in alternativa, di chi non è nelle condizioni di poter adottare ritualmente.

L’economicità è una componente non irrilevante. Perché si parla di economicità finanziaria ed economicità tempistica rispetto ai procedimenti di adozione. Così, invece di ricorrere all’adozione, italiana o internazionale, spendendo anche decine di migliaia di euro e anni per diventare a tutti gli effetti giuridici genitori, si ricorre alla gestazione per altri.

Atto che viene compiuto per lo più in paesi “poveri” o in paesi sviluppati ma mediante l’utilizzo di una donna che versi in stato di bisogno. E che, per ciò, accetti di diventare una madre surrogata.

Così, con poche migliaia di euro, si fa portare a una donna un figlio in grembo per nove mesi e, salvo clausole contrattuali assurde (come il diritto di recesso esercitabile negli Usa se il nato non corrisponde alle aspettative dei committenti), si prende questo neonato con sé.

Senza scadere nel moralismo da stato etico, e rimanendo nella ineludibilità dei fatti osservabili dal diritto, è evidente che sussista una disparità assoluta in questa forma contrattuale.

Ogni gravidanza comporta mutazioni e rischi per la donna, oltre che per il concepito. E si tratta di una condizione “contrattualmente” debolissima per la donna. Il meccanismo, infatti, fa leva sullo stato di bisogno della donna nella quasi totalità dei casi. La quale accetta non di acquistare un modem a rate, e se non le va più perché è diventato estremamente oneroso o difficoltoso nel corso dei mesi, recede e paga una penale.

Una puerpera in molti casi è costretta a non interrompere la gravidanza. Sia per obbligo contrattuale sia perché spesso la legge, in quel determinato paese, non permette l’aborto.

Esiste dunque uno squilibrio “contrattuale” che non è riequilibrabile con strumenti giuridici. Al netto di qualsiasi possibile discussione sulla scelta, in termini brutalmente giuridici, non è possibile riequilibrare uno squilibrio abnorme in cui sono in ballo da un lato solo oneri economici e dall’altro gravami umani, sociali, esistenziali e sanitari.

4. Diritto e questione sociale

Sovente, la gestazione per altri viene paragonata al mercato illecito degli organi. In parte il collegamento non è del tutto fuorviante.

In entrambi i casi, infatti, un soggetto in stato di bisogno fa mercimonio di sé mettendo a repentaglio, insieme alla sua vita, anche la sua integrità fisica e psichica.

Il meccanismo è analogo, benché da un lato ci sia una cessione tout court della parte organica, dall’altro un suo “impiego pro tempore”.

Ciò che rileva sempre è lo stato di bisogno in cui versa chi accetta questo scambio. Dopotutto, personalità economicamente benestanti, ancorché favorevoli alla gestazione per altri, non risulta che si siano mai prestate a portare avanti una gravidanza per conto terzi.

Rileva quindi lo stato di bisogno e necessità materiale in cui versano le donne, o le ragazze, che accettano. Si tratta dunque di una scelta obbligata. O meglio: di una non scelta.

Nel caso della gestazione per altri, non c’è esercizio di libertà, conseguente a un diritto. Non esiste alcuna autodeterminazione. Sussiste, piuttosto, l’accettazione di condizioni eterodeterminate, facenti leva su uno stato di necessità, per adempiere al desiderio di qualcuno di avere un figlio con parte del proprio patrimonio genetico.

E questo, come già chiarito, non è un diritto.

5. Conclusioni

In conclusione, abbiamo visto che avere un figlio non è un diritto, e che volerlo non è esercizio di libertà, e quindi facoltà esercitata di un diritto. Abbiamo anche osservato che le donne che “accettano”, ma non scelgono, di portare avanti una gravidanza per conto terzi lo fanno quasi esclusivamente per stato di bisogno economico.

La domanda finale, dunque, è: che atteggiamento deve avere l’ordinamento nei confronti della GPA?

La gestazione per altri rappresenta già reato, in Italia come in diversi altri paesi occidentali e di cosiddetto civil law. L’ordinamento ha dunque la necessità non solo di “colpire” chi commetta questo reato, ma soprattutto di non porre in essere le condizioni perché tale fenomeno proliferi.

In altre parole, deve usare dei deterrenti che “aprano” e non solo che affliggano. Questi deterrenti sono essenzialmente di duplice natura. Da un lato legati alla filiazione, dall’altro legati alla lotta contro la povertà.

Occorre infatti che le famiglie, qualsiasi forma esse abbiano, possano accedere più semplicemente, più rapidamente e meno onerosamente all’adozione. Rendere l’adozione più accessibile, anche per persone singole e per coppie omogenitoriali, è un buon punto di partenza. Soprattutto, ridurre la burocrazia e i costi delle procedure. Tutto finalizzato a garantire il diritto di un nato ad essere cresciuto da uno o due genitori.

Occorre inoltre intervenire in maniera massiccia, e non solo in Italia, contro la povertà. Non, però, permettendo lo sfruttamento dello stato di bisogno e povertà o, semplicemente, “risarcendo” chi versa in questi stati per il fatto di essere bisognosi o poveri. Altresì, fornendo strumenti materiali affinché chi vive in stato di bisogno o di povertà possa emanciparsi da questa condizione, senza farsi sfruttare.


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Mattia Giuseppe Maria Carramusa

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