Il concetto giuridico di “azienda”

Il concetto giuridico di “azienda”

Secondo quanto previsto dall’art. 2555 c.c., l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.

La concezione c.d. unitaria attribuisce all’azienda valenza giuridica autonoma rispetto ai beni che la compongono, rappresentandola come un’entità diversa ed ulteriore rispetto ai medesimi, sulla quale l’imprenditore vanterebbe un diritto distinto da quello concernente quest’ultimi.

Nell’ambito di tale interpretazione, in particolare, vi è chi ritiene che l’azienda sia da identificarsi nell’organizzazione adottata dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa e dunque debba essa considerata alla stregua di un bene immateriale.

Tale opinione risulta difficilmente condivisibile: in primo luogo, infatti, si deve osservare che l’organizzazione non ha esistenza autonoma rispetto ai beni che la compongono e quindi non è suscettibile di costituire oggetto di diritti separatamente dagli stessi; d’altra parte, salva l’ipotesi che  ciò costituisca un atto di concorrenza sleale, chiunque potrebbe riprodurre le modalità organizzative con le quali è esercitata l’impresa, con la conseguenza che all’imprenditore non verrebbe assicurata la tutela che la legge riconosce al titolare di un bene immateriale, ovvero il diritto all’uso esclusivo del bene.

All’interno della considerazione unitaria dell’azienda, poi, vi è chi la definisce come un’universalità: secondo alcuni sarebbe da intendersi come un’universalità di diritto, come tale ricomprendente, oltre ai beni materiali, anche tutti i rapporti giuridici inerenti all’attività di impresa; secondo altri, invece, si tratterebbe di un’universalità di fatto, comprensiva esclusivamente dei beni in senso stretto.

Per la concezione unitaria dell’azienda, dunque, l’imprenditore godrebbe di un diritto di proprietà sulla stessa, diverso ed ulteriore rispetto a quello sussistente sui singoli beni che la compongono.

Di contrario avviso è invece la teoria c.d. atomistica, la quale nega autonomia giuridica all’azienda, identificandola nell’insieme dei beni che la costituiscono.

Secondo l’impostazione atomistica, quindi, la proprietà dell’azienda di cui parla il legislatore non sarebbe altro che la titolarità delle diverse situazioni giuridiche che spettano all’imprenditore su ciascuno dei beni che la compongono.

Ai sensi dell’art. 2556, comma1, c.c., per le imprese soggette a registrazione i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda devono essere provati per iscritto, salva l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che la compongono o per la particolare natura del contratto. 

Secondo l’impostazione prevalente, ai fini della qualificazione di un negozio come contratto di trasferimento o di concessione in godimento dell’azienda, con conseguente operatività della disciplina di cui agli articoli 2556 e seguenti del codice civile, occorre aver riguardo all’oggettiva consistenza dei beni trasferiti.

Affinché un contratto possa essere considerato alla stregua di un trasferimento di azienda, dunque, occorre che abbia ad oggetto quel complesso di beni che consente all’acquirente di essere immesso nell’ambito di attività cui l’azienda si riferisce, permettendogli così di proseguire l’attività di impresa eventualmente iniziata dall’alienante.

Il trasferimento o la concessione in godimento dell’azienda, quindi, implica che oggetto del contratto siano tutti i beni necessari all’esercizio dell’azienda ceduta, con esclusione, dunque, di tutti quei beni che non si rivelino a ciò indispensabili, i quali, sebbene utilizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, possono dallo stesso essere esclusi dalla cessione.

Tali contratti, come previsto dal comma 2 dell’art. 2556 c.c., redatti in forma pubblica o per scrittura privata autenticata, devono essere depositati per l’iscrizione nel registro delle imprese, nel termine di trenta giorni, a cura del notaio rogante.

Come osservato da attenta dottrina, devono considerarsi soggette a registrazione, anche dopo l’entrata in vigore della disciplina sul registro delle imprese, solo quelle aziende che dovevano essere registrate secondo il disegno originario del codice, ovvero le imprese commerciali medio/grandi.

I negozi aventi ad oggetto l’azienda sono quindi a forma libera, salvo che una determinata forma sia richiesta dalla particolare natura dei beni trasferiti o dal tipo di contratto stipulato, ovvero sia imposta dalla esigenza di procedere all’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di trasferimento o di concessione, essendo in questo caso necessario l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata.

La previsione della forma scritta ad probationem per i contratti di trasferimento o di concessione in godimento dell’azienda relativa ad imprese soggette a registrazione risulta pertanto superflua, posto che la necessità di procedere all’iscrizione di tali atti nel registro delle imprese ne impone la forma scritta ad substantiam, ovvero l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata.

L’iscrizione nel registro delle imprese della cessione di azienda assolve ad una funzione di pubblicità dichiarativa, risultando infatti necessaria ai fini dell’opponibilità della cessione nei confronti dei terzi, alla stregua della trascrizione nei registri immobiliari richiesta per il trasferimento della proprietà dei beni immobili.

Secondo quanto sancito dall’art. 2193 c.c., l’iscrizione nel registro delle imprese impedisce ai terzi di opporre l’ignoranza della cessione; di contro, la mancata iscrizione impedisce a colui il quale è obbligato a richiederla di opporre ai terzi l’avvenuta cessione, a meno che non riesca a dimostrare che gli stessi ne fossero comunque a conoscenza.

Le norme in materia di cessione di azienda sono finalizzate a garantire una certa continuità nell’esercizio dell’attività imprenditoriale: il trasferimento o la concessione in godimento dell’azienda, infatti, comporta la successione nei contratti, nei crediti e nei debiti relativi all’azienda ceduta.

Come previsto dall’art. 2558 c.c., in particolare, se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio della stessa che non abbiano carattere personale.

Devono considerarsi tali sia i contratti c.d. aziendali, ovvero aventi ad oggetto il godimento di quei beni non appartenenti all’imprenditore e da lui acquisiti per lo svolgimento dell’attività di impresa, sia i contratti c.d. di impresa, i quali, pur non avendo come oggetto diretto beni aziendali, sono attinenti all’organizzazione dell’impresa.

La successione dell’imprenditore nei rapporti contrattuali inerenti all’azienda non aventi carattere personale, osserva la giurisprudenza, può trovare applicazione, oltre che nelle ipotesi di alienazione, usufrutto e affitto d’azienda, in tutti i casi in cui ricorra la sostituzione di un imprenditore ad un altro nell’esercizio dell’impresa per un fatto voluto dalle parti, o da queste previsto, ed in relazione al quale abbiano potuto disporre della sorte dei contratti a prestazioni corrispettive inerenti l’azienda ancora non completamente eseguiti.

Al contrario, devono invece escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 2558 c.c. quelle ipotesi in cui il trasferimento dell’azienda sia la conseguenza diretta di un fatto non negoziale o la conseguenza solo mediata di una fattispecie negoziale.

La successione dell’acquirente nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda è un effetto automatico del trasferimento dell’azienda e prescinde quindi da una manifestazione di volontà delle parti ulteriore rispetto al consenso al trasferimento, potendo la volontà di queste rilevare solo al fine di escludere tale subentro.

L’esclusione non è tuttavia possibile con riguardo ai contratti essenziali per la continuazione dell’attività aziendale; diversamente, infatti, l’atto non potrà essere qualificato come trasferimento di azienda ma come cessione di singoli beni aziendali.

In altri termini, il trasferimento dell’azienda comporta la successione automatica con riferimento a tutti i contratti inerenti l’esercizio dell’azienda, anche qualora cedente e cessionario non l’abbiano espressamente prevista e anche in relazione a quei contratti di cui il cessionario ignorava l’esistenza.

L’art. 2558 c.c. tutela dunque la posizione dell’acquirente ed il suo interesse a subentrare nei contratti in corso, derogando alla disciplina civilistica in tema di cessione del contratto posta in essere dall’art. 1406 c.c., il quale consente la sostituzione nel rapporto contrattuale solo qualora vi sia il consenso del contraente ceduto.

Dalla successione sono tuttavia esclusi i contratti c.d. personali: secondo alcuni, devono intendersi come tali quei negozi in cui assumono particolare rilevanza l’identità e le qualità personali dell’imprenditore alienante, le quali sono stati determinanti del consenso dell’altro contraente.

Secondo altri autori, al contrario, sarebbero a carattere personale quei contratto c.d. personalissimi, ovvero che dipendono da scelte personali dell’imprenditore.

Per la tesi dominante, che ritiene a carattere personale i contratti stipulati dal terzo con specifico riferimento alla persona dell’imprenditore, si ritiene che siano tali i contratti a prestazione oggettivamente o soggettivamente infungibile.

In tali ipotesi, dunque, ai fini del trasferimento del contratto è necessario il consenso del contraente ceduto, secondo la regola generale in materia di cessione del contratto.

Il comma 2 dell’art. 2558 c.c. consente al terzo contraente di recedere dal contratto entro 3 mesi dalla notizia del trasferimento in presenza di una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante.

Secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza, sussiste una “giusta causa” di recesso quando il terzo contraente, qualora avesse conosciuto quale sarebbe stata la nuova parte contrattuale, si sarebbe rifiutato di pervenire alla conclusione del negozio, stante la mancanza, in capo al cessionario, di idonee garanzie circa il regolare adempimento delle obbligazioni contrattuali assunte. L’onere di dimostrare tale circostanza grava sul terzo che intende recedere.

Qualora il terzo eserciti il diritto di recesso, la giurisprudenza ha precisato che la parte alienante è responsabile solo nei confronti del soggetto acquirente e non nei riguardi del contraente ceduto, al quale la legge accorda quale unica forma di tutela il diritto di recesso.

L’esercizio del recesso comporta la risoluzione del rapporto contrattuale con effetto ex nunc, mentre minoritaria è la tesi secondo cui il recesso determinerebbe un ritrasferimento del rapporto contrattuale in capo all’alienante.

Una disciplina specifica vale per il contratto di locazione: l’art. 36 della l. n. 392/78 prevede che il conduttore può sublocare l’immobile o cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore, purché venga insieme ceduta o locata l’azienda, dandone comunicazione al locatore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, il quale può opporsi, per gravi motivi, entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione. Nel caso di cessione, il locatore, se non ha liberato il cedente, può agire contro il medesimo qualora il cessionario non adempia le obbligazioni assunte.

Per l’orientamento prevalente accolto dalla giurisprudenza, dunque, l’alienazione dell’azienda esercitata in un immobile adibito ad uso commerciale non comporta l’automatica cessione del contratto di locazione, in quanto gli artt. 2558 c.c. e 36 l. n. 392/78 consentono ma non impongono all’acquirente dell’azienda il subentro nel contratto di locazione.

Secondo tale concezione, dunque, nel silenzio dell’atto di trasferimento o di concessione in godimento dell’azienda il contratto di locazione, in deroga alla disciplina generale, non si trasmette al cessionario.

La successione nei contratti disciplinata dall’art. 2558 c.c., osserva la giurisprudenza, si applica con riferimento a tutte quelle ipotesi in cui i contratti a prestazioni corrispettive non siano stati integralmente eseguiti da entrambe le parti al momento del trasferimento dell’azienda.

Tale norma, d’altra parte, si applica anche ai contratti in corso di formazione, con la conseguenza che il cessionario subentra nella posizione del cedente anche con riferimento a proposte contrattuali da questi formulate nei confronti di terzi ovvero formulate da questi nei confronti del cedente.

Nel caso in cui i rapporti contrattuali siano già stati interamente definiti, invece, troveranno applicazione gli artt. 2559 e 2560 c.c., i quali disciplinano la successione nei crediti e nei debiti relativi all’azienda ceduta.

La cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta, afferma l’art. 2559 c.c., ha effetto nei confronti dei terzi dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese; tuttavia, il debitore ceduto è liberato se paga in buonafede all’alienante. Le stesse disposizioni, inoltre, si applicano anche nel caso di usufrutto dell’azienda, se esso sia estende ai crediti relativi alla medesima.

Come previsto dall’art. 2560 c.c., l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito; nel trasferimento di un’impresa commerciale, d’altronde, risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultato dai libri contabili obbligatori.

Quest’ultima prescrizione è finalizzata a contemperare interessi contrapposti: da un lato, infatti, essa è posta a tutela del creditore dell’azienda, il quale potrà soddisfarsi anche sul patrimonio del cessionario; dall’altro, essa salvaguarda il cessionario, garantendogli la possibilità di avere esatta cognizione dei debiti assunti con l’acquisto dell’azienda.

La previsione legislativa, dunque, impone in primo luogo la necessità di definire la nozione di debito rilevante.

A tal proposito, la giurisprudenza ha ritenuto che la responsabilità del cessionario non si estenda a tutti i debiti, bensì solo a quelli c.d. “puri”, ovvero nascenti da fonte extracontrattuale, da contratti che stabiliscono prestazioni solo a carico dell’alienante dell’azienda o da contratti a prestazioni corrispettive la cui controprestazione sia stata già eseguita.

Il comma 2 dell’art. 2560 c.c., d’altra parte, solleva un’ulteriore questione interpretativa, esigendo la precisazione in ordine all’esatta portata della condizione di estensibilità della responsabilità debitoria del cessionario.

Per l’orientamento tradizionale, l’iscrizione del debito nelle scritture contabili obbligatorie è elemento costitutivo essenziale della responsabilità del cessionario, non rilevando, quindi, che il debito sia conosciuto altrimenti dal medesimo.

L’irrilevanza della conoscenza effettiva del debito da parte del cessionario, teorizzata da tale impostazione, si fonda su di un’interpretazione letterale della disposizione, la quale si rende necessaria dal fatto che l’estensione ex lege della responsabilità di un debito altrui rappresenta un’ipotesi eccezionale, con conseguente impossibilità di procedere ad un’interpretazione estensiva o analogica della stessa.

Avverso tale interpretazione, tuttavia, è stato osservato che la responsabilità del cessionario si fonda su di una presunzione di conoscenza del debito rappresentata dall’iscrizione contabile e, pertanto, a maggior ragione dovrebbe rilevare la prova della conoscenza effettiva del debito da parte del cessionario.

Si è inoltre osservato che l’interpretazione tradizionale si presta ad un ricorso abusivo della tutela ex art. 2560, comma 2, c.c., in quanto l’alienante, per sottrarre il proprio patrimonio alla garanzia patrimoniale del creditore, potrebbe trasferire l’azienda ad un soggetto a lui collegato, omettendo intenzionalmente l’iscrizione del debito nelle scritture contabili obbligatorie.

Ci si chiede, inoltre, cosa accada nei rapporti interni tra alienante ed acquirente, ossia se il trasferimento dei debiti avvenga anche tra di essi.

La dottrina prevalente ritiene che la norma si applichi esclusivamente nei rapporti con i terzi; di contrario avviso è invece un’opinione minoritaria, la quale sostiene che il trasferimento dei debiti avvenga anche nei rapporti interni.

La norma di cui all’art. 2560 c.c. è ritenuta inderogabile dalle parti, le quali non potrebbero pertanto escludere la responsabilità dell’acquirente nei confronti dei terzi, ma regolare esclusivamente la sorte dei debiti nei rapporti interni.

Per chi sostiene che non si ha trasferimento nei rapporti interni, in particolare, è pacifico che le parti possano prevedere invece tale trasferimento; chi, al contrario, ritiene che si abbia automatico trasferimento, sostiene che le parti possano pattuire che nei rapporti interni i debiti rimangano in capo all’alienante.

 

 

 

 

 


Sitografia
La disciplina dell’azienda: natura giuridica e definizione (diritto.it)

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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

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