Le sopravvenienze contrattuali e i rimedi esperibili dalle parti contraenti

Le sopravvenienze contrattuali e i rimedi esperibili dalle parti contraenti

Sommario: 1. Le sopravvenienze contrattuali e la loro rilevanza nel nostro ordinamento giuridico – 2. I rimedi esperibili per la gestione delle sopravvenienze contrattuali – 3. La rilevanza delle sopravvenienze c.d. atipiche e i rimedi esperibili a fronte delle medesime – 4. La gestione delle sopravvenienze contrattuali nell’ambito del contratto di appalto

 

1. Le sopravvenienze contrattuali e la loro rilevanza nel nostro ordinamento giuridico

Il fenomeno delle sopravvenienze attiene ai significativi mutamenti delle circostanze di fatto e di diritto esistenti al momento della stipula contrattuale che si verificano nell’arco temporale intercorrente fra la formazione e l’esecuzione del contratto e che sono idonei a mutare il contesto giuridico ed economico in cui il contratto si è perfezionato. In particolare, la problematica delle sopravvenienze contrattuali assume rilievo in relazione ai c.d. contratti di durata, caratterizzati dall’esecuzione del programma contrattuale lungo un arco di tempo apprezzabile. In tale lasso di tempo, possono verificarsi tre tipologie di sopravvenienze: eventi che rendono impossibile, sul piano naturalistico o giuridico, l’esecuzione del contratto, oppure situazioni in cui le prestazioni delle parti sono ancora possibili, tuttavia l’equilibrio economico fra le medesime è stravolto da circostanze successive alla conclusione del contratto, ed infine sopravvenienze che frustrano la causa in concreto del contratto impedendo l’attuazione dello scopo avuto di mira dalle parti. Ebbene, in tale contesto, si verifica l’emersione di due interessi contrapposti che necessitano di essere equamente bilanciati: da un lato, l’interesse delle parti contraenti a non essere più vincolate ad un assetto di interessi divenuto inopportuno, dall’altro lato, l’esigenza di preservare la certezza dei traffici giuridici. La ricomposizione di tale conflitto di interessi, postula, pertanto, la necessità di stabilire o su quale parte si intenda allocare il rischio scaturente dalla sopravvenienza oppure, se la medesima possa attivare rimedi a propria tutela. In quest’ultimo caso, si discute della tipologia di rimedi azionabili, ovvero se siano esperibili solo rimedi caducatori, determinanti lo scioglimento del vincolo contrattuale, o anche rimedi manutentivi, finalizzati a distribuire equamente il pregiudizio sopravvenuto fra i paciscenti mediante una modifica contrattuale nell’ottica della conservazione del contratto.

Ciò posto, in relazione alla rilevanza delle sopravvenienze contrattuali, è d’uopo dare atto di come l’impostazione tradizionale, improntata al principio pacta sunt servanda, ne decretasse l’irrilevanza alla luce di due fondamentali argomentazioni. In primo luogo, tale tesi sottolineava il fatto che se le stesse parti contraenti avevano ritenuto di non prevedere strumenti convenzionali di gestione delle sopravvenienze, ciò stava a significare che le medesime si erano volute accollare il relativo rischio. In secondo luogo, la tesi tradizionale argomentava l’irrilevanza delle sopravvenienze anche alla luce del dogma dell’intangibilità del contratto ad opera del giudice, in quanto riconducibile al dominio sovrano della volontà delle parti. In tal senso, sarebbe, infatti, precluso al giudice sostituirsi alle parti nelle valutazioni di convenienza loro riservate, né tantomeno, intervenire sul contratto modificandone i contenuti al fine di neutralizzare l’incidenza negativa delle sopravvenienze. Ciononostante, l’evoluzione del pensiero giuridico moderno ha condotto al superamento dell’impostazione tradizionale alla luce di due direttrici fondamentali. In particolare, tale moderna dottrina ha, in primo luogo, evidenziato come i recenti approdi giurisprudenziali intervenuti in merito alla possibilità del giudice di sindacare l’equilibrio originario del contratto proceduralmente iniquo, in quanto fonte dell’approfittamento dell’altrui posizione di debolezza contrattuale, conducano, a fortiori, all’ammissibilità di un sindacato del giudice sull’alterazione del sinallagma contrattuale per effetto di circostanze pregiudizievoli sopravvenute. In secondo luogo, l’evoluzione che ha interessato la clausola generale di buona fede quale fonte integrativa ed in executivis, idonea a dar vita ad obblighi ulteriori e diversi rispetto a quelli cristallizzati nel programma contrattuale, ha indotto la dottrina più evoluta a teorizzare un obbligo di rinegoziazione a carico delle parti contraenti ex art. 1375 c.c. a fronte dei mutamenti successivi alla stipula contrattuale.

2. I rimedi esperibili per la gestione delle sopravvenienze contrattuali

Ciò posto in linea generale, è d’uopo precisare come un problema di gestione delle sopravvenienze contrattuali mediante l’individuazione di strumenti di governo sul contratto non si ponga nell’ipotesi in cui sia la legge a predisporre rimedi di carattere legale o siano le parti contraenti a ricorrere a rimedi di carattere convenzionale onde riequilibrare l’assetto negoziale al fine di renderlo nuovamente soddisfacente per i propri interessi.

Per quanto riguarda i rimedi legali, il legislatore ha positivizzato due strumenti finalizzati a fronteggiare le vicende perturbatrici del sinallagma contrattuale di matrice caducatoria. Il primo rimedio è rappresentato dalla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1467 c.c. che reagisce a sopravvenienze che incidono negativamente sull’equilibrio originario ed economico del contratto in presenza di quattro presupposti. In particolare, la sopravvenienza deve incidere necessariamente su un contratto ad esecuzione continuata o periodica, ovvero ad esecuzione differita le cui prestazioni non siano ancora state eseguite al verificarsi della sopravvenienza. Quest’ultima deve aver determinato un’onerosità eccessiva delle prestazioni, intendendosi tanto la c.d. onerosità diretta, che cioè ha inciso direttamente sulle prestazioni rendendole più costose, tanto l’onerosità indiretta, determinata dallo svilimento oggettivo della controprestazione, entrambe varcanti la soglia della c.d. alea normale del contratto. L’onerosità sopravvenuta deve poi essere dipesa da eventi straordinari ed imprevedibili al momento della stipula: il concetto di straordinarietà attiene ad un criterio obiettivo, mentre quello di imprevedibilità fa riferimento alla fenomenologia della conoscenza da parte dell’uomo medio. Al ricorrere dei detti presupposti il contratto si risolve su domanda di parte mediante una sentenza costitutiva del giudice, individuandosi la ratio di siffatto rimedio abdicativo, così come è dato desumere dalla stessa Relazione al Re, nell’implicita soggezione dei contratti a prestazioni corrispettive alla clausola rebus sic stantibus, ovvero nell’implicita volontà delle parti di condizionare la stabilità del contratto alla permanenza dei presupposti che ne hanno determinato la stipulazione. La stessa previsione normativa al comma 3, tuttavia, prevede la possibilità di evitare la caducazione del contratto facendo ricorso al rimedio manutentivo della riduzione ad equità: si tratta di un diritto potestativo della parte avvantaggiata dall’eccessiva onerosità sopravvenuta di evitare la risoluzione offrendo di modificare equamente le condizioni contrattuali.

Il legislatore, inoltre, prevede un secondo rimedio caducatorio a fronte delle sopravvenienze che rendono impossibile l’esecuzione del contratto ai sensi dell’art. 1463 c.c. In particolare, viene in rilievo un rimedio sinallagmatico che opera in presenza di un contratto a prestazioni corrispettive a fronte dell’impossibilità solo sopravvenuta e non originaria di taluna delle prestazioni, non riconducibile a causa imputabile al debitore. Sopravvenuta l’impossibilità, la risoluzione opera di diritto e la sentenza che la pronuncia è di natura dichiarativa. Il rimedio caducatorio lascia il posto ad un rimedio manutentivo, invece, laddove venga in rilievo l’impossibilità solo parziale della prestazione: in tal caso, qualora ancora sussista un interesse apprezzabile del creditore all’adempimento parziale, il contratto non si risolve con contestuale diritto della parte creditrice alla corrispondente riduzione della controprestazione a suo carico.

Le sopravvenienze possono essere gestite anche dalle parti mediante rimedi convenzionali, di stampo conservativo, finalizzati, tramite l’inserimento di apposite clausole contrattuali, a prevedere già nell’assetto negoziale concordato dai paciscenti le conseguenze scaturenti dalle vicende sopravvenute e perturbatrici del sinallagma negoziale. In particolare, appartengono all’ambito dei rimedi pattizi le c.d. clausole di adeguamento automatico: l’inserimento di tale clausola, solitamente in uso per le obbligazioni pecuniarie nell’ottica di contenimento degli effetti pregiudizievoli di una rigida applicazione del principio nominalistico, implica che la prestazione contrattuale è modificata automaticamente sulla base degli indici e parametri prestabiliti dalle parti senza che occorra una nuova manifestazione di volontà delle parti. I contraenti possono, altresì, inserire clausole di completamento in base alle quali le parti assumono un impegno contrattuale immediatamente definitivo, rinviando ad un momento successivo la sola determinazione di taluni profili della contrattazione. Nel novero dei rimedi convenzionali rientrano, inoltre, le clausole di revisione, in virtù delle quali il contratto è adeguato agli eventi successivi in base a criteri prestabiliti, ma per la modifica del contratto occorre una nuova manifestazione di volontà alla quale le parti si sono già obbligate predeterminandone il contenuto. Importanti a tali fini sono anche le c.d. clausole di rinegoziazione mediante le quali le parti si obbligano a rinegoziare il contenuto del contratto al verificarsi di eventi sopravvenuti in difetto di criteri prestabiliti, occorrendo per la conservazione del contratto una nuova manifestazione di volontà a contenuto non predeterminato. All’alveo degli strumenti convenzionali di gestione delle sopravvenienze vanno ricondotti anche i negozi preparatori (opzione, prelazione e, in particolare, il contratto preliminare): nell’arco temporale intercorrente fra la stipula del negozio preparatorio e la conclusione del definitivo, infatti, i contraenti si riservano di valutare la persistenza del proprio interesse a contrarre alla luce dei mutamenti intervenuti rispetto alle condizioni contrattuali originarie.

3. La rilevanza delle sopravvenienze c.d. atipiche e i rimedi esperibili a fronte delle medesime

Il fenomeno delle sopravvenienze contrattuali si pone in tutta la sua problematicità in relazione a quelle c.d. atipiche, ovvero a quelle circostanze sopravvenute perturbatrici del sinallagma negoziale per le quali né la legge, né le parti hanno posto rimedio. In merito a siffatte sopravvenienze, dottrina e giurisprudenza hanno teorizzato una serie di rimedi differenti a seconda che si tratti di circostanze atipiche che frustrino la causa in concreto del contratto o che alterino l’equilibrio originario del contratto. Per quanto concerne le prime, occorre premettere che la tradizionale impostazione ispirata al principio pacta sunt servanda che propendeva per l’irrilevanza delle sopravvenienze atipiche tali per cui il contratto continua a produrre effetti nonostante ne risulti alterata la funzione, è stata messa in discussione e superata con l’avvento della teoria della causa in concreto. In tale ottica, infatti, si è sostenuto che, attenendo il concetto di causa al dinamico assetto degli interessi ed allo scopo pratico che le parti intendono realizzare, tutte le vicende impedienti siffatto scopo incidono sulla causa e fanno venire meno la stessa ragione di stipula del contratto originario. Di conseguenza, si è fatta strada l’applicazione della clausola rebus sic stantibus, sopra menzionata, e l’applicazione dei due rimedi caducatori individuati dalla giurisprudenza nella risoluzione per impossibilità sopravvenuta dell’utilizzo della prestazione e della presupposizione. In particolare, la giurisprudenza ha fatto applicazione in via estensiva del rimedio risolutorio di cui all’art. 1463 c.c. nella seguente fattispecie: in relazione al contratto di viaggio tutto compreso la Cassazione ha precisato che la finalità di svago costituisce la causa in concreto del contratto, che risulta incompatibile con un’epidemia successiva alla stipula del contratto che integra una sopravvenienza idonea a frustrare la causa in concreto del contratto di package con la conseguenza di rendere la prestazione inutilizzabile per la realizzazione del programma contrattuale. Tale inutilizzabilità della prestazione viene equiparata dalla giurisprudenza all’impossibilità sopravvenuta di esecuzione della prestazione ai sensi dell’art. 1463 c.c. con conseguente risoluzione del contratto in questione.

Un ulteriore rimedio finalizzato a gestire le sopravvenienze atipiche che pregiudicano la funzione del contratto è rappresentato dall’istituto di conio pretorio e dottrinale della presupposizione, che sta ad identificare la situazione di fatto o di diritto, passata, presente o futura, di carattere obiettivo che, sebbene non esplicitata in alcuna clausola contrattuale, viene tenuta presente dalle parti come certa e quale presupposto comune e determinante del vincolo negoziale. Al riguardo, è d’uopo rilevare come non sussista uniformità di vedute in relazione al fondamento del predetto istituto: per una tesi, ormai superata, la presupposizione assurge a condizione risolutiva implicita. Tuttavia, a tale ricostruzione si è obiettato che condizione e presupposizione identificano concetti differenti presupponendo la prima, un evento incerto, la seconda, un evento certo nella prospettiva delle parti. Inoltre, la disciplina della condizione non soddisfa né l’esigenza di tutela dei terzi, poiché l’avveramento della condizione implicherebbe la caducazione del contratto con efficacia retroattiva reale, né di tutela delle parti, non essendo contemplato un rimedio manutentivo.

Non convince neppure l’ulteriore ricostruzione ermeneutica che riconduce il fondamento della presupposizione nell’alveo del difetto causale, attenendo sia la causa concepita originariamente come funzione economico-sociale, sia la causa in concreto alla genesi del contratto e non al campo delle vicende successive alla stipula dello stesso. L’impostazione che, invece, risulta oggi prevalente configura la presupposizione quale categoria autonoma fondata sul canone della buona fede sia interpretativa che integrativo-esecutiva ex art. 1375 c.c., finalizzata a rendere, sotto il primo profilo, rilevanti le circostanze esterne che risultano imprescindibili per realizzare gli interessi di una o entrambe le parti, e, sotto il secondo profilo, ed a imporre ulteriori obblighi di collaborazione a carico dei contraenti finalizzati a tollerare modifiche delle altrui prestazioni e ad apportare varianti alle proprie nei limiti del non apprezzabile sacrificio. In quest’ultima prospettiva, l’istituto della presupposizione opera attraverso il rimedio dell’inesigibilità della prestazione originariamente pattuita per contrarietà alla bona fides in executivis allorché una parte pretenda l’esecuzione del contratto alle condizioni originarie, nonostante sia venuta meno per effetto delle sopravvenienze la ragione concreta del negozio.

Per quanto concerne, invece, le sopravvenienze atipiche che alterano l’equilibrio del contratto, la dottrina ha talvolta parimenti fatto applicazione della teoria della presupposizione, talaltra, fatto leva sul canone generale di buona fede quale fondamento di un obbligo di rinegoziazione del contratto. In particolare, secondo una prima tesi, la sopravvenienza inciderebbe sull’equilibrio economico delle prestazioni rendendo sproporzionato il valore di una prestazione rispetto all’altra con applicazione del rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta di cui all’art. 1467 c.c., salvo il ricorso al rimedio manutentivo ivi previsto della riconduzione ad equità del contratto. Tuttavia, l’impossibilità di una reale estensione della norma eccezionale in quanto derogatoria rispetto al principio generale di stabilità del contratto, ha indotto la dottrina ha far leva sul diverso canone della buona fede in executivis ai sensi dell’art. 1375 c.c. ai fini della gestione di tale tipologia di sopravvenienze atipiche. In tal senso, il rimedio contro la sopravvenienza alla luce della buona fede è l’inesigibilità della prestazione originariamente pattuita che se parziale opera come rimedio manutentivo imponendo una modifica riequilibratrice del contratto. Ove, poi, una mera modifica del contratto non sia sufficiente a ripristinare l’equilibrio originario, la buona fede impone, secondo una ricostruzione, un obbligo di rinegoziazione del contratto che opera come rimedio manutentivo traducendosi nell’obbligo delle parti di cooperare al fine di ridiscutere il contenuto del contratto e di apportarvi delle modifiche nell’ottica di adeguarlo alla sopravvenienza. Tuttavia, l’inadempimento di tale obbligo, sub specie di rifiuto a rinegoziare, di rottura ingiustificata delle trattative o di contrattazione maliziosa, discendendo dall’esecuzione in buona fede di quel contratto, implica come conseguenza la risoluzione del medesimo e il risarcimento del danno con trasformazione del rimedio manutentivo in caducatorio. Tale sistema di tutele si appalesa insoddisfacente nell’ottica delle parti non garantendo la conservazione del contratto, anche in considerazione del fatto che il nostro ordinamento, a differenza dei principi discendenti dal quadro normativo europeo (principi Unidroit, principi di diritto europeo dei contratti, codice europeo dei contratti), non contempla una norma che consente al giudice di intervenire sul contratto stabilendo l’assetto degli interessi in sostituzione delle parti.

4. La gestione delle sopravvenienze contrattuali nell’ambito del contratto di appalto

In ultima analisi, occorre concentrare l’attenzione sul quadro di rimedi esperibili nell’ambito del contratto di appalto. In particolare, il contratto di appalto si configura come contratto di impresa, a prestazioni corrispettive e riconducibile all’alveo dei contratti c.d. relazionali ovvero quei contratti che realizzano operazioni di lunga durata, tecnicamente complesse ed economicamente impegnative, che, una volta avviate, sono difficilmente reversibili. Il contratto di appalto implica quale contratto relazionale un rapporto contrattuale molto intenso fra le parti: almeno una delle stesse impegna, infatti, elevate risorse economiche, umane e strumentali nell’esecuzione di quel rapporto e quindi è condizionata dall’esistenza dello stesso.  Ebbene, in tale contesto, l’individuazione di un rimedio caducatorio non risulta idoneo a gestire le sopravvenienze che incidono negativamente sull’equilibrio contrattuale, in quanto l’interesse delle parti e, in special modo, di quella che ha investito ingenti risorse subendo la sopravvenienza, è l’interesse all’esecuzione del contratto e non allo scioglimento del medesimo divenuto squilibrato. In tal senso, ponendo mente alla disciplina codicistica dettata per il contratto di appalto, occorre rilevare come il legislatore abbia evidentemente posto rimedio alle sopravvenienze con l’introduzione di uno strumento che consente di modificare e adeguare il regolamento contrattuale al fine di consentire che si producano gli effetti voluti dai contraenti. Al riguardo, si rileva, infatti, che il legislatore prevede che se in un contratto di appalto l’opera non può realizzarsi senza apportare varianti al progetto e le parti non si accordano sulle variazioni, il contratto può sciogliersi mediante lo strumento del recesso. Tuttavia, in alternativa, il giudice può adeguare il contratto determinando le variazioni da introdurre e le correlate variazioni di prezzo.

Da tale previsione normativa si inferisce che la disciplina del contratto di appalto si pone, da un lato, in linea con la tendenza dell’ordinamento a prevedere, in alternativa ad un rimedio caducatorio, uno strumento manutentivo del contratto finalizzato ad un più equo contemperamento degli interessi delle parti, dall’altro, si appalesa come parzialmente derogatoria in quanto in tale sede il rimedio manutentivo è rimesso al potere del giudice e non a quello delle parti.

Significativo, in tal senso, è anche l’art. 1664 c.c. Tale previsione normativa prevede che le circostanze sopravvenute ed imprevedibili che modifichino oltre una certa soglia il prezzo convenuto, legittimano i contraenti a chiedere di rinegoziare il prezzo stesso, così come previsto dall’art. 1467 c.c. La ratio dell’art. 1664 c.c. si giustifica a causa della variabilità dei costi dei materiali e della mano d’opera di cui si serve l’appaltatore per portare a compimento l’opera commissionatagli. A differenza della previsione di cui all’art. 1467 c.c., tuttavia, in tal caso è sufficiente che gli eventi siano solo imprevedibili, non anche straordinari. La differenza tra le due norme è spiegabile in quanto nell’ipotesi dell’art. 1467 c.c. si deve giungere alla conclusione assai grave rappresentata dalla risoluzione del contratto, mentre nel caso dell’art. 1664 c.c. si procede unicamente ad una revisione del prezzo. La revisione del prezzo, precisa l’art. 1664 c.c., può essere accordata anche per la sola differenza che eccede il decimo. Ne deriva che la variazione inferiore al decimo viene ricondotta dal legislatore alla normale alea contrattuale (art. 1469 c.c.) e che la parte che non in intende sopportarla deve cautelarsi con apposita clausola.

Nondimeno, parimenti rilevante in tema di gestione delle sopravvenienze si pone l’art. 1668 c.c. che rafforza la posizione contrattuale del committente il quale, in caso di vizi dell’opera, ha, tra le altre, la possibilità di chiedere all’appaltatore una riduzione proporzionale del prezzo convenuto.


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