Atto abnorme: il diritto di difesa nella dialettica G.I.P. e P.M.

Atto abnorme: il diritto di difesa nella dialettica G.I.P. e P.M.

“E’ atto abnorme e quindi ricorribile per Cassazione anche dalla persona sottoposta ad indagine il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che, non accogliendo la richiesta di archiviazione, ordini, ai sensi dell’art. 409 c.p.p., comma 5, che il pubblico ministero formuli l’imputazione per un reato diverso da quello oggetto della richiesta.”

È questa la massima che può trarsi dalla sentenza delle SS.UU. penali n. 40984/2018. La Sesta Sezione della Corte di Cassazione, è stata chiamata a decidere sul ricorso per abnormità proposto da un indagato avverso l’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari, rigettando la richiesta di archiviazione nei confronti dello stesso per il reato di tentata concussione, disponeva che il pubblico ministero formulasse l’imputazione per i diversi reati di violenza privata ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Le Sezioni Unite, nel dirimere tale contrasto, accolgono l’orientamento sino ad oggi minoritario e affermano che anche la persona sottoposta ad indagini può ricorrere per cassazione avverso il provvedimento che dispone l’imputazione per fatti non contemplati nella richiesta di archiviazione del p.m. E ciò in quanto tale imputazione coatta incide non solo sulle prerogative spettanti alla pubblica accusa, ma anche sul diritto di difesa.

La questione di diritto sottoposta all’attenzione del Collegio presuppone, quale dato ormai non controverso, i risultati dell’elaborazione giurisprudenziale in merito alla nozione giuridica di abnormità e all’atteggiarsi di quest’ultima con riferimento agli atti resi dal giudice per le indagini preliminari nel procedimento di archiviazione. Deve essere qui ribadito che ai fini dell’individuazione dell’atto abnorme si richiede, in negativo, che non si tratti di atto adottato semplicemente in violazione di norme processuali e, in positivo, che l’atto stesso si caratterizzi per contenuti talmente atipici, da renderlo estraneo all’ordinamento processuale ovvero che, pur espressione di una legittima potestà processuale, esso sia adottato al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, tanto da determinare una stasi del processo, la impossibilità di proseguirlo ovvero la sua inammissibile regressione ad una fase processuale ormai esaurita (così, Sez. U, n. 17 del 10/12/1997, Di Battista, Rv. 209603; Sez. U, n. 26 del 24/11/1999, Magnani, Rv. 215094; Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590). I giudici hanno colto l’occasione per tracciare una chiara linea di demarcazione tra l’attività del pubblico ministero ed il potere di controllo del giudice nel procedimento di archiviazione.

Richiamandosi alla giurisprudenza costituzionale, hanno affermato che i confini tracciati dal legislatore sui poteri dei due organi che si occupano delle indagini preliminari sono ben definiti e conformi ai principi costituzionali dell’obbligatorietà dell’azione penale e della sua titolarità in capo all’organo requirente (art. 112 Cost.), riservando al giudice delle indagini la funzione di controllo e di impulso (v. Corte cost. n. 88 del 1991, n. 478 del 1993, n. 263 del 1991, n. 417 del 1991, n. 34 del 1994, n. 176 del 1999, n. 349 del 2002). Il dato saliente – continua la Corte – emergente dall’arresto in parola e che adesso si intende ribadire, attiene alla sfera di valutazione del giudice per le indagini preliminari, non limitata ad un semplice esame della richiesta finale del pubblico ministero, ma estesa al complesso degli atti procedimentali rimessi al giudice dall’organo requirente, nel rispetto, però, sempre delle prerogative del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale.

Si consideri, invero, che, anche nei casi di abnormità, ai fini della legittimazione a ricorrere non basta dedurre un vizio del provvedimento impugnato, ma occorre anche che il ricorrente abbia un interesse pratico e attuale all’annullamento dell’atto del quale deduce l’abnormità e affinchè detto interesse sussista è necessario che l’impugnazione sia idonea a rimuovere un pregiudizio. .

L’esposizione che precede consente di svolgere una serie di considerazioni, dirimenti ai fini della soluzione della questione all’esame del Collegio: – lo schema del rito camerale “archiviativo” non si esaurisce nella dinamica pubblico ministero/giudice (cui si correla la problematica della limitazione delle prerogative del pubblico ministero a garanzia dell’effettività del principio di obbligatorietà dell’azione penale), ma investe anche l’indagato ed il suo diritto di difesa; – l’assenza di tali previsioni avrebbe esposto la norma ad inevitabile censura di illegittimità costituzionale e in questo senso il riferimento all’art. 6 della Convenzione EDU, pur non costituendo disposizione da potere invocare come parametro al fine di affermare l’incostituzionalità delle norme denunciate, dal momento che la stessa costituisce solo norma interposta al fine di accertare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., non invocato dal giudice a quo (ordinanza n. 163 del 2010), rafforzerebbe la censura di illegittimità costituzionale con riguardo all’art. 111 Cost. (ordinanza n. 286 del 2012); – il mancato riconoscimento, nel caso concreto, delle predette garanzie all’indagato determina una lesione del diritto di difesa e di conseguenza un interesse del predetto alla rimozione del provvedimento a sè sfavorevole.

Tutto ciò induce a concordare con quella dottrina orientata a ritenere che “sulla scena dell’art. 409 c.p.p., comma 5, si profila un terzo principio costituzionale: il diritto di difesa. In questo terreno di incontro/scontro tra principi costituzionali, l’unico potere di intervento modificativo dell’imputazione che la giurisprudenza sembra lasciare in capo al giudice è costituito dalla possibilità di riqualificazione del fatto, che del resto, costituendo corretta applicazione della legge, ius dicere e, pertanto, attuazione del principio di legalità, si deve estendere a tutte le fasi del processo.


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