Documento Unico di Regolarità Contributiva: falsificare il certificato è reato

Documento Unico di Regolarità Contributiva: falsificare il certificato è reato

Cass. pen., sez. V, 2 maggio 2019, n. 18263

La vicenda. La Corte di Appello di Firenze confermava la sentenza del Tribunale di Firenze che aveva dichiarato l’imputato responsabile del reato di cui agli artt. 477 e 482 c.p., per avere, quale rappresentante legale di una società, contraffatto due certificati DURC per ottenere indebitamente la commissione di lavori in subappalto. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’uomo.

La decisione. Il Documento Unico di Regolarità Contributiva è un certificato unico che attesta la regolarità di un’impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi, nonché in tutti gli altri obblighi previsti dalla normativa vigente nei confronti di INPS, INAIL e Casse Edili, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento: le imprese inoltrano un’unica richiesta di rilascio della regolarità contributiva ad uno degli enti citati – anziché tre richieste (ciascuna per ogni ente), come avveniva in passato.

Secondo la definizione di cui al D.M. n. 24 ottobre 2007, art. 4, e D.P.R. n. 207 del 2010, art. 6, comma 1, il DURC è appunto il certificato che attesta contestualmente la regolarità dell’operatore economico per quanto concerne gli adempimenti INPS, INAIL, nonché Cassa edile per i lavori, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento.

Tanto premesso, la giurisprudenza della Suprema Corte è consolidata nell’affermare che integra il delitto di falsità materiale in certificato amministrativo, previsto dagli artt. 477 e 482 c.p., la falsificazione del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), stante la natura giuridica di tale atto, che ha valore di attestazione della regolarità di un’impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi dovuti agli enti di riferimento (Sez. 2, n. 29709 del 19/04/2017, Ferrara, Rv. 270664; Sez. 5, n. 3811 del 05/07/2016, dep. 2017, Tarantino, Rv. 269087).

Sotto altro profilo, gli Ermellini hanno poi ricordato che in tema di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, la questione dell’applicabilità dell’art. 131 bis c.p., non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, ostandovi il disposto di cui all’art. 606 c.p.p., comma 3, se il predetto articolo era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza impugnata, né sul giudice di merito grava, in difetto di una specifica richiesta, alcun obbligo di pronunciare comunque sulla relativa causa di esclusione della punibilità (Sez. 3, n. 19207 del 16/03/2017, Celentano, Rv. 269913).

In conclusione la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.


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