Dolo eventuale e colpa cosciente alla luce del caso Vannini

Dolo eventuale e colpa cosciente alla luce del caso Vannini

Sommario: 1. Ricostruzione della vicenda giudiziaria – 2. Questione giuridica sottesa al caso: dolo eventuale o colpa cosciente? – 3. La Cassazione sul caso Vannini – 4. Appello bis

 

La vexata quaestio relativa all’individuazione della esatta linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente è ritornata alla ribalta in occasione di una vicenda giudiziaria balzata agli onori della cronaca la quale ha fornito l’occasione per riproporre un dibattito sul punto nonostante le Sezioni Unite avessero tentato di fornire una soluzione univoca a tale interrogativo con la nota sentenza sul caso Thyssenkrupp.

1. Ricostruzione della vicenda giudiziaria

Con sentenza del 18 aprile 2018 la Corte d’assise di Roma affermava la penale responsabilità di Antonio Ciontoli per il delitto di omicidio volontario, commesso nella sua abitazione ai danni di Marco Vannini, fidanzato della figlia, condannandolo a 14 anni di reclusione; secondo le contestazioni, il Ciontoli, ritenendo che fosse scarica, puntò la pistola da lui detenuta per ragioni di servizio, lasciata incustodita nella stanza da bagno, verso marco Vannini, mentre questi stava facendo la doccia, ed esplose un colpo che raggiungeva la vittima, ferendola gravemente. Pur resosi conto della gravità della situazione, l’imputato ritardò i soccorsi e fornì agli operatori del 118 e al personale paramedico informazioni false e fuorvianti, così cagionando, ad avviso del giudice di primo grado, accettandone il rischio, il decesso del giovane.

La Corte d’assise d’appello di Roma, tuttavia, riformava la sentenza nei confronti di Antonio Ciontoli, riqualificando l’imputazione in quella di omicidio colposo con l’aggravante di aver previso l’evento, condannandolo alla pena di 5 anni di reclusione[1].

Avverso tale sentenza è stato proposto ricorso davanti alla Corte di Cassazione.

2. Questione giuridica sottesa al caso: dolo eventuale o colpa cosciente?

Prima di esaminare la decisione della Corte di legittimità, occorre preliminarmente esaminare una delle questioni giuridiche sottese al caso in esame e, in particolare, quella relativa alla natura del dolo eventuale e ai criteri distintivi utili al fine di distinguere tale elemento soggettivo dalla figura della colpa cosciente; nell’ambito dell’acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale venutosi a creare, si inserisce la nota sentenza delle Sezioni Unite sul c.d. caso Thyssenkrupp[2].

Come noto, il dolo rappresenta il normale criterio di imputazione soggettiva e trova il suo fondamento normativo nell’art. 43, comma 1, c.p. il quale richiede, ai fini della sua integrazione, la compresenza di rappresentazione e la volontà in relazione agli elementi costitutivi della fattispecie criminosa così come delineata dal legislatore.

Si distinguono tre forme di intensità: il dolo intenzionale, il dolo diretto ed il dolo eventuale.

In tale ultima ipotesi l’evento previsto dalla norma come momento consumativo del reato non è il fine precipuamente perseguito dall’agente, né è previsto come conseguenza certa o altamente probabile della condotta posta in essere: l’agente, nel perseguire uno scopo ulteriore e diverso, si rappresenta la verificazione dell’evento tipico come conseguenza collaterale, soltanto probabile o possibile della propria condotta.

Il soggetto, dunque, si rappresenta la possibilità che si realizzi l’evento tipico ed è quanto accade anche nelle ipotesi di colpa cosciente previste dall’art. 61, comma 3, c.p. il quale configura come circostanza aggravante comune nei delitti colposi che l’agente abbia agito nonostante la previsione dell’evento.

Da qui la vexata quaestio su come distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente, una problematica dai risvolti tutt’altro che teorici; si pensi, ad esempio, al tentativo configurabile nelle ipotesi dolose ma non in quelle di responsabilità per colpa o alla differente risposta sanzionatoria prevista dal legislatore nell’uno o nell’altro caso.

Per cercare di dare risposta a tale interrogativo si sono susseguiti nel tempo diversi orientamenti, dalle teorie oggettivistiche a quelle intellettualistiche, ormai da considerarsi, tuttavia, superate; le prime per un’eccessiva valorizzazione dell’elemento fattuale a discapito di quello soggettivo e del principio di colpevolezza, le seconde perché focalizzate su un fattore, quello rappresentativo, come sottolineato, presente in entrambe le figure del dolo eventuale e della colpa cosciente.

Il dicrimen tra i due istituti va, dunque, ravvisato nella componente volitiva, così come sostenuto da tutte quelle teorie c.d. volontaristiche le quali assegnano un ruolo predominante alla volontà del soggetto, sulla scorta dell’assunto per cui il dolo si caratterizza proprio per tale ultimo profilo rispetto alla colpa che per la sua sussistenza richiede specificamente che l’evento, seppur preveduto, non sia voluto dall’agente.

Nell’ambito di queste impostazioni quella più a lungo presa in considerazione è stata la formula di Frank per la quale il dolo eventuale sarebbe configurabile solo nelle ipotesi in cui, attraverso un giudizio ex ante compiuto dal giudice, sia accertabile che il soggetto avrebbe agito anche qualora avesse avuto la certezza del verificarsi dell’evento ovvero che l’agente avrebbe agito “costi quel che costi”, sprezzante della norma incriminatrice e del bene giuridico da questa presidiato.

Tale ricostruzione, tuttavia, per quanto più aderente al principio di colpevolezza, non va esente da critiche riconducibili, perlopiù, alle difficoltà del giudicante nel dover compiere un accertamento prognostico e ipotetico.

Per tale ragione la giurisprudenza per decenni ha ritenuto preferibile aderire a una teoria c.d. mista, quella che individua il discrimen tra le due forme di colpevolezza nell’accettazione del rischio.

Nel dettaglio, si avrebbe dolo eventuale quando l’agente si sia rappresentato l’evento lesivo e ciononostante abbia agito comunque, accettando il rischio che l’evento potesse verificarsi; diversamente, in caso di colpa cosciente tale accettazione non è ravvisabile in quanto il soggetto, pur essendosi rappresentato la possibilità in astratto che l’evento si realizzasse, ha confidato nella sua concreta non verificazione.

Il criterio dell’accettazione del rischio, tuttavia, non appare da solo sufficiente a giustificare la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, essendo la previsione un elemento comune a entrambe le figure e, pertanto, un indice non dirimente per individuare a quale titolo il soggetto sia ritenuto penalmente responsabile; avuto riguardo, altresì, alla enorme differenza sanzionatoria che caratterizza i due criteri di imputazione soggettiva in questione, si è avvertita l’esigenza di ricercare un quid pluris in grado di spiegare più adeguatamente l’adesione volontaristica al fatto al fine di sussumere un atteggiamento psicologico nell’alveo del dolo e non in quello della colpa.

Proprio in tale contesto si inserisce la nota pronuncia delle Sezioni Unite la quale, accogliendo un orientamento giurisprudenziale all’epoca minoritario, ha ritenuto di dover ravvisare l’elemento di distinzione non nella pura e semplice accettazione del rischio, come visto presente in entrambe le ipotesi, ma nella ragione ad essa sottesa; in quest’ottica per aversi dolo eventuale il soggetto deve in ogni caso rappresentarsi l’evento e accettare il rischio che questo si verifichi, ma l’accettazione deve essere il frutto di una scelta consapevole ovvero di un bilanciamento tra il bene perseguito e il bene che si prevede possa essere sacrificato allorché si consumi l’evento consumativo del reato.

Occorrerà,  a parere del giudice della nomofilachia “comprendere se l’agente si sia lucidamente raffigurata la realistica prospettiva della possibile verificazione dell’evento concreto costituente effetto collaterale della sua condotta, si sia per così dire confrontato con esso e infine, dopo avere tutto soppesato, dopo avere considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque, ad accettare l’eventualità della causazione dell’offesa”, esprimendo così “una scelta razionale”, il più possibile “assimilabile alla volontà”[3].

Tale atteggiamento psicologico, denotando una volontà autentica, tipica del dolo, appare maggiormente rimproverabile e in ciò risiederebbe la ragione di un trattamento sanzionatorio ben più severo di quello riservato ai comportamenti meramente colposi.

3. La Cassazione sul caso Vannini

La Corte di Cassazione, inserendosi nel solco di quel filone interpretativo inaugurato dalle Sezioni Unite nel caso Thyssenkrupp, con la sentenza n. 134/2020, ha così annullato con rinvio la precedente pronuncia della Corte d’assise d’appello che aveva condannato Antonio Ciontoli per l’omicidio di Marco Vannini, dopo aver riqualificato l’imputazione in quella di omicidio colposo e aver ridotto la pena da 14 a 5 anni di reclusione[4].

A parere dei giudici di legittimità, la Corte d’assise d’appello, negando la sussistenza del dolo eventuale in capo ad Antonio Ciontoli, avrebbe fatto un uso non accorto delle indicazioni interpretative fornite dalle Sezioni Unite le quali, lo si evidenzia nuovamente, hanno precisato che nei casi di dolo eventuale “la volontà si esprime nella consapevole e ponderata adesione all’evento” motivo per il quale non può parlarsi semplicemente di mera accettazione del rischio, ma occorre avere riguardo alla volontà intesa come accettazione dell’evento; infatti “nel concreto confronto dell’agente con l’evento e, infine, nell’accettazione che l’evento si realizzi si sostanzia la ragione della rimproverabilità della condotta, e quindi della colpevolezza”.

Le difficoltà per l’interprete non sono tanto di definizione, di inquadramento dogmatico, quanto di accertamento; ed è proprio su questo terreno di ricostruzione indiziaria dell’elemento soggettivo che, a parere della Corte di Cassazione, la sentenza impugnata rivela errori applicativi e difetti di motivazione.

Il perno attorno al quale ruota il ragionamento contenuto nella sentenza impugnata risiede nella convinzione che il fine ultimo perseguito dall’imputato dopo il ferimento della vittima fosse quello di evitare conseguenze dannose sul piano lavorativo che sarebbero state ineluttabili se fossero emerse l’imprudenza, l’imperizia e la negligenza nella custodia dell’arma detenuta. Si è affermato che tale scopo sarebbe incompatibile con l’affermazione di un’adesione volontaria all’evento morte; Ciontoli cercò di occultare l’avvenuto ferimento, in modo da evitare che si risalisse alla sua responsabilità per aver fatto un uso incauto della pistola in dotazione, e di certo non accettò mai che si verificasse la morte di Marco Vannini, perché quest’evento avrebbe comportato per lui e i suoi famigliari conseguenze ancora peggiori[5].

Perciò, ad avviso della Corte d’assise d’appello, oltre a non potersi riscontrare alcuna accettazione dell’evento morte da parte del Ciontoli, mancherebbe anche quel quid pluris costituito dall’accertamento che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (c.d. formula di Frank).

Le argomentazioni, a parere degli ermellini, sono manifestamente illogiche.

Innanzitutto, si conferisce allo scopo perseguito dall’imputato un valore indiziario non adeguatamente giustificato; il perseguimento di quella finalità non implica necessariamente che Ciontoli non volle la morte. Un dato era ormai irreversibile, ovvero il ferimento con un proiettile esploso da un’arma detenuta per ragioni d’ufficio e incautamente custodita; acclarato ciò, sopravvissuto o meno il ferito, si sarebbe inevitabilmente proceduto ad effettuare una ricostruzione della esatta dinamica dell’accaduto e di certo la morte di Vannini avrebbe reso più disagevole l’accertamento delle responsabilità, poiché, in questo modo, sarebbe venuta a mancare un’importante fonte di prova.

Ciò non implica che l’imputato volesse la morte del Vannini quando il colpo di pistola lo ferì, ma fa ben ritenere che Ciontoli per raggiungere il suo fine di sottrarsi a qualsiasi tipo di responsabilità, si sia rappresentato e abbia accettato il rischio di un possibile esito letale per la vittima, l’unica a poter riferire in modo dettagliato quanto accaduto quella sera nell’abitazione della famiglia Ciontoli; si sarebbe trattato, dunque, di una scelta ponderata di sacrificare la vita del giovane per conseguire il proprio fine, di un bilanciamento all’esito del quale l’evento morte è stato il prezzo da pagare per cercare di uscirne nel modo più pulito possibile.

Alla luce di queste considerazioni deve essere letta la condotta del Ciontoli a seguito del ferimento; il ritardo nella chiamata dei soccorsi, le informazioni false e reticenti fornite prima al personale medico e paramedico, e poi agli inquirenti, così come la richiesta fatta al dottore competente di falsificare il referto affinché venisse taciuto ogni riferimento al colpo di pistola partito accidentalmente, sono tutti elementi indicativi della scelta consapevole operata dal Ciontoli.

Inoltre, l’utilizzo della stessa formula di Frank, del tutto ammesso dalle Sezioni Unite[6], è apparso in questo caso inopportuno.

Tale teoria non è uno strumento affidabile di indagine quando l’evento collaterale è incompatibile con il fine perseguito dal soggetto agente ovvero quando “il caso da esaminare si connota per un evento il cui verificarsi, pur messo in conto in modo calcolato, comporti per l’autore della condotta il sostanziale, più o meno integrale, fallimento del piano”. Si pensi al caso di colui che, al fine di ottenere determinate informazioni, sottoponga a sevizie la sua vittima la quale, a cause del trattamento subìto, muoia e non sia, quindi, più in grado di riferire quanto l’agente desiderava conoscere.

Nell’esempio sopramenzionato, così come nel caso oggetto del giudizio d’appello, applicando la formula di Frank, si giungerebbe alla assurda conclusione di dover escludere il dolo eventuale ogniqualvolta l’autore, qualora abbia previsto come certo l’evento morte, si sia astenuto dall’agire.

Per questo la Corte Suprema afferma che in tali ipotesi “non può escludersi che l’agente abbia operato una consapevole opzione accettando la verificazione dell’evento. Può infatti accadere che nell’agente prevalga la speranza, il desiderio di realizzare un certo risultato anche di fronte all’eventualità che proprio quella condotta renda definitivamente non realizzabile il risultato perseguito” [7].

4. Appello bis

Facendo applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nel caso Thyssenkrupp e richiamati dalla Corte di Cassazione nel caso de quo, i giudici del processo di appello bis sull’omicidio di Marco Vannini, con sentenza del 30 settembre 2020, hanno condannato Antonio Ciontoli a 14 anni di reclusione per omicidio volontario, ascrivendo così il fatto a titolo di dolo eventuale.

 


[1] Ass. app. di Roma, Sez. I, 1 marzo 2019, n. 3 in banca dati Leggi d’Italia P.A.

[2] Cass. Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343 in banca dati Leggi d’Italia P.A.

[3] Cass. Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343 cit. Nella massima ufficiale si legge: “il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo avere considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi”.

[4] Cass. pen, sez. I, 6 marzo 2020, n. 9049 in banca dati Leggi d’Italia P.A.

[5] Ass. app. di Roma, Sez. I, 1 marzo 2019, n. 3 cit. ove si legge “se ciò che Ciontoli vuole evitare è che si venga a sapere che ha sparato, non avrà intenzione a cagionare un evento che comporterebbe ineluttabilmente l’emersione proprio di ciò che vuole tenere nascosto: il fatto che abbia sparato”. E, ancora, “le richieste di soccorso, ancorchè condotte con modalità inaccettabili e mendaci, resterebbero prive di senso: Ciontoli avrebbe sin da subito messo in conto la morte del ragazzo, seminando però nel contempo tracce che conducevano alla sua persona e che avrebbero ineluttabilmente portato a determinare la reale dinamica degli eventi, con effetto gravemente pregiudizievole per sé o per i propri familiari.”

[6] Cass. Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343 cit. per la quale la formula di Frank sarebbe applicabile in tutti quei casi in cui il giudice sia in possesso di informazioni che “consentano di esperire il controfattuale e di rispondere con sicurezza alla domanda su ciò che l’agente avrebbe fatto se avesse conseguito la previsione della sicura verificazione dell’evento collaterale», e non potrà che condurre inevitabilmente alla negazione della sussistenza del dolo eventuale in tutti i casi in cui la risposta dovesse essere nel senso che l’agente, se avesse conseguito tale previsione, non avrebbe agito. Ma tale accertamento avrà carattere “sostanzialmente risolutivo” soltanto nei casi in cui la verifica imposta dalla formula di Frank possa esperirsi in maniera “affidabile e concludente”: in generale, infatti – ammonisce la Suprema Corte – l’accertamento del dolo eventuale deve avvalersi di tutti gli indicatori alternativi poc’anzi menzionati.

[7] Cass. pen, sez. I, 6 marzo 2020, n. 9049 cit.


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