Elementi costitutivi e condizioni obiettive di punibilità: distinzioni e conseguenze

Elementi costitutivi e condizioni obiettive di punibilità: distinzioni e conseguenze

La necessità di una esatta delimitazione degli elementi costitutivi del reato comporta conseguenze non ininfluenti sul piano pratico e si appalesa come necessaria soprattutto in seguito ai dubbi, emersi nel corso degli anni, circa la distinzione tra elementi del reato e condizioni di punibilità.

Ad oggi, è indubbiamente agevole distinguere tra elementi essenziali ed elementi accidentali.

Tra i primi rientrano l’elemento soggettivo e l’elemento oggettivo o materiale, legati dal nesso psichico che permette la riferibilità della condotta alla volontà dell’agente.

A questi si affiancano le circostanze attenuanti ed aggravanti, quali elementi accidentali della fattispecie, la cui sussistenza incide sulla entità della pena da comminare quale sanzione volta alla rieducazione del soggetto agente.

Vi sono casi, però, in cui le circostanze appaiono non come elementi accidentali della fattispecie di reato, e quindi quali “circum stant”, elementi che stanno attorno, bensì come veri e propri elementi costitutivi del reato.

La stessa problematica interpretativa sollevata dall’esatta comprensione di determinate circostanze all’interno della fattispecie è sollevata dalle condizioni di punibilità, di cui all’art. 44 c.p. . La menzionata disposizione, infatti, prevedendo una imputazione oggettiva di determinate condizioni, in assenza di qualsivoglia accertamento circa la sussistenza del nesso psichico, determina il verificarsi di una situazione atipica, la cui compatibilità con l’ordinamento è dubbia.

Invero, mentre gli elementi del reato sono permeati dall’elemento soggettivo che determina la condotta del soggetto, le condizioni obiettive di punibilità sono imputate in modo oggettivo al soggetto agente, indipendentemente dalla volontà di questi di realizzarle.

Proprio questo induce ad affrontare due differenti questioni.

Da un lato, se le condizioni obiettive di punibilità siano o meno elementi costitutivi del reato ovvero meri elementi esterni, al pari delle circostanze, la cui distinzione comporta risvolti pratici non irrilevanti, quale ad esempio in tema di luogo e momento di commissione del reato o di risarcimento del danno non patrimoniale in sede civilistica; dall’altro, se tale imputazione oggettiva sia compatibile con il principio di legalità alla base del nostro ordinamento.

Mentre in passato si riteneva che non fosse necessaria nemmeno la colpa del soggetto agente, ad oggi la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza ritengono che l’evento integrante la condizione obiettiva di punibilità debba essere attribuito all’agente a titolo di colpa, per non privare di significato il principio di legalità.

Invero, si è altresì evidenziato il rischio nel quale si incorrerebbe svincolando le condizioni obiettive di punibilità dall’accertamento dell’elemento soggettivo quantomeno colposo: così argomentando, difatti, si potrebbe incorrere nel pericolo di etichettare anche alcuni elementi del reato come condizioni, così difettando dell’accertamento dell’elemento psicologico del soggetto agente.

Per rispondere all’ulteriore quesito, è doveroso comprendere quale sia la ratio alla base della norma di cui all’art. 44cp.

Il legislatore, infatti, ha voluto con tale disposizione delimitare i casi in cui la realizzazione di un evento determina l’interesse dello Stato ad esercitare la sua funzione punitiva. In questo modo, con la realizzazione di una determina condizione, sussisterà il bisogno di infliggere una pena; nei casi diversi, al contrario, la fattispecie ripercuoterà conseguenze sul piano meramente personale del soggetto e, dunque, lo Stato riterrà di non dover agire.

Compreso ciò, sulla qualificazione di tali condizioni come elementi interni alla fattispecie o come elementi meramente esterni, in dottrina si sono contrapposti due orientamenti.

A parer del primo, la condizione obiettiva di punibilità sarebbe a tutti gli effetti un elemento costitutivo necessario ad integrare il reato.

Di diverso pensiero, invece, coloro che ritengono che la condizione di punibilità non determini la sussistenza o meno del reato ma sia un elemento estrinseco della condotta, futuro ed incerto.

A sostegno di questo secondo orientamento vi sarebbe peraltro un dato testuale fornito dal 2° comma dell’art. 44cp, ai sensi del quale il reato sottoposto a condizione ha un dies a quo del termine prescrizionale differente rispetto a quello previsto al 1° comma. Tale disposizione, dunque, sembrerebbe confermare la distinzione tra elementi costitutivi del reato e condizione obiettiva di punibilità, poiché sono previsti due diversi termini prescrizionali a seconda che sussista o meno la condizione obiettiva di punibilità.

Ciò detto, bisogna approfondire l’annosa questione su quali siano i criteri per distinguere gli elementi dalle condizioni di punibilità.

Giungono a sostegno dell’operazione interpretativa due criteri delineati dalla dottrina: un criterio formale ed un criterio sostanziale[1].

Il criterio formale attribuisce rilievo al mero dato terminologico fornito dalle disposizioni emanate dal legislatore. Ancorare siffatta –notevole- distinzione alla mera sussistenza di locuzioni quali “se dal fatto deriva che” non ha convinto la dottrina maggioritaria, la quale ha evidenziato che nel codice penale tali espressioni sono utilizzate anche per indicare fattispecie differenti, che nulla hanno a che vedere con le condizioni obiettive.

Si pensi, a titolo esemplificativo, all’utilizzo della medesima espressione nei delitti aggravati dall’evento, ove l’evento aggravato è un elemento costitutivo del reato, interno alla fattispecie stessa e la cui sussistenza è necessaria per l’integrazione della figura delittuosa.

Su differenti argomentazioni si basa, invece, il criterio sostanziale[2], che rinviene nel disvalore dell’illecito penale la distinzione tra le due fattispecie.

Tale criterio svincola l’evento dall’elemento psicologico del soggetto, ritenendo che l’accadimento possa non essere legato al soggetto agente da alcuna relazione psicologica. In quest’ottica, dunque, il legislatore ha inteso subordinare l’applicazione della pena a meri motivi di opportunità

Dunque, mentre gli elementi costitutivi rendono il fatto “meritevole di pena”, in quanto idoneo a ledere il bene protetto dalla norma incriminatrice posta proprio a protezione del bene stesso, le condizioni di punibilità attengono al “bisogno di pena” e compiono una analisi ulteriore.

Alla base di tale distinzione vi è l’ulteriore analisi, sopra accennata, circa l’interesse dello Stato a considerare imprescindibile o meno la punizione di determinate condotte. Ciò sembrerebbe, dunque, quasi celare il disinteresse statale a punire determinate condotte, seppur ritenute antigiuridiche e quindi meritevoli di pena ma non così tanto da abbisognarla in concreto.

Tale interpretazione sarebbe peraltro coerente con la disciplina storica dell’istituto, che fu coniato in epoca liberale quando iniziò a diffondersi il principio di legalità ed era necessaria una norma elastica che permettesse di superare i limiti frapposti alla punibilità di determinate situazioni; motivo per cui non vi è alcun riferimento all’accertamento dell’elemento psicologico ma una imputazione oggettiva in capo al soggetto.

Si pensi al caso scolastico del pubblico scandalo nell’incesto.

L’art. 564 c.p. recita “Chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o ascendente, o con un affine in linea retta, ovvero con una suocera o un fratello, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.

Il pubblico scandalo è una condizione obiettiva di punibilità dell’incesto, a prescindere dalla volontà dei colpevoli di realizzare lo scandalo.

In virtù di quanto detto, sembra più agevole ricostruire la distinzione tra le due figure.

Gli elementi costitutivi attengono agli accadimenti che ledono il bene protetto dalla norma incriminatrice in modo diretto e per la presenza di un elemento psicologico del soggetto agente; le condizioni, al contrario, sono elementi estranei alla sfera dell’offesa al reato, che si verificano in modo indipendente dalla volontà del soggetto e che a lui si ascrivono oggettivamente.

Torna utile, dunque, l’esempio sul pubblico scandalo sopra evidenziato.

Ferma restando questa differenza, appare superflua l’ulteriore distinzione che parte della dottrina aveva identificato, all’interno delle condizioni, tra c.d. condizioni interne e condizioni esterne.

Le condizioni di punibilità, invero, se fossero interne finirebbero per coincidere con gli elementi costitutivi del reato che, dall’interno, ledono il bene protetto dalla norma.

Operata tale distinzione, è interessante analizzarne le ripercussioni sul piano applicativo.

Come accennato, la prima distinzione tra elementi e condizioni è fornita proprio in merito di termine prescrizionale. L’art. 158 co. 2, infatti, fa dipendere il decorso prescrizionale dal giorno in cui la condizione si è verificata; se così non fosse, invero, il reato potrebbe prescriversi prima ancora della verificazione della condizione dal quale dipende la punibilità.

In considerazione di ciò, sorge il problema della compatibilità di un eventuale provvedimento di amnistia, cioè quella causa di estinzione del reato con la quale lo Stato manifesta l’intervenuto disinteresse a punire determinati comportamenti.

Solitamente, il provvedimento di amnistia ha un ambito temporale circoscritto. Nei casi in cui la condizione di punibilità si verifica in un momento differente rispetto alla commissione del reato, è dubbio quale sia il termine a dover essere preso in considerazione per beneficiare della causa estintiva.

Taluni hanno ritenuto che l’amnistia fosse applicabile solo se il reato è divenuto punibile ex art. 44 nel lasso temporale di interesse del provvedimento estintivo.

Altra dottrina ha invocato il principio generale del favore rei ritenendo che questo verrebbe leso se l’amnistia fosse fatta dipendere dal verificarsi di fattori esterni alla condotta dell’agente.

Si pensi al caso in cui il reato è stato commesso nel periodo previsto dal provvedimento estintivo dello stesso ma la condizione si sia verificata in un lasso temporale non coperto dall’amnistia.

La soluzione a tale interrogativo richiede un’analisi ontologica dell’amnistia. Questa, infatti, essendo una causa estintiva fa venir meno il bisogno di pena di un determinato reato ma non la sua antigiuridicità.

Orbene, con riferimento alle fattispecie ex art. 44 c.p., la punibilità sorge nel momento in cui si verifica l’evento e non prima, essendo prima la fattispecie solo astrattamente meritevole di pena.

Così argomento, non si dovrebbe ritenere che l’amnistia possa riguardare un periodo di tempo  nel quale la condizione dal quale dipende la punibilità non si è verificata.

L’indulto, invece, è una causa estintiva della pena e non del reato ed è un provvedimento generale, previsto dall’art. 79 Costituzione e dell’art. 174 c.p. .

In questa ipotesi, dunque, se il fatto di reato è tipico ed antigiuridico ma non ancora bisognoso di pena, perché la condizione futura ed incerta dal quale dipende la punibilità non si è verificata, l’indulto non avrà motivo di applicarsi poiché difetterà proprio la pena da estinguere.

Al contrario, successivamente al verificarsi della condizione di punibilità, l’indulto ben potrà estinguere la pena comminata a seguito della verificazione dell’evento dal quale deriva la punibilità, se la pena comminata rientra nei target edittali previsti dal provvedimento statale.

Ulteriore annosa questione che deriva dalla distinzione tra elementi costitutivi e condizioni di punibilità rileva sulla qualificazione della dichiarazione di fallimento all’interno del reato di bancarotta pre-fallimentare; non si pongono problemi per la bancarotta fallimentare, in considerazione della circostanza per cui in quest’ultima ipotesi la condotta è attuata direttamente nel corso della procedura fallimentare e dunque è indubbia la sussistenza della dichiarazione di fallimento, la quale rappresenta un mero presupposto del reato.

Al contrario, per anni la giurisprudenza ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento nelle ipotesi di bancarotta pre-fallimentare fosse elemento costitutivo della fattispecie, salvo poi operare un revirement in tempi più recenti.

Il reato de quo mira a punire l’imprenditore che, prima dell’intervenuta sentenza dichiarativa di fallimento, occulti e/o dissipi il patrimonio al fine di arrecare un danno ai creditore.

La particolarità della disposizione della L. Fall. è data l’inciso “se dichiarato fallito”, che ha suscitato problemi interpretativi. Per tale ragione, è bene seguire l’iter   seguito sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, al fine di comprendere quali siano i presupposti alla base della scelta di uno o dell’altro orientamento.

Sulla qualificazione della sentenza dichiarativa e sul ruolo che assume all’interno del reato in esame vi era una contrapposizione tra dottrina e giurisprudenza: la prima riteneva che la dichiarazione fosse una mera condizione obiettiva di punibilità, in quanto elemento esterno alla volontà dell’agente e solo futuro ed incerto; la giurisprudenza, al contrario, ravvisava in tale dichiarazione l’elemento costitutivo del reato di bancarotta pre-fallimentare, identificandolo ora con l’elemento soggettivo ed ora con l’evento stesso del reato.

La qualificazione in un senso o nell’altro comportava dirette conseguenze in tema di accertamento dell’elemento psicologico, posto che ai sensi dell’art. 44 c.p. le condizioni obiettive sono imputate oggettivamente in capo all’agente, indipendentemente dalla sua volontà, mentre gli elementi costitutivi del reato no.

Ed ancora, ne derivano conseguenza in merito al momento di decorrenza del termine prescrizionale, al beneficio di provvedimenti estintivi del reato, come già visto, nonché della determinazione della competenza territoriale del reato.

Una soluzione costituzionalmente orientata, come argomentato dai fautori della tesi dell’elemento costitutivo, non può prescindere dall’accertamento dell’elemento psicologico che ha animato l’agente e, dunque, la dichiarazione dovrebbe essere considerata quale elemento costitutivo del reato.

Contrariamente, però, i fautori della tesi opposta ritengono che non la dichiarazione non possa considerarsi elemento soggettivo del reato per due ordini di ragioni. In primo luogo, il dolo richiesto dalla norma incriminatrice è un dolo generico, dunque non è necessario che l’imprenditore fosse al corrente dello stato di crisi economica dell’impresa; in secondo luogo, la sentenza dichiarativa di fallimento è una condizione esterna alla volontà del soggetto, un evento futuro ed incerto, come riconosciuto dalla stessa disposizione secondo cui “se il soggetto è dichiarato fallito” e, dunque, non può rappresentare un elemento costitutivo di una diversa fattispecie delittuosa.

La qualificazione della sentenza come condizione cui subordinare la punibilità è sicuramente più coerente con l’ordinamento, atteso che non richiede l’accertamento dell’elemento psicologico; accertamento che condurrebbe ad improbabili risultati, stante la difficoltà di riferire alla volontà dell’agente un evento che, nella maggior parte dei casi, era estraneo alla sua sfera volitiva.

Per tutte queste ragioni, nell’ultimo decennio, le SS. UU. avevano confermato l’orientamento maggioritario assunto negli anni dalla giurisprudenza,  identificando nella sentenza dichiarativa di fallimento una condizione obiettiva di punibilità ex art. 44 cp.

Ciò nonostante, però, con un interessante quanto sorprendente revirement, ha fatto capolino una pronuncia di una sezione semplice, che ha provato a riaprire il dibattito su una questione che da anni interroga la giurisprudenza e le cui conseguenze pratiche, come accennato, non sono irrilevanti[3].

In conclusione, dunque, può certamente affermarsi che allo stato dell’arte la sentenza dichiarativa di fallimento sia annoverata dalla giurisprudenza maggioritaria come condizioni obiettive di punibilità e, pertanto, dal verificarsi della stessa decorreranno i termini prescrizionali del reato e le altre conseguenze affrontate.

Non è improbabile, però, che la questione sia solo temporaneamente risolta, in attesa di un ulteriore confronto giurisprudenziale su taluno degli elementi fondanti una tesi o l’altra, non rinnegata da recente giurisprudenza, già più volte analizzata in dottrina.

Dunque, è evidente come la qualificazione giuridica di elementi ora annoverati tra i segmenti costitutivi di un reato ed ora tra le condizioni obiettive di punibilità non è questione meramente dottrinale, su cui prestigiosi autori hanno speso parole e pensieri, bensì è un tema di primaria importanza ai fini dell’applicazione di diversi istituti, in grado di influire non solo sull’entità della pena quanto sull’effettiva necessità di applicarla.

 

 


[1] Sul punto: R. Garofoli, Manuale di Diritto Penale – parte generale, XV edizione, 2018/2019, p. 514
[2] Cfr. F. Mantovani, Diritto penale, Padova, Cedam, 1992, p. 813
[3] Cfr. Cass. Penale, sez. V, sentenza 12/09/2018 n. 40477

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