La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice penale

La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice penale

La disapplicazione del provvedimento amministrativo è lo strumento individuato dagli artt. 4 e 5 della Legge abolitrice del contenzioso aministrativo (n. 2248/1865 All. E cd. L.A.C.) e riservato, storicamente, al giudice ordinario qualora si trovasse al cospetto di un atto amministrativo che avesse leso un diritto civile o politico del cittadino.

In particolare, la lesività dell’atto era da attribuire alla sua illegittimità poichè la legge stabiliva che il giudice ordinario dovesse applicare l’atto amministrativo solo se conforme alle leggi. I vizi che potevano inficiare l’atto, del resto, erano quelli individuati sin dalle origini dalla giurisprudenza: violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere.

La ratio giustificatrice di tutela dei diritti dei cittadini, sottesa al potere disapplicativo, permane ancora oggi, sebbene molte siano le precisazioni neccesarie.

Allora, prima di affrontare la più specifica questione relativa al potere disapplicativo del giudice penale, occorre fare una breve premessa sulla genesi dell’istituto che, peraltro, involge anche profili ulteriori e relativi al “problema della giurisdizione”.

La legge in oggetto, infatti, aveva abolito i Tribunali speciali fino ad allora investiti della giurisdizione amministrativa, per affidare alle cure del giudice ordinario le controversie, civili e penali, aventi ad oggetto diritti soggettivi del cittadino, anche laddove parte fosse una pubblica amministrazione (art. 2 L.A.C).

Tuttavia, essa aveva espressamente previsto che il giudice ordinario non potesse “revocare o modificare” gli atti amministrativi che, nella prospettazione della parte istante, avessero leso i diritti soggettivi affidati alle sue cure. Così, per garantire ugualmente una piena tutela al privato, al giudice ordinario fu riconosciuto il potere disapplicare (cioè privare di efficacia) gli atti amministrativi illegittimi e, quindi, di decidere la controversia come se l’atto non fosse mai stato emanato.

Più precisamente, il potere disapplicativo aveva una duplice forma, potendosi distinguere il caso in cui la controversia avesse avuto ad oggetto proprio l’atto amministrativo (cd. sindacato diretto sull’atto ex art 4 L.A.C), ed il caso in cui, invece, l’atto amministrativo fosse “solo” assunto a fondamento del diritto soggettivo oggetto del giudizio ma non ne fosse oggetto diretto (cd. sindacato indiretto sull’atto ex art. 5 L.A.C).

La disapplicazione dell’atto, comunque, aveva efficacia relativa e cioè limitata al rapporto tra le parti in causa ed al caso concreto sottoposto al giudice. Per ottenere la caducazione dell’atto amministrativo, con effetti erga omnes e definitivi, il privato doveva rivolgersi, dapprima, all’autorità amministrativa attraverso i ricorsi amministrativi e, in seguito all’evoluzione normativa, al giudice amministrativo.

La giurisdizione amministrativa, infatti, ri-nacque con l’istituzione della IV Sez. del Consiglio di Stato (ad opera della legge n. 5992/1889). Da quel momento in poi, solo il giudice amministrativo poteva sindacare gli atti illegittimi della P.A., con poteri di annullamento assai più ampi di quelli meramente disapplicativi riservati al giudice ordinario.

E’ evidente, quindi, che la finalità di garanzia del potere disapplicativo, aveva una sua propria ragion d’essere quando ancora non esisteva una giurisdizione amministrativa dedicata alla cura degli interessi legittimi (la cui teorizzazione, come situazione giuridica soggettiva distinta dai diritti soggettivi, e connessa all’esercizio di poteri pubblicistici da parte della P.A., è iniziata proprio in quegli anni).

A quel tempo, quindi, l’applicabilità dell’art. 4 della L.A.C, relativo al sindacato diretto sull’atto da parte del giudice ordinario, poteva già dirsi dubbia.

Non così, invece, per il sindacato indiretto del giudice ordinario, di cui all’art. 5, che si configurava quando oggetto della controversia non  era l’atto amministrativo in sè, ma la situazione giuridica che lo assumesse in qualche modo a fondamento. In questo caso, l’accertamento della legittimità dell’atto amministrativo si poneva come questione pregiudiziale (di merito) in senso logico rispetto alla statuizione sulla situazione soggettiva fatta valere dinnanzi al giudice ordinario.

Il giudice quindi, per poter decidere la controversia, doveva accertare innanzitutto l’esistenza e la legittimità dell’atto amministrativo, perchè tale atto era fatto costitutivo del diritto soggettivo del privato.

Questa forma di sindacato sugli atti amministrativi esiste ancora oggi, e non pone particolari problemi con riferimento al sindacato del giudice civile. Anzi, la cognizione indiretta del g.o. sull’atto amministrativo, è piuttosto frequente quando vengano in luce diritti soggettivi dei privati e poteri vincolati della P.A.; essa opera, ad esempio, nei casi di opposizione all’ordinanza-ingiunzione con la quale la P.A. commina una sanzione pecuniaria amministrativa, sui quali ha giurisdizione il giudice ordinario ex art. 22 l. 689/81; o, ancora, in caso di controversie aventi ad oggetto i rapporti privatizzati di pubblico impiego ex art. 63 T.U.P.I., anche quando presuppongano l’atto amministrativo, con l’unico limite della contestazione dell’atto organizzatorio a monte perchè espressione di potere funzionale.

Il discorso è invece diverso per quanto riguarda i poteri del giudice penale.

In questo caso è infatti necessario non eludere, con la disapplicazione, il principio di legalità formale che governa tutta la materia penale e che si specifica nei corollari della riserva di legge, della tassatività e irretroattività della norma incriminatrice e, infine, del divieto di analogia (quantomeno in malam partem).

Il provvedimento amministrativo può, infatti, integrare in vario modo la norma penale. Quando si pone come presidio (ulteriore) alla tutela di interessi già affidati alle cure della pubblica amministrazione, la norma incriminatrice viene costruita “in bianco” o con la previsione di “elementi normativi”; ciò vuol dire che essa si presenta incompleta e che, per individuare quali condotte siano assoggettabili a pena, è necessario il rimando ad una fonte esterna quale è, appunto, il provvedimento amministrativo.

La differenza tra i due tipi di integrazione si apprezza poi sul piano “qualitativo”: la norma penale in bianco è una norma incompleta in astratto; per individuare le condotte illecite è infatti necessario il provvedimento amministrativo. Nel caso degli elementi normativi, invece, la fattispecie astratta è completa ma il rimando all’elemento esterno è necessario al fine di sussumere il fatto concreto al di sotto della norma incriminatrice ( in ciò si intravede la possibile lesione dei pp. di riserva di legge e tassatività della norma penale). In particolare, poi, il provvedimento amministrativo può costituire presupposto, oggetto o fine della condotta incriminata.

Gli esempi più noti di tale integrazione sono quelli offerti dall’ art 650 c.p., che punisce la contravvenzione ad un ordine legalmente dato dalla pubblica autorità, o dall’art. 44 del Testo Unico dell’Edilizia ( D.P.R 327/01) dove presupposto del reato è la mancanza del titolo abilitativo rilasciato dalla P.A. (in particolare del permesso di costruire) o, ancora, dai reati di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e di corruzione (art. 318 e 319 c.p.) dove è sempre necessario conoscere quali siano i “doveri d’ufficio” del pubblico ufficiale.

In questi casi, allora, ci si chiede se: il giudice penale debba sempre valutare, prima di ogni altro elemento, la legittimità dell’atto amministrativo richiamato dalla norma penale, anche quando la legittimità non sia posta dalla legge come requisito del provvedimento (teoria della tipicità sostanziale); se l’eventuale illegittimità dello stesso possa condurre alla sua disapplicazione; ed infine, se la sopravvenuta mancanza del provvedimento (dovuta alla disapplicazione) sia equiparabile alla sua mancanza ab origine.

Il rischio insito nella disapplicazione sta nel fatto che essa può operare in modo differente a seconda del caso concreto. Riprendendo gli esempi fatti, si può distinguere una disapplicazione in bonam partem ed una in malam partem: ad esempio, il soggetto che abbia disatteso un ordine della pubblica autorità ai sensi dell’art 650 c.p., laddove l’ordine fosse stato illegittimo, dovrebbe essere assolto perchè il fatto non sussiste.

Viceversa, se venisse in luce un titolo abilitativo rilasciato illegittimamente dalla P.A. in ambito edilizio, la sua disapplicazione, ad opera del g.o., comporterebbe che la costruzione realizzata dal soggetto imputato sia abusiva e pertanto sanzionabile. La disapplicazione, infatti, produrrebbe gli stessi effetti della mancanza originaria del titolo abilitativo.

In tutti questi casi, il rischio di lesione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole e del divieto di analogia in malam partem è piuttosto concreto; il soggetto agente infatti, risulta responsabile per un fatto non costituente reato al tempo della sua commissione che, per di più, è frutto dell’ interpretazione analogica di un’altra fattispecie incriminatrice (così nel caso del rilascio illegittimo del titolo edilizio).

La questione sull’ammissibilità e ampiezza del potere disapplicativo da parte del giudice penale, ha trovato una soluzione di principio proprio attraverso la materia degli abusi edilizi, in seguito a due opposte pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

La prima pronuncia è risalente al 1987 ( SS.UU. Giordano n.3/87). Con essa, i giudici di legittimità affermarono che, in ambito edilizio, le sanzioni penali previste dalla legge, hanno il solo scopo di presidiare la funzione autorizzatoria e di controllo svolta dalla pubblica amministrazione; non escludeva il reato, quindi, l’aver costruito in modo conforme agli strumenti urbanistici laddove fosse mancato il titolo abilitativo.

Per questo motivo, in presenza di un titolo abilitativo, e a meno che questo non fosse affetto da violazioni macroscopiche, il giudice penale non avrebbe dovuto ri-valutare la legittimità del provvedimento perchè la sanzione penale ricorreva solo per i casi di mancanza tout court del titolo abilitativo. In tali casi, inoltre, sarebbe stato difficile rinvenire in capo all’agente l’elemento soggettivo (dolo o colpa) necessario perchè si configurasse il reato; questi infatti, avrebbe fatto affidamento nella legittimità e correttezza dell’attività amministrativa deputata al rilascio del titolo abilitativo.

Si è parlato, in tal caso, di tipicità formale dell’illecito penale perchè il giudice non poteva sindacare la legittimità sostanziale del provvedimento amministrativo.

Successivamente però, l’orientamento è radicalmente mutato: con la sentenza a Sezioni Unite Borgia n. 11653/ 1993, la Suprema Corte ha abbracciato una nozione sostanziale della tipicità penale; ha infatti reinterpretato il bene giuridico tutelato dai precetti penali alla luce della rinnovata attenzione per l’uso del territorio, affermando che essi si pongono  a tutela del corretto ed armonioso sviluppo urbanistico ed edilizio.

Per questo motivo, si è detto, il giudice deve sempre accertare la conformità dell’intervento edilizio agli strumenti urbanistici vigenti, a prescindere dalla sussistenza o meno di un titolo abilitativo legittimo. Infatti, i titoli edilizi, costituiscono solo un aspetto della disciplina urbanistico-edilizia (essendo deputati al controllo delle attività dei privati) mentre le norme penali hanno una portata ben più ampia; se vi è conformità tra gli strumenti urbanistici e l’intervento realizzato, allora,  si ha, in realtà, un reato impossibile per inesistenza del suo oggetto (ex art. 49 II comma c.p.).

L’esito di questa affermazione, quindi, è che il sindacato del giudice penale sui provvedimenti amministrativi non ha nulla a che vedere con la disapplicazione di questi secondo il dettato dell’art. 5 L.A.C. Il provvedimento, infatti, non è presupposto formale della sanzione penale ma solo elemento costitutivo della norma incriminatrice.

Il giudice, pertanto, è chiamato “semplicemente” ad accertare se sussistano gli estremi del reato attraverso l’opera di sussunzione del fatto concreto al di sotto della norma incriminatrice; opera, questa, che costituisce il proprium della funzione giurisdizionale penale.


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