L’imputazione dell’evento non voluto nella fattispecie di cui all’art. 586 c.p.

L’imputazione dell’evento non voluto nella fattispecie di cui all’art. 586 c.p.

Ai sensi dell’art. 586 c.p., quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83 c.p., ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 c.p. sono aumentate.

La fattispecie c.d. “morte o lesioni come conseguenza di altro delitto doloso” ha in comune con l’omicidio preterintenzionale la realizzazione da parte dell’agente di un evento diverso e più grave di quello voluto, distinguendosi invece con riferimento al delitto base, il quale non deve coincidere con quello di percosse o lesioni.

Secondo l’opinione prevalente, l’art. 586 c.p. non è altro che un’applicazione specifica della figura di cui all’art. 83 c.p., ossia un’ipotesi speciale di aberattio delicti bioffensiva: anche in questo caso, infatti, si assiste al concorso formale tra un delitto doloso ed uno colposo; d’altra parte, si osserva, l’art. 83 c.p. non riguarda solo gli errori nell’utilizzo dei mezzi di esecuzione del reato, ma qualsiasi altra causa che possa essere intervenuta durante la fase di esecuzione del fatto e condotto alla realizzazione di un evento diverso da quello voluto.

L’elemento specializzante della fattispecie di cui all’art. 586 c.p., in particolare, deve essere individuato nella natura del reato presupposto, il quale deve essere necessariamente un delitto, nonché nel carattere dell’offesa non voluta, dovendo questa coincidere con la morte o con le lesioni, e nella previsione di un’aggravante speciale.

Di contrario avviso è invece un orientamento minoritario, il quale esclude che l’art. 586 c.p. costituisca un’ipotesi specifica di aberratio delicti bioffensiva, sottolineando le differenze che sussistono tra i due istituti.

Mentre nell’art. 83 c.p., infatti, l’evento non voluto deriva direttamente dal comportamento dell’agente, nella figura in parola la morte o le lesioni, quale conseguenza non voluto dal reo, discendono dal delitto doloso.

Secondo tale concezione, in pratica, le due fattispecie si distinguerebbero, non tanto sotto il profilo psicologico, quanto piuttosto in ragione della diversa disciplina del rapporto di causalità, il quale nella norma di cui all’art. 586 c.p. si individua solo ed esclusivamente con riferimento al delitto doloso e non alla condotta dell’agente.

Tanto premesso, in dottrina e giurisprudenza ci si chiede quale sia il criterio di imputazione della responsabilità per la morte o le lesioni non volute.

Secondo un primo e per lungo tempo assolutamente prevalente orientamento giurisprudenziale, la morte o le lesioni non volute devono essere imputate all’autore del delitto base doloso in virtù del solo nesso di causalità materiale, dovendo dunque ritenersi superflua ogni indagine sulla sussistenza in concreto della colpa in relazione all’evento non voluto, essendo necessaria solo quella sulla condotta esecutiva del delitto doloso.

Si sostiene, in particolare, che la lettera della legge non richiede esplicitamente la colpa nella produzione dell’evento non voluto: l’inciso “a titolo di colpa’’, contenuto nell’art. 83 c.p., si riferirebbe infatti solo alle conseguenze sanzionatorie (nel senso che l’evento non voluto viene punito come se fosse colposo) e non al fondamento della responsabilità, che rimarrebbe oggettiva.

In secondo luogo, si dice, interpretando diversamente entrambe le norme diventerebbero pressoché inutili: l’imputabilità dell’evento non voluto, infatti, potrebbe avvenire secondo i criteri ordinari dell’imputazione colposa.

Infine, il criterio di imputazione fondato sulla responsabilità oggettiva sarebbe maggiormente conforme alla logica di rigore che connotava l’atteggiamento del legislatore al momento della redazione del codice.

Secondo un altro orientamento, invece, l’evento lesivo, conseguenza del delitto doloso commesso, deve essere imputato al colpevole a titolo di colpa per violazione di legge, in quanto l’art. 43 c.p. annovera tra i criteri di qualificazione dei comportamenti colposi anche l’inosservanza di legge, nell’ambito della quale non vi rientrano solo le violazioni attinenti a leggi aventi carattere esclusivamente cautelare, ma anche quelle aventi ad oggetto le stesse norme penali incriminatrici.

La norma penale, infatti, accanto alla funzione repressiva, assume anche una rilevanza preventiva, contenendo il divieto di realizzare una determinata condotta che, per la sua spiccata pericolosità, appare contraria alle esigenze di prevenzione poste alla base dell’incriminazione di un reato colposo.

La colpa sarebbe presunta nella violazione della norma che incrimina il delitto base doloso e, pertanto, non richiederebbe alcun accertamento in concreto in ordine ad un’eventuale negligenza, imprudenza o imperizia dell’agente.

La tesi della responsabilità oggettiva e quella della colpa specifica portano sostanzialmente a risultati identici, ritenendo che ai fini dell’imputazione dell’evento non voluto sia sufficiente verificare che lo stesso sia la conseguenza della condotta posta in essere dall’agente, giustificando dunque la sanzione sulla base del solo nesso di causalità materiale.

Un terzo orientamento, ancora, ai fini dell’imputazione della morte o delle lesioni ritiene necessario verificare, oltre al nesso di causalità, la prevedibilità in astratto dell’evento.

Tale indirizzo si sostanzia nel richiamo ad un criterio di prevedibilità in re ipsa, meramente formale e di stile, ovvero desunta dalla notorietà e dalla frequenza del pericolo connesso ad un certo tipo di condotta secondo un criterio di normale successione degli eventi, senza che sia invece necessario ricostruire le specifiche e concrete modalità di verificazione dell’evento.

La tesi della prevedibilità in astratto finisce così per porsi sullo stesso piano di quelle precedenti, andando a fondare l’addebito di responsabilità per l’evento non voluto sulla base del solo nesso di causalità materiale.

In ambito dottrinale si fa spazio poi un’ulteriore teoria, c.d. responsabilità da rischio totalmente illecito, secondo la quale l’imputazione a titolo oggettivo dell’evento diverso da quello voluto non contrasterebbe in realtà con il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 della Carta fondamentale: il principio di responsabilità colpevole, infatti, così come enunciato dalla Consulta sulla base della norma menzionata, non implicherebbe necessariamente una responsabilità per dolo o colpa, quanto la possibilità che l’agente sia eticamente rimproverabile per l’evento cagionato, e quindi che lo stesso abbia avuto un dominio personale sul fatto.

La necessità di tale dominio è assicurata dalla prevedibilità ed evitabilità dell’evento nella situazione concreta, in virtù del combinato disposto degli artt. 42, comma 3 e dall’art. 45 c.p., il quale dà rilevanza al caso fortuito, quale evento imprevedibile, e alla forza maggiore, quale evento inevitabile.

Secondo siffatta interpretazione è infatti impossibile muovere un rimprovero per colpa nei confronti di colui il quale agisce già in ambito illecito, poiché quando è già vietata l’attività di base non è possibile configurare in capo all’agente alcuna regola cautelare e pertanto non si può parlare di colpa.

In altre parole, poiché l’agente tiene una condotta di base illecita, non sarebbe necessaria la violazione di regolari cautelari od il superamento del rischio consentito, ma l’assunzione del rischio totalmente illecito giustificherebbe di per sé l’attribuzione della responsabilità ed un trattamento sanzionatorio più rigoroso di quello previsto per i reati colposi.

Detto questo, al fine di individuare la soluzione preferibile non si può certamente prescindere dal principio di colpevolezza e dalla sentenze della Consulta che gli hanno attribuito esplicito valore costituzionale.

Secondo la Corte, in particolare, il fatto imputabile – perché sia legittimamente punibile – deve necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica, in mancanza della quale verrebbe meno l’esigenza di rieducazione del reo e dunque la principale funzione che l’ordinamento attribuisce alla pena.

Ne discende, dunque, che il rispetto del principio di cui all’art. 27 della Costituzione, e nello specifico del carattere personale della responsabilità penale, esige che tutti gli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente e quindi ad esso rimproverabili.

La Consulta è così giunta ad identificare la responsabilità personale, richiesta dall’art. 27 citato, con la responsabilità per fatto proprio colpevole.

Sulla base delle suddette considerazioni, è evidente come un’interpretazione adeguatrice dell’art. 586 c.p. imponga di disattendere sia il primo orientamento, il quale formula un’ipotesi di responsabilità oggettiva vera e propria, fondata esclusivamente sul nesso di causalità materiale, sia gli altri orientamenti che, come rilevato, non si differenziano nella sostanza e negli effetti da una ipotesi di responsabilità oggettiva, come quello della colpa presunta per violazione della legge penale o quello che richiede la prevedibilità in astratto dell’evento.

La ricostruzione del principio di colpevolezza così come effettuata dalla Corte costituzionale, infatti, impedisce di addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi che a lui non sono rimproverabili.

Ne consegue che l’unica interpretazione conforme al principio costituzionale di colpevolezza è quella che richiede, anche nella fattispecie di cui all’art. 586 c.p., una responsabilità per colpa in concreto, ossia ancorata ad una violazione di regole cautelari di condotta e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità, in concreto e non in astratto, dell’evento cagionato.

Questa interpretazione, del resto, è quella che si pone più in armonia con il vigente sistema penale, dal momento che la configurazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva per l’evento più grave non voluto, in assenza di un coefficiente di prevedibilità in concreto, sarebbe anche incoerente con il regime di imputazione soggettiva delle aggravanti di cui all’art. 59 c.p.

L’obiezione in base alla quale non è possibile configurare una colpa in capo di chi versa in re illicita non può infatti risultare decisiva.

In primo luogo, si osserva, la configurabilità di una colpa in attività illecita non può certamente essere negata sulla base di quelle argomentazioni che escludono un addebito colposo per inosservanza di leggi penali, sulla base del fatto che non avrebbe senso imporre l’adozione di determinate cautele in capo a chi sta compiendo un illecito doloso.

Ciò, infatti, non esclude la possibilità che l’agente possa essere destinatario di regole cautelari anche in occasione dell’esecuzione dolosa di un reato, finalizzate ad evitare e quindi prevenire ulteriori eventi di danno.

Secondo la Consulta, d’altronde, l’esclusione della possibilità di configurare una colpa in capo a chi versa in re illicita comporterebbe un’evidente violazione del principio di uguaglianza, finendo per porre sullo stesso piano chi cagiona l’evento ulteriore non voluto in circostanze che ne rendevano agevole la previsione e chi invece lo realizzi in circostanze tali da escluderne la prevedibilità.

Detto questo, deve ritenersi che le norme cautelari di condotta non possano che valere anche con riferimento a chi opera illecitamente, al fine di evitare che dalla condotta, costituente già di per sé reato, possa derivare la verificazione di eventi dannosi ulteriori.


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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

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