L’interventismo statale nell’Italia pre-repubblicana

L’interventismo statale nell’Italia pre-repubblicana

Il presente contributo mira ad indagare, anzitutto, il netto contrasto tra il ruolo assunto dallo Stato italiano nell’economia di inizio Novecento e ciò che questo ha invece rappresentato per il sistema produttivo durante il Ventennio fascista, mettendo infine in luce quelle peculiarità che si sarebbero poi irrimediabilmente propagate finanche in età repubblicana.

La crisi dello Stato Liberale

Persino in un’Italia caratterizzata dal liberismo economico, e dunque dal mancato impegno della macchina statale nel governo dell’economia1, come quella postunitaria vi furono dei tentativi di approccio in chiave collaborativa tra Stato e società civile.

Nonostante ciò, è possibile constatare che fino alle soglie del XX secolo la gestione dei servizi pubblici fu lasciata al comparto privato, e pertanto agli operatori economici privati, mentre il potere amministrativo si occupò esclusivamente della realizzazione in via diretta dei lavori pubblici.

L’atteggiamento astensionista del potere pubblico cominciò difatti a mutare solo agli albori del nuovo secolo: già nei primi anni del Novecento si registrò un incremento degli interventi nel settore infrastrutturale, soprattutto nelle aree meno sviluppate della Penisola, come pure la creazione di numerose imprese pubbliche a sostegno di settori fondamentali quali pubblici servizi e credito.

Si assistette quindi ad una progressiva integrazione tra società ed istituzioni mai vista prima: mentre la Pubblica Amministrazione cominciava a sperimentare nuove modalità di organizzazione in netto contrasto con quanto implementato sino ad allora, logiche tipicamente privatistiche ed imprenditoriali fecero breccia nei meccanismi burocratici dell’epoca al punto di instaurarvi modelli gestionali assolutamente innovativi.

Per di più, anche le stesse funzioni pubbliche mutarono, tanto in termini quantitativi quanto qualitativi: se da un lato si assunsero nuovi servizi, dall’altro non si esitò ad assolvere i compiti tradizionali ispirandosi a logiche completamente diverse e finalmente attente a preservare la convivenza del settore pubblico e di quello privato, non solo nella sfera sociale ma anche in quella economica.

Concretamente, la prima marcata cesura fra l’una e l’altra inclinazione vi fu a proposito del servizio ferroviario: l’istituzione dell’Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato nel 1905 segnò l’assunzione del controllo delle linee ferroviarie nazionali, dopo decenni di gestione privata, direttamente in capo allo Stato.

Tale “nazionalizzazione” fu in buona parte dovuta alle spiccate inefficienze e difficoltà operative che da tempo contrassegnavano l’erogazione del servizio da parte delle  imprese  private.

In seguito ad un acceso dibattito parlamentare, fu promulgata la L. 22 aprile 1905, n. 137 che, sulla scorta della soluzione accolta nel 1903 per le aziende municipali, creò una vera e propria azienda di Stato adibita alla direzione delle strade ferrate.

Fu un’assoluta novità nonché la prima per il sistema amministrativo italiano: posta alle dipendenze del Ministro dei Lavori Pubblici e di conseguenza sotto la responsabilità ministeriale, in principio la reggenza dell’impresa fu conferita ad un gruppo di manager.

Il Legislatore aveva disegnato un’azienda statale sciolta dalla maggior parte dei vincoli pubblicistici allora vigenti, e ciò condusse immancabilmente all’instaurazione di una tipica struttura di stampo privatistico dai poteri decisamente accentrati; le perplessità a riguardo però furono così numerose che già la consecutiva L. 7 luglio 1907, n. 429 fissò limiti più stringenti per la gerenza dell’azienda2.

Nel giro di breve le Ferrovie dello Stato cominciarono a perdere in termini di autonomia sino a divenire uno dei tanti apparati amministrativi esistenti.

In qualunque modo, tenuto conto del fatto che sempre nel 1907 lo Stato riassunse finanche il servizio telefonico, prima in concessione ai privati, il rigoroso disimpegno ottocentesco poteva dirsi pienamente superato.

Nel solco del percorso innovativo intrapresosolo pochi anni dopo venne la volta della riforma in assoluto più controversa dell’età giolittiana: l’istituzione del monopolio statale delle assicurazioni sulla vita.

Nel 1912 il Governo era alla ricerca di uno strumento che consentisse di pagare le pensioni ed incrementare gli investimenti nel settore sociale, senza però intaccare le risorse statali già in buona parte impiegate per la conquista definitiva della Libia.

Eppure, per ottenere un tale risultato, bisognava anzitutto distaccarsi dal Ministero del Tesoro: un ministero o un’azienda autonoma come quella creata per le ferrovie non avrebbero di certo consentito di avere un bilancio con una contabilità separata da quella dello Stato.

Fu così che con la L. 4 aprile 1912, n. 305 si giunse allora ad istituire un organismo dotato di un assetto organizzativo sicuramente rivoluzionario per l’epoca, tanto è vero che l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) fu il primo ente pubblico nazionale della storia amministrativa del nostro Paese.

Il nuovo soggetto giuridico era natura schiettamente privatistica: i dipendenti, infatti, erano sottoposti ad un rapporto di lavoro privato e partecipavano alla divisione degli utili.

Inoltre, la normativa in esame attribuiva poteri molto vasti al direttore generale ed al consiglio di amministrazione, tanto che quest’ultimo approvava autonomamente persino lo statuto che disciplinava la struttura dell’ente.

Dunque l’amministrazione centrale cominciava ad assumere un ruolo da protagonista anche nelle dinamiche economiche del mercato, non più in qualità di mero organo di disciplina dall’esterno bensì come vero e proprio produttore di beni e servizi.

In realtà il dibattito sull’attribuzione del monopolio di un ramo assicurativo così rilevante come quello delle assicurazioni sulla vita fu molto serrato: l’opposizione alla riforma fu inflessibile, al punto che all’approvazione della L. 305/1912 seguì una moratoria di ben 10 anni a ritardarne l’attuazione.

Di conseguenza l’ente comincio ad operare quando già si era istaurato lo Stato fascista, «che cedette alla volontà degli ambienti imprenditoriali, facendo dell’INA solo un ente assicurativo pubblico operante sul mercato accanto ai privati, senza mai attribuirgli quel monopolio per il quale era stato concepito»3.

Lo Stato fascista

La fine dell’età giolittiana prima e lo scoppio della Prima guerra mondiale poi non compromisero tuttavia il successo e la crescente diffusione del modello dell’ente pubblico, sicché divenne il protagonista indiscusso del nuovo ordinamento amministrativo fascista.

In effetti, fu proprio nel corso degli anni Venti che finirono sostanzialmente dissolti anche gli ultimi confini rimasti tra l’area pubblica e quella privata4: lasciarono il posto a ibridazioni e forme giuridiche decisamente insolite, spesso frutto di commistione tra diritto amministrativo e diritto privato5.

In breve, benché l’amministrazione andasse cercando la collaborazione dei singoli già nei primi anni del XX secolo, conformandosi di fatto a logiche e procedure tipiche delle imprese private, è solo con l’avvento del Fascismo ed il consequenziale regime autoritario che questa tendenza venne cristallizzata.

Durante il conflitto, diversi ministeri si erano di fatto trasformati in “amministrazioni industrialiste” per rispondere alle esigenze dettate dal clima di mobilitazione generale.

Una volta superata l’emergenza, però, ci si rese conto che, nonostante le spinte degli ambienti conservatori e liberisti, il modus operandi tradizionale non era più rinnovabile.

E tutto questo per ragioni in primo luogo economiche: instauratosi come Governo di stampo garantista e liberista, già dalla seconda metà degli anni Venti il Regime fascista cominciò a sviare dai propositi originari, specificatamente tradizionali, abbracciando all’opposto soluzioni organizzative proprie dell’imprenditoria.

La contraddizione tra quanto dichiarato agli esordi e quanto poi invece perseguito dallo Stato fascista si manifestò soprattutto riguardo alla gestione pubblica dei servizi a carattere imprenditoriale.

Invero, all’interno di questo settore il modello tradizionale dell’ “impresa ministeriale” venne presto sostituito con quello dell’azienda autonoma: solo tra il 1925 ed il 1928 ne furono istituite ben quattro.

La struttura organizzativa di queste aziende era d’ispirazione evidentemente giolittiana: sottoposte ad un ministero che se ne assumesse la responsabilità politica, i poteri decisionali e gestionali erano appannaggio del consiglio d’amministrazione, mentre spettava al direttore generale supervisionare l’attività aziendale nel suo complesso.

Sebbene in questi nuovi organismi la matrice privatistica potesse apparire sfumata, per il contesto amministrativo italiano costituivano un significativo sforzo di intraprendere la gestione di attività pubbliche finanche in forma privata6.

Peraltro, si ricordi che il modello civilistico societario trovò largo impiego già a partire dalla fine di quegli stessi anni Venti, tanto nella forma della partecipazione mista che della proprietà pubblica: tra i tanti esempi l’Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP), società a capitale pubblico operante nel settore petrolifero.

Simultaneamente, andava altresì perfezionandosi il processo di entificazione: benché l’INA di per sé non fosse ancora entrato in funzione, si fece fin da subito gran uso del suo archetipo, tanto che venne adottato per funzioni amministrative anche molto diverse tra loro.

Già con la legge 9 luglio 1926, n. 1162 venne creato l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), ente pubblico di ricerca che tra l’altro segnò la fuoriuscita definitiva della statistica dalle competenze ministeriali.

Seguì presto l’istituzione di numerosi enti pubblici nel settore dell’assistenza e della previdenza.

Insomma, nonostante gli iniziali intenti del Fascismo, si stava proseguendo nel solco delle riforme giolittiane: la Pubblica Amministrazione continuava difatti a sperimentare prassi gestionali e burocratiche molto innovative, basate sull’aziendalismo e di conseguenza sempre più simili ai metodi tipici del comparto privatistico.

Del resto l’ingerenza dello Stato raggiunse la sua intensità massima precisamente negli anni Trenta, quando in Italia si sviluppò un sistema economico fondato sul monopolio: in buona sostanza, lo Stato escludeva i privati dai settori produttivi fondamentali e ne assumeva la gestione in via diretta o in via indiretta, tramite concessione; per le altre attività imprenditoriali in cui esso si trovava invece in concorrenza con i privati, era comunque spesso previsto un sistema di autorizzazioni che ne limitasse l’accesso.

Ad una tale ipertrofia del settore pubblico si accompagnò, inevitabilmente, la proliferazione non solo di varie tipologie di enti pubblici, ma anche di società per azioni a partecipazione pubblica.

Queste si moltiplicarono rapidamente soprattutto dopo l’adozione del regio decreto legge 23 gennaio 1933, n. 5, il quale coniò, intanto solo come ente provvisorio, l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI).

Nato con lo scopo di salvare le banche in crisi e le circa 1500 imprese a loro connesse dopo il crollo della borsa di Wall Street, in realtà col volgere degli anni l’IRI divenne holding pubblica nonché il vero centro nevralgico dell’intervento pubblico nell’economia italiana: basti pensare che nel 1934 arrivò a detenere il 48,5% del capitale azionario italiano.

Col tempo l’intervento dello Stato fascista si fece sempre più capillare, al punto di spingersi ben oltre l’ambito economico: invero, anche gli interessi politici vennero raggiunti dall’azione statale.

A giocare un ruolo strategico in questo senso fu lo stesso Partito Nazionale Fascista, «immensa macchina organizzativa con una notevole capacità di mobilitazione anche periferica»7 a cui si deve «il primo processo di politicizzazione diffuso su base nazionale dell’Italia unita»8.

Riconosciuto come ente pubblico nel 1928 ed inquadrato all’interno dello Stato nel 1929, fuoriuscì di conseguenza presto dalla sfera eminentemente politica per dirigere all’opposto funzioni pubbliche, anche di rilievo, nei settori professionali e produttivi del Paese.

Il Fascismo mirava così a superare una volta per tutte i tradizionali confini che vedevano le istituzioni e corpi civili, dotate di poteri pubblicistici le prime e di prerogative civilistiche, finalizzate alla tutela di interessi individuali o categoriali, le seconde.

Nella maggior parte dei casi questo esito lo si raggiunse attribuendo forma pubblica proprio secondo il modello dell’ente a rappresentanze ed organizzazioni portatrici di interessi privati.

Tuttavia, a segnare una svolta ancor più decisiva nella storia amministrativa italiana fu l’instaurazione del sistema corporativo: con la legge 5 febbraio 1934, n. 164 il Governo intendeva infatti «ordinare la rappresentanza degli interessi economici e […] portarla all’interno dello Stato»9, realizzando di fatto l’autogoverno delle varie categorie produttrici mediante l’istituzione di 22 corporazioni nel settore agricolo, industriale, commerciale e dei servizi.

Inoltre, in linea con il processo di irrobustimento delle politiche sociali già intrapreso dal Regime negli anni Venti ed ancor prima dal Governo Giolitti, nello stesso anno si giunse pure alla creazione di primo sistema di welfare: a rivestire senz’altro un ruolo di prim’ordine furono l’Istituto Nazionale fascista di Previdenza Sociale (INFPS) e l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INFAIL).

Indubbiamente, questo sviluppo ipertrofico del processo di entificazione negli anni Trenta era dovuto in special modo alla disciplina derogatoria e dunque “privilegiata” che regolava gli enti medesimi: spiccavano la personalità giuridica distaccata da quella dello Stato, le figure apicali analoghe a quelle delle imprese private, i rapporti di lavoro privatistici per i dipendenti, l’autonomia gestionale e di bilancio; non ultima la sottrazione alle regole per la contabilità dello Stato come pure ai controlli della Corte dei Conti.

Il successo fu inarrestabile, cosicché tra il 1922 ed il 1940 lo Stato Fascista diede vita ad almeno 260 enti pubblici.

Concludendo, il Governo Mussolini intraprese e portò avanti la costruzione dello Stato Fascista influenzando non poco le funzioni ed i modelli organizzativi della burocrazia amministrativa; con la creazione di  una sorta di “amministrazione parallela” accanto ai tradizionali apparati amministrativi, si configurò irrimediabilmente un’amministrazione eterogenea e multiforme, composta da un nutrito numero di enti ed imprese pubbliche10.

Una discontinuità così netta rispetto a quelli che erano i canoni ottocenteschi del liberalismo, all’epoca dettata dalla necessità di imporre, in ogni settore, direttive consone ai programmi politici del Fascismo.

Una volta caduto il Regime, toccò poi alla nuova democrazia gestire una siffatta eredità amministrativa, pesante e stimolante allo stesso tempo: non a caso tanti moduli gestionali di stampo privatistico affermatisi durante il Fascismo si ritroveranno, più diffusi che mai, in età repubblicana.

 

 

 

 

 


1 Cfr. S. Cassese, La nuova costituzione economica, Roma – Bari, Laterza, 2012, p. 10-11.
2 Cfr. S. Sepe, L. Mazzone, I. Portelli, G. Vetritto, Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2006), Roma, Carocci Editore, 2007, pp. 101-102.
3 Ivi, p. 103.
4 «Tra pubblico e privato […] s’interpone una zona grigia, contrassegnata da un’attività, svolta da soggetti pubblici, che persegue utilità collettive ed obiettivi di interesse generale, non riconducibile, dunque, alla patrimonialità civilistica, ma diversa anche dal campo tradizionale di esplicazione della sovranità, priva dei consueti connotati imperativi» (U. Borsi, Nuovi orientamenti e nuovi profili del diritto amministrativo italiano, Riv. trim. dir. pubbl., XII, 1920, I, p. 13).
5 Cfr. L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma, Laterza, 2001, p. 421.
6 Cfr. S. Sepe, L. Mazzone, I. Portelli, G. Vetritto, op. cit., p. 106.
7 G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, Il Mulino, 2013, p. 353.
8 Ibidem.
9 S. Cassese, op. cit, p. 18.
10 Cfr. S. Sepe, L. Mazzone, I. Portelli, G. Vetritto, op. cit., p. 141.

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Ilaria Baisi

Laureata cum laude in Giurisprudenza (percorso transnazionale), è attualmente dottoranda di ricerca in Diritto Amministrativo e dell'Ambiente presso l'Università degli Studi di Firenze. È allieva del seminario di Studi e Ricerche Parlamentari "Silvano Tosi" e nel 2022 ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense.

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