Obblighi di bonifica del sito inquinato e curatela fallimentare: la risposta dell’Adunanza Plenaria

Obblighi di bonifica del sito inquinato e curatela fallimentare: la risposta dell’Adunanza Plenaria

Ricadono sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 del D.lgs. 152 del 2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare” (Adunanza Plenaria n. 3 del 26 gennaio 2021)

La questione attinente alla sussistenza o meno in capo alla curatela fallimentare degli obblighi di bonifica del sito inquinato di proprietà dell’impresa dichiarata fallita è assai delicata e dibattuta.

Per un miglior inquadramento del tema giova riportare il disposto dell’art. 192 del d.lgs. 152 del 2006 (di seguito Codice dell’ambiente) il quale dispone che: L’abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati. 2. È altresì vietata l’immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee. 3. Fatta salva l’applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate. 4. Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni”.

La disposizione costituisce un’esemplificazione del principio del “chi inquina paga” di matrice comunitaria (direttiva 2004/35), rilevante in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale e pone degli obblighi di recupero e di rimessione in pristino in capo a chiunque abbia realizzato le condotte ivi descritte, in solido con il proprietario del suolo ed eventuali titolari di diritti reali o personali di godimento dell’area interessata.

Quid iuris laddove la società proprietaria dell’area inquinata acclarata responsabile dell’inquinamento sia dichiarata fallita? Gli obblighi in questione perdono rilevanza giuridica o gravano sulla curatela fallimentare? Sul punto gli orientamenti giurisprudenziali sono sempre stati controversi, il che ha giustificato l’intervento nomofilattico del Consiglio di Stato.

Una prima tesi, prevalente sino alla pronuncia della Plenaria, era solita fornire risposta negativa a tale quesito muovendo dall’assunto che il curatore non possa essere qualificato come un “successore” dell’impresa sottoposta a fallimento o per dirla in altri termini, quale soggetto “subentrato nei diritti” dell’impresa fallita.

Ed invero, la società fallita mantiene la propria soggettività giuridica nonché la titolarità del proprio patrimonio, perdendone solo la facoltà di disposizione in virtù dello spossessamento; di contro, la curatela fallimentare non acquista la titolarità dei beni ma si limita, in ragione del munus publicum rivestito, ad amministrarli sotto la sorveglianza del giudice delegato in vista dello scopo liquidativo.

In tale ottica, pertanto, non potendo il curatore essere considerato un rappresentante o un successore del fallito ma solo un “terzo” con poteri di gestione ex lege del patrimonio di questi, verrebbero a mancare i presupposti per invocare l’applicazione del citato art. 192, che pone gli obblighi di ripristino in primo luogo a carico del responsabile dell’inquinamento nonché del proprietario versante in dolo o in colpa.

Orbene, gravare la curatela fallimentare degli obblighi di ripristino implicherebbe prospettare una legittimazione passiva della stessa incongrua rispetto ai limiti che connotano l’assolvimento del munus publicum cui  è chiamata, frustrando nel contempo anche l’applicazione del principio del chi inquina paga, teso ad addebitare i costi ambientali al soggetto che si sia reso effettivamente responsabile della compromissione ecologica. I costi dell’inquinamento sarebbero traslati difatti sui creditori, ossia su soggetti che non hanno alcuna correlazione con l’inquinamento del sito.

Una diversa tesi, sostenuta peraltro dall’ordinanza di rimessione (Cons. Stato Sez. IV n.5454/2020) perviene invece alla conclusione che il curatore fallimentare, in quanto detentore del bene immobile su cui i rifiuti inquinati insistono, possa assumere la legittimazione passiva all’ordine di rimozione dei medesimi.

È proprio quest’ultimo orientamento a persuadere l’Alto Consesso, in ragione di una sua maggior rispondenza alla normativa comunitaria e nazionale nonché alle esigenze di tutela ambientale.

È pacifico che il curatore non possa essere considerato quale avente causa del fallito nel trattamento dei rifiuti, eccettuati ovviamente quei casi in cui la produzione dei rifiuti sia ascrivibile proprio all’operato del curatore; è parimenti indubbio che la società fallita mantenga inalterata la propria soggettività giuridica e che rimanga titolare del patrimonio sebbene la gestione dello stesso sia affidata alla curatela.

Ma il fatto che la curatela non realizzi un fenomeno successorio sul piano giuridico non implica che debba essere esclusa dagli obblighi di bonifica del sito inquinato di cui assume  la gestione.

La legittimazione passiva agli ordini di rimozione dei rifiuti inquinanti rinviene infatti la propria causa nella qualifica di “detentore” che il curatore assume a seguito dell’inventario dei beni ex artt. 87 e ss. L. fallimentare.

Il profilo da focalizzare non attiene dunque alla responsabilità dell’inquinamento bensì alla concreta situazione di detenzione dell’area sulla quale i rifiuti sono situati.

Ad avviso della Plenaria, dunque, è questa l’unica lettura compatibile con il quadro normativo europeo e nazionale e con i principi di prevenzione e di responsabilità allo stesso sottesi.

Difatti, nell’ottica europea i rifiuti devono essere rimossi, pur a fronte della cessazione dell’attività, o dall’imprenditore che non sia fallito o da chi ne amministra il patrimonio all’esito della dichiarazione di fallimento.

L’art. 3 par. 1 punto 6 della direttiva 2008/98 è chiaro nel distinguere il produttore dal detentore, ossia la persona fisica o giuridica che è in possesso dei rifiuti o meglio dei beni immobili sui quali i rifiuti sono situati; non sono pertanto dirimenti in materia quelle distinzioni nostrane sui concetti di detenzione e possesso, posto che ciò che rileva è unicamente la disponibilità materiale dei beni sulla base di un titolo che permetta o imponga la gestione di un patrimonio nel quale sono ricompresi i beni immobili inquinati.

Sicuramente l’attività della curatela fallimentare è inquadrabile alla stregua di un’attività di amministrazione di un patrimonio altrui: vi è altresì, come sottolineato dall’ordinanza di rimessione, un rapporto gestorio che rende finanche superfluo approfondire il concetto di detenzione.

Per i fini perseguiti dal diritto comunitario è quindi necessario e sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti da colui che ne abbia materialmente acquisito la detenzione o che ne abbia comunque la disponibilità materiale, senza che vi sia bisogno di indagare la natura del titolo giuridico sotteso.

È sempre la disciplina comunitaria, poi, a chiarire che i costi della gestione dei rifiuti debbano essere sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti: ciò, evidenzia la Plenaria, è perfettamente in linea con il principio del chi inquina paga, ragion per cui, solo chi non è detentore dei rifiuti, come ad esempio il proprietario incolpevole dell’area su cui i medesimi insistono, potrà usufruire dell’esimente interna prevista dall’art. 192 comma 3 del Codice dell’ambiente.

Di ciò non potrà evidentemente giovarsi il Fallimento che, quand’anche non prosegua l’attività imprenditoriale, potrà essere obbligato a mettere in sicurezza il sito o a rimuovere i rifiuti inquinanti, in ragione della qualifica di detentore o comunque di gestore dei beni immobili dell’impresa fallita.

Siffatta ricostruzione, peraltro, è suffragata da considerazioni di carattere economico: atteso che l’abbandono di rifiuti e più in generale l’inquinamento danno luogo a “diseconomie esterne” o “esternalità negative di produzione” che dir si voglia, è legittimo che i costi dalle predette derivanti ricadano sulla massa dei creditori del fallito i quali, di contro, beneficiano degli effetti della curatela partecipando alla ripartizione degli eventuali utili derivanti dalla liquidazione fallimentare.

Diversamente opinando, ove il responsabile dell’inquinamento non sia individuato o sia poi fallito, i costi della bonifica finirebbero per gravare sul Comune e quindi sulla collettività incolpevole, in aperto contrasto sia con il principio del chi inquina paga, sia con la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il patrimonio dell’imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore ha assunto la responsabilità.

D’altro canto, si rammenta che il suddetto principio, in ottica europea, non richiede la prova dell’elemento soggettivo né un’intervenuta successione, come precisato dall’Adunanza Plenaria n. 10 del 2019, la quale ha chiarito che le misure di bonifica sono suscettibili di essere imposte alla società non responsabile dell’inquinamento che sia subentrata nella precedente società grazie a un’operazione di fusione per incorporazione.

La direttiva 2004/35 disegna una responsabilità ambientale di carattere oggettivo e ciò vale come canone ermeneutico per tutte le disposizioni normative nazionali.

Ed invero, le misure introdotte dal d. Lgs. n. 22 del 1997 (c.d. decreto “Ronchi”) attualmente trasfuse negli artt. 239 e ss. del Codice dell’ambiente, sono tese nel complesso a garantire la salvaguardia del bene ambiente rispetto a ogni evento di pericolo o di danno e non presentano una matrice sanzionatoria.

In tale quadro, la bonifica del sito inquinato assurge a strumento pubblicistico volto a consentire il recupero materiale del bene in funzione della reintegrazione in forma specifica del bene leso; se così è, la responsabilità della curatela fallimentare nell’effettuare la bonifica dei siti di cui acquisisce la detenzione a seguito dell’inventario fallimentare può parimenti prescindere dall’accertamento relativo alla sussistenza di un nesso causale tra la condotta e il danno constatato.

Alla luce dei rilievi svolti, la Plenaria ha dunque enunciato il principio di diritto riportato in apertura, rimettendo alla sezione rimettente la decisione della causa in applicazione dello stesso.


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