Violenza e maltrattamenti per fini educativi: si può parlare di abuso di mezzi di correzione (art. 571 c.p.)?

Violenza e maltrattamenti per fini educativi: si può parlare di abuso di mezzi di correzione (art. 571 c.p.)?

La Suprema Corte torna, nuovamente, a fornirci uno spunto di riflessione in tema di maltrattamenti ed uso della violenza, a mezzo della recente pronuncia del 25 febbraio 2021 n. 7518 della Sezione VI penale.

Il caso. La vicenda riguardava due minori, rispettivamente di 3 e 12 anni, che subivano maltrattamenti da parte di entrambi i genitori. Nella specie, la figlia maggiore aveva riferito ad una sua insegnante che lei e la sorella si trovavano costrette ad una vita difficoltosa, costellata di sole limitazioni, soprusi e violenze da parte dei propri genitori a causa di problemi di salute, economici nonché di dipendenza da sostanze alcoliche.

Ebbene, a seguito della segnalazione della minore, l’insegnante si adoperava attivando il servizio di assistenza sociale; ne conseguivano l’allontanamento delle minori dalla casa familiare nonché l’instaurazione di un procedimento penale nel corso del quale, in sede di incidente probatorio, venivano assunte le dichiarazioni della minore che, in concomitanza con ulteriori elementi di prova, conducevano ad una pronuncia di condanna dei genitori per maltrattamenti.

La difesa proponeva ricorso per cassazione sulla scorta di due presupposti fondanti, quali la violazione di legge ed i vizi di motivazione relativi alla capacità a testimoniare della minore, alla sua attendibilità e ad eventuali riscontri su quanto dichiarato in sede di incidente probatorio e, da ultimo, in ordine alla mancata qualificazione del fatto come abuso dei mezzi di correzione ex art. 571 c.p.

Maltrattamenti e l’abuso dei mezzi di correzione.

Reato di maltrattamenti (la cui disciplina è stata affrontata ancor più nel dettaglio all’interno del mio precedente articolo: “Maltrattamenti: la denigrazione può integrare reato“): tale fattispecie che può essere commessa unicamente all’interno di specifici rapporti tra agente e vittima (rapporto di famiglia o di convivenza, rapporto di autorità, rapporto di affidamento per ragioni di educazione, cura, vigilanza, custodia o per l’esercizio di arti o professioni) è riferibile a condotte consistenti in atti di sopraffazione, delittuosi o meno, volti ad offendere la personalità del soggetto passivo ed a causare la degenerazione del rapporto. La condotta tipica è caratterizzata dal requisito dell’abitualità, quale continuità e ripetitività di atti vessatori.

Quanto all’elemento psicologico del reato, vale a dire il dolo richiesto ai fini della configurabilità del delitto, risulta sufficiente la coscienza e la volontà di persistere in un’attività vessatoria idonea a ledere la personalità della persona offesa.

Reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina: l’art. 571 c.p. recita “Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina, in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni“.

Nonostante l’utilizzo dell’espressione “Chiunque”, trattasi di un reato proprio, atteso che il soggetto attivo, e dunque quello legittimato ad utilizzare mezzi di correzione o di disciplina, può essere unicamente l’individuo legato al soggetto passivo da un vincolo del quale il primo risulta titolare in ragione di una particolare forma di autorità, che si concretizza nello ius corrigendi.

Ma qual è la differenza tra il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e la fattispecie di abuso dei mezzi di correzione o disciplina (art. 571 c.p.)?

Il presupposto da cui muove la giurisprudenza di legittimità si fonda su una duplice circostanza. Anzitutto, per l’integrazione della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione di cui all’art. 571 c.p. non è richiesto un reiterato ricorso alla violenza,  materiale e morale, essendo sufficiente l’utilizzo inappropriato (nella specie, l’uso può dirsi appropriato quando è necessario e proporzionato [1] ) di metodi o comportamenti correttivi.

Altresì, a dire degli Ermellini, deve escludersi che l’elemento differenziale tra le due possa cogliersi nel “grado d’intensità” delle condotte aggressive atteso che, anzitutto, il dato letterale di entrambe le norme non contempla l’utilizzo del termine “violenza” nonché, sotto un profilo prettamente pratico, entrambe le fattispecie criminose risultano integrate da condotte non necessariamente violente, ma umilianti perpetrate ai danni del soggetto passivo.

La Suprema Corte ha poi precisato che qualsiasi forma di violenza, sia essa fisica o psicologica, non costituisce mezzo di correzione o di disciplina, neppure ove posta in essere a scopo educativo: ne consegue che, in ipotesi di condotte violente, se le stesse siano perpetrate sistematicamente e siano tali da causare un clima di abituale afflizione, si configura il delitto di maltrattamenti, a prescindere dalla finalità avuta di mira dall’agente; differentemente, qualora una tale situazione non si verifichi, ciascuna condotta violenta è punita secondo le differenti norme incriminatrici eventualmente applicabili al caso concreto (articoli 581, 582, 610 e 612 c.p., od altre).

Ancora, posto che la fattispecie di cui all’articolo 571 c.p. può integrarsi anche a mezzo di un’unica condotta abusiva, qualora l’impiego indebito di strumenti correttivi si ripeta e, per l’effetto, ne consegue un regime di sistematica prevaricazione in danno del destinatario, si deve ritenere integrato il più grave delitto di cui all’articolo 572 c.p.

La decisione (n. 7518/2021): Tornando alla vicenda riferita in premessa, la Corte di Cassazione dichiarava inammissibili i ricorsi per genericità e manifesta infondatezza dei motivi, ritenendo pienamente fondato il giudizio di attendibilità della minore con riguardo alla credibilità e coerenza del fatto oggetto di narrazione, della ricostruzione nonché dei riscontri esterni.

In ordine alla qualificazione del reato, la Suprema Corte si inseriva a gamba tesa nell’ambito del granitico e consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’uso sistematico della violenza, anche ove sorretto da animus corrigendi, non possa rientrare mai nella fattispecie di abuso dei mezzi di correzione in quanto l’uso della violenza per fini educativi non è mai consentito.

La pronuncia in esame, pertanto, pone luce  sul discrimen tra il delitto di maltrattamenti e quello di abuso dei mezzi di correzione, che non può mai individuarsi nel grado di intensità delle condotte violente tenute dall’agente, atteso che queste non possono mai costituire oggetto di abuso, non essendone consentito l’utilizzo a fini correttivi od educativi.

Sulla scorta di tali premesse, la Suprema Corte ribadiva la correttezza della qualificazione del fatto operata in secondo grado di giudizio, posto che i comportamenti contestati agli imputati – quali le limitazioni imposte alle figlie minori e le percosse, accertate nel giudizio – esulavano da quello che può definirsi un normale contesto correttivo e correzionale, essendo piuttosto degenerati in vessazioni afflittive e mortificanti, tali da soffocare il percorso di crescita delle minori. Alla luce di tali considerazioni, concludeva con una declaratoria di inammissibilità dei ricorsi, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

 

 

 


Di seguito, il testo integrale della sentenza: http://www.salvisjuribus.it/wp-content/uploads/2021/03/a26d0a72-a90f-4f28-afaf-61805ef237cc_cassazione-penale-sentenza-7518-2021.pdf
[1]. Cass. Pen., Sez. VI, n. 11777 del 21/01/2020

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