Il principio di legalità interno e sovranazionale con riferimento al concetto di ‘prevedibilità della condanna’

Il principio di legalità interno e sovranazionale con riferimento al concetto di ‘prevedibilità della condanna’

Il principio di legalità interno e sovranazionale, in particolare con riferimento al concetto di ‘prevedibilità della condanna’. Il rapporto fra l’art. 513bis c.p. e l’art. 2598 c.c.

Il principio di legalità, di matrice liberal-illuminista, si pone a fondamento del diritto penale (art. 25, co.2, Cost, art. 1 c.p.) costituendo garanzia prima del cittadino, il quale deve essere posto nelle condizioni di compiere libere scelte d’azione, al riparo dagli arbitrii del potere esecutivo e di quello giudiziario. Il principio del ‘nullum crimen sine lege‘ vive oggi in una dimensione multilivello dal momento che il diritto interno è chiamato a confrontarsi con istante ed obblighi derivanti dalle fonti sovranazionali (artt. 11, 117 Cost.). In particolare, il principio in esame risulta scolpito anche nella CEDU, laddove l’art. 7 sancisce che nessuno può essere punito per un fatto che al momento in cui fu commesso non costituiva reato. Tuttavia, non sempre i concetti di legalità nella duplice dimensione sono in grado di assicurare il medesimo risultato di garanzia, rintracciandosi talvolta uno scarto nell’applicazione dei due principi. Ebbene, a livello interno il principio di legalità, nella sua unitaria complessità, si esprime in primis attraverso la riserva di legge. Nel nostro ordinamento si accoglie un principio di legalità formale (sebbene temperato dalla portata sostanzialistica dell’offensività) tale per cui costituisce reato solo ciò che è previsto come tale dalla legge o da atti aventi forza di legge.  In tal modo si assicura che la privazione della libertà personale possa derivare solo da una scelta assunta, indirettamente, dal popolo sovrano (art. 1 Cost.).

La prospettiva da cui muove il diritto CEDU poggia su basi diverse, risultando privilegiato un approccio sostanzialistico. Ciò si giustifica in ragione del fatto che la CEDU è tenuta a confrontarsi non solo con ordinamenti di civil law, ma anche di common law, in cui il ruolo del formante giurisprudenziale assume una funzione fondamentale. L’obiettivo della giurisprudenza EDU è quello di tutelare i diritti del cittadino, assicurando la funzione di garanzia della legalità, a prescindere dall’esistenza di una fonte di matrice legale. È proprio in un’ottica sostanzialistica, di implementazione della tutela dei consociati, che la Corte EDU ha riscritto i confini dell’area della materia penale, ed infatti ai fini della qualificazione di un fatto come reato si prescinde dal nome iuris attribuito dal legislatore. Nell’interpretazione del principio di legalità fornita dalla Corte EDU nel noto caso Contrada, la funzione garantista si esprime attraverso i crismi dell’accessibility and prevedibility. Detto altrimenti, a livello convenzionale, il problema della legalità si sposta dalla qualità della fonte a quella del precetto.

Il termine accessibilità riflette il contenuto che nel diritto penale interno si esprime attraverso i canoni della tassatività, determinatezza e precisione della fattispecie. Siffatti principi richiedono che il precetto penale sia espresso in maniera precisa e facilmente intellegibile e che descriva un fatto suscettibile di verificazione probatoria a livello processuale. È indispensabile, inoltre, che l’interpretazione del giudice non si spinga fino all’applicazione analogica, ma resti confinata nell’ambito dei significati attribuiti alla disposizione, così come si evincono dal testo (interpretazione estensiva).

Maggiormente problematico è invece il criterio della prevedibilità. Per comprenderne appieno la reale portata applicativa è necessario partire dal dato inconfutabile per cui il diritto, anche quello penale, vive nell’interpretazione che ne fornisce il giudice. La funzione ermeneutica costituisce attività coessenziale all’applicazione della legge. Tale situazione appare ancora più evidente a livello sovranazionale, in cui il formante giurisprudenziale assume un ruolo predominante, contribuendo a creare il diritto: le norme CEDU vivono nell’interpretazione che ne dà il giudice. Alla luce di tale premessa, la prevedibilità deve essere intesa come possibilità del cittadino di sapere se un fatto sia o meno punito e quale sia l’entità della sanzione. Sicuramente imprevedibile, sia alla stregua del diritto interno che sovranazionale, è l’incriminazione in forza di una legge che sia entrata in vigore dopo la commissione del fatto e ciò a prescindere dalla possibilità che si ricorra al principio di irretroattività o a quello di prevedibilità.

Diversa e maggiormente problematica è l’ipotesi in cui si registri un mutamento giurisprudenziale o ancora l’interpretazione del giudice, pur non presentandosi contra legem, si spinga fino ai limiti dell’interpretazione estensiva. A livello interno il mutamento giurisprudenziale non pone problemi di legalità, non essendo in alcun modo subordinato ai vincoli che da esso derivano. A norma dell’art. 102 Cost., infatti, il giudice è subordinato soltanto alla legge. Ne deriva che il giudice comune, in astratto, ben potrebbe ritenere punibile un fatto precedentemente ritenuto irrilevante, purché una tale conclusione scaturisca dai possibili significati attribuili alla norma incriminatrice. Tale circostanza, come evidenza autorevole dottrina, potrebbe condurre ogni processo ad avere una ‘sua sidera lites‘, ponendo così il problema se la prevedibilità della sanzione costituisca un’esigenza indefettibile anche per il diritto interno.

D’altronde l’applicazione retroattiva di un mutamento giurisprudenziale non incontrerebbe un limite al principio di irretroattività, il quale va applicato solo alla legge e non al diritto vivente. Un argine a tale problema, che di fatto potrebbe creare un evidente vulnus alle esigenze garantiste sottese alla legalità, è costituito dal principio di colpevolezza ed in particolare dall’art. 5 c.p. così come interpretato dalla Corte Cost. 364/88. L’ignoranza del comando legislativo risulta inevitabile e dunque, scusabile ogniqualvolta sul punto si riscontrano degli orientamenti giurisprudenziali ondivaghi, contraddittori o un repentino mutamento interpretativo. Questa è la soluzione che avrebbero potuto adottare i giudici italiani nel caso Contrada considerato che, al momento della commissione del fatto non era prevedibile, sebbene legalmente possibile, una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Difetto di prevedibilità riscontrato, proprio dalla Corte EDU, nel medesimo caso. Infatti, ciò che a livello convenzionale è ricondotto nella legalità, nell’ordinamento interno si argina con la colpevolezza la quale garantisce libere scelte d’azione saldandosi con la legalità, sub specie di irretroattività della norma.

Le garanzie apprestate dall’ordinamento interno e da quello convenzionale, sebbene risultino sovrapponibili non sono perfettamente coincidenti. Questo si verifica allorché la punibilità di un fatto soddisfi le esigenze di accessibilità e prevedibilità, ma risulti in contrasto con il principio di riserva di legge e tassatività. È quanto si è sostenuto, ad esempio, in proposito dall’art. 319 c.p. Nonostante il mutamento legislativo la c.d. ‘messa a libro paga’ continua ad essere ricondotta da costante giurisprudenza nella più grave fattispecie ex art. 319 c.p., nonostante questa richieda esplicitamente l’esistenza di un atto contrario ai doveri di ufficio.

Alla luce delle considerazioni svolte è possibile verificare la compatibilità dell’art. 513bis c.p. con i principi enunciati. La norma è secondo il modello del reato proprio a forma vincolante punendo chi compie atti di concorrenza con violenza o minaccia, qualora l’autore realizzi il fatto nell’esercizio di un’attività commerciale o comunque produttiva. Il richiamo agli atti di concorrenza, non meglio specificati, sconta un evidente difetto di precisione. La Consulta ha evidenziato che il difetto di precisione, o più in generale di tassatività, non può portare ad una declaratoria di illegittimità costituzionale in tutti quei casi in cui esso sia ricavabile mediante un’interpretazione sistematica e teleologica.

In tal senso, in una prospettiva tassativizzante, il vulnus potrebbe essere ricavato operando un richiamo all’art. 2598 c.c. Tale norma tipizza gli atti di concorrenza sleale ai fini dell’ottenimento di  un provvedimento giurisdizionale. Siffatta ricostruzione incontra due limiti: in primo luogo il richiamo dovrebbe essere limitato alle prime due lettere dal momento che la lettera c) appare formulata in maniera troppo vaga. Tale formulazione sarebbe compatibile ai fini dell’irrogazione di una sanzione civile, ma non anche di una penale. In secondo luogo, l’orientamento esposto, sebbene molto rispettoso del principio di legalità, appare eccessivamente restrittivo; l’art. 513bis, infatti, fa riferimento agli atti di concorrenza in generale laddove la norma civile parla di atti di concorrenza sleale.

D’altronde il disvalore del reato si rintraccia non tanto nella slealtà, ma nelle modalità con cui gli atti di concorrenza vengono fatti valere (violenza o minaccia). Altro orientamento accede ad una nozione più ampia di atti di concorrenza purché l’irrogazione della sanzione penale risulti prevedibile a fronte del compimento di tali atti. Questa ricostruzione sembrerebbe in grado di soddisfare la legalità nell’accezione convenzionale, ma non pienamente quella interna. Occorre evidenziare che questa conclusione risulterebbe comunque da scartare dal momento che allargando le maglie della punibilità si porrebbe in contrasto con il fondamento più intimo della CEDU consistente nell’implementazione dei diritti e non in una loro comprensione.


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