La mediazione è veramente un atto personalissimo?

La mediazione è veramente un atto personalissimo?

Negli ultimi tempi si sta profilando, in maniera quasi inconsapevole ma sempre più percettibile, la  tesi secondo cui nella “mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” le parti non potrebbero avvalersi della rappresentanza sostanziale.

Si tratta di una tematica ancora poco esplorata, che tuttavia risulta già foriera di rilevanti ricadute sul piano empirico, come testimonia il fervore manifestato dalla giurisprudenza di merito che, specie a seguito delle modifiche apportate dal cd. decreto del fare[1], si è mostrata tendenzialmente contraria all’applicazione alla mediazione – tanto nella variante obbligatoria di cui all’art. 5, comma 1°, dell’interpolato D.lgs. 28/2010, quanto nell’innovativa forma delegata, ai sensi del successivo comma 2° – delle disposizioni che consentono alla parte di farsi rappresentare dal difensore nella dinamica processuale o sostituire da altri negli atti negoziali.

La questione è sorta del tutto indirettamente, a seguito del più incisivo ruolo assegnato dal legislatore all’avvocato nell’ambito della procedura volta alla composizione amichevole della lite in atto o solo in potenza, la cui “assistenza”[2], in origine meramente eventuale, è divenuta obbligatoria in virtù della citata novella del 2013.

Nella prassi si è andata in tal modo consolidando e diffondendo la tendenza, già registrata in passato, di avvalersi del difensore affidando a costui anche la delega quale rappresentante sostanziale.

Al fine di arginare questa straripante involuzione dell’attività conciliativa, la giurisprudenza di merito ha negato la possibilità che il difensore possa agire anche quale procuratore sostanziale della parte ed è giunta ad affermare che ammettere la possibilità di farsi rappresentare da un soggetto, più o meno qualificato, estraneo all’insorgenda controversia, significa svilire la vocazione riappacificatrice della mediazione, frustrarne l’utilità deflativa e trasformare la relativa procedura in un mero simulacro o, addirittura, in un espediente burocratico teso paradossalmente a procrastinare ed appesantire l’avvio della fase contenziosa.

In tale ottica, dunque, la comparizione personale dei protagonisti del conflitto è stata eretta – sia nella giurisprudenza di merito, sia in taluni regolamenti degli organismi di mediazione – ad elemento essenziale della procedura conciliativa, ai fini della verifica dell’avveramento della condizione di procedibilità della domanda, nella convinzione che solo dal contatto diretto, effettivo ed epurato da qualsivoglia filtro, oggettivo e soggettivo, possa derivare un confronto dialettico tra gli interessati e, possibilmente, un componimento amichevole e proficuo del dissidio, rispetto al quale il mediatore deve atteggiarsi, nelle intenzioni del legislatore, quale facilitatore nella ricerca dell’accordo, ed i difensori assolvono ad una funzione, in realtà assai evanescente, di semplice assistenza dei presenti[3].

Secondo tale orientamento, in virtù di una lettura teleologicamente orientata degli artt. 5, comma 1° bis, e 8, comma 1°, D.lgs. 28/2010, è proprio la natura della mediazione ad esigere la presenza dei litiganti allo scopo di riattivarne la comunicazione, ripristinare rapporti empatici e sondare la praticabilità di una soluzione concordata del conflitto.

Inoltre, in considerazione della funzione informativo-esplorativa assegnata dalla novella del 2013 al “primo incontro” di cui fa menzione l’art. 8, comma 1°, D.lgs. 28/2010, non avrebbe senso ammettere, in questa prospettiva, che tale adunanza preliminare si svolga al cospetto dei soli difensori, tenuto conto che costoro, anche in qualità di mediatori di diritto[4], sono ovviamente già a conoscenza delle finalità e delle modalità di svolgimento della procedura conciliativa.

Se, come visto, la presenza della parte per mezzo del difensore non è quindi sufficiente ai fini del corretto esperimento della mediazione e della integrazione della condizione di procedibilità, è sul fronte dei risvolti effettuali scaturenti dalla mancata comparizione personale che si registrano vedute eterogenee.

In alcune pronunce[5], difatti, si rinviene soltanto una sorta di monito nei confronti dei litiganti circa l’onere di comparizione personale e la reiterazione dell’invito a presenziare all’incontro preliminare dapprima svoltosi in absentia.

In altre, per così dire, ibride, è ammessa la partecipazione mediante un procuratore speciale od un delegato, talvolta a condizione che si tratti di soggetto diverso dall’avvocato[6], il quale sarebbe altrimenti declassato a mero nuncius, talaltra ammettendo siffatta coincidenza[7], e si giunge addirittura a far gravare sulla parte interessata a rendere procedibile l’azione giudiziale l’onere di prodigarsi per favorire l’incontro personale fra i contendenti[8].

In altre ancora, la rappresentanza è circoscritta ad “eccezionali ipotesi”[9] e devono sussistere “giustificati motivi” che consentano la delega, in difetto dei quali potrebbero addirittura derivare le conseguenze sanzionatorie di cui all’art. 8, comma 4° bis, D.lgs. 28/2010[10].

Vi è, da ultimo, la posizione, eclatante e rigorosa, assunta dal Tribunale di Vasto che, con sentenza del 9 marzo 2015, dichiarando l’improcedibilità della domanda, a causa della mancata comparizione delle parti nell’iter mediativo, ha affermato che “l’attività che porta all’accordo ha natura personalissima e non è delegabile”.

Appare evidente che con questa pronuncia l’affermazione della tendenziale incompatibilità della rappresentanza sostanziale con lo statuto della mediazione ha raggiunto il proprio acme, ma, al contempo, ha palesato la fragilità e l’inconsistenza del binomio personalità-effettività su cui poggia, nonché la mancanza di appigli, normativi ed assiologici, mediante i quali giustificare una qualificazione dell’attività conciliativa così dirompente e la declaratoria di improcedibilità della domanda giudiziale, la quale, in verità, sembra essere impiegata non già allo scopo, auspicato dal legislatore, di incentivare un approccio conciliativo e di favorire l’osmosi tra la fase precontenziosa e quella processuale, bensì, strumentalmente ed aprioristicamente, in chiave sanzionatoria.

In realtà, a tale orientamento possono opporsi vari argomenti.

In primo luogo, si impone una constatazione “in negativo”, di carattere squisitamente letterale: non si rinviene nella disciplina della mediazione alcuna disposizione che esiga la presenza della parte  “personalmente” o locuzioni affini, tale che se ne possa inferire un limite all’operatività degli artt. 1387 e ss. c.c.

Ed infatti, a prescindere dalla questione se dall’art. 8, comma 1° D.lgs. 28/2010 e dal suo tenore letterale sia da escludere che nella mediazione il difensore possa assumere anche i poteri di rappresentanza sostanziale del proprio assistito, appare comunque evidente che, al di fuori di tale eventuale limitazione, resta tutta da dimostrare l’esistenza di ulteriori limiti all’operatività della rappresentanza sostanziale ed alla possibilità, non espressamente negata dal legislatore, che le parti  si facciano sostituire da altro soggetto diverso dall’avvocato.

Al riguardo, è bene considerare che la rappresentanza sostanziale svolge la funzione strumento fisiologicamente deputato a far fronte ad un bisogno fondamentale della vita di relazione e della quotidianità, quale quello “della sostituzione nello svolgimento dell’attività giuridica”[11] per assenza della parte od impedimento lato sensu inteso della stessa.

Pertanto, ed in ciò si sostanzia la seconda obiezione di ordine funzionale, escludere lo strumento della rappresentanza significa imporre ai pre-litiganti oneri ulteriori e maggiori rispetto a quelli previsti in via generale nel diritto comune, oltretutto disancorati da qualsivoglia base normativa e, soprattutto, stridenti con le finalità e la connotazione informale della mediazione.

Anche la disamina dell’ambito oggettivo di riferimento, delineato dall’art. 2, comma 1°, D.lgs. 28/2010, a tenore del quale la mediazione può concernere soltanto controversie vertenti su diritti disponibili, rivela che la parte in essa coinvolta può legittimamente investire il proprio rappresentante del potere, per l’appunto, di disporre del proprio diritto nella mediazione.

Del resto, l’inerenza della mediazione alla sfera della libertà negoziale delle parti[12] si desume sia dal fatto che la mediazione può intervenire solamente in vista della composizione di controversie aventi ad oggetto diritti disponibili, sia soprattutto dal fatto che essa si configura come una procedura informale finalisticamente protesa alla ricerca di un accordo amichevole tra i litiganti, e quindi come un’attività tipicamente pre-negoziale, con la conseguenza che nessuna incompatibilità sussiste con l’applicazione dell’istituto della rappresentanza, il cui fisiologico ed elettivo ambito di operatività è proprio quello degli atti negoziali[13].

Infine, qualora si ammettessero le indebite restrizioni indicate dalla giurisprudenza di merito, sarebbe arduo, se non addirittura impossibile, risolvere il contrasto logico che si verrebbe a creare tra l’esclusione della rappresentanza in mediazione e l’ammissibilità della stessa nella successiva, ancorché eventuale, sede processuale (art. 77 c.p.c.).

Alla luce delle suddette considerazioni, fatta salva l’ipotesi in cui il regolamento adottato dall’organismo adito rechi una disposizione ostativa, la scissione soggettiva che l’agire rappresentativo comporta appare certamente ammissibile nel procedimento di mediazione se e nella misura in cui la parte deleghi altri a partecipare al proprio posto alle adunanze volte alla composizione amichevole della lite, attribuendogli il potere di disporre del diritto in contesa nelle forme prescritte dagli artt. 1392 e 1393 c.c., e, con riferimento al rappresentante, costui, senza ridursi a semplice messo della volontà del dominus, fornisca in sede di mediazione un contributo volitivo conforme all’interesse del rappresentato e prenda parte al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali necessari alla salvaguardia di quest’ultimo e che non ne comportino un apprezzabile sacrificio, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.[14].

Infatti, pur dovendosi ricondurre le attività delle parti nella mediazione all’ambito dell’autonomia negoziale, si deve comunque considerare che si tratta di una libertà funzionalizzata, che è in ogni caso oggetto di comportamenti doverosi, come si desume  all’art. 8, comma 4° bis, D.lgs. 28/2010.

In questa prospettiva, il mediatore è tenuto ad esigere l’intervento personale delle parti solo ogniqualvolta rilevi l’inosservanza da parte del rappresentante dei canoni sopra rievocati, ovvero si avveda di un uso distorto dello strumento rappresentativo nell’ipotesi in cui esso venga impiegato dai contendenti, non già allo scopo fisiologico di farsi sostituire, bensì al fine di frapporre ostacoli  allo svolgimento della mediazione e di scongiurare qualsivoglia confronto tra le medesime parti, così da sminuire l’essenza di tale istituto e ridurlo in uno schermo inidoneo in radice a consentire o, addirittura, tentare la mediabilità della controversia.

In conclusione, non sembra condivisibile l’affermazione che nella mediazione la rappresentanza sia eccezionalmente ammessa solo in presenza di giustificati motivi, ma pare corretto sostenere che in via di principio l’agire rappresentativo è sempre ammesso, tranne in caso di abuso del diritto.

 


[1] D.L. 21 giugno 2013, n. 69, conv. in L. 9 agosto 2013, n. 98, recante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”.

[2] Artt. 5, comma 1° bis, e 8, comma 1°, D.lgs. 28/2010. Perplessità circa l’inserimento di una poco chiara assistenza legale nel procedimento di mediazione e della sua obbligatorietà sono state espresse, tra l’altro, da L. Ieva, Mediazione ed assistenza (non imperativa) dell’avvocato, in Corriere giuridico, n. 7/2014, 949 ss.

[3] Trib. Firenze, 19 marzo 2014, Giudice Breggia, in Guida Dir., 2014, 17; Trib. Roma, sezione di Ostia, 22 agosto 2012, Giudice Moriconi, in Guida dir., Dossier n. 7/2012, 50; Trib. Vasto, 9 marzo 2015, Giudice Pasquale, in Giur. It., Agosto/Settembre 2015, 1885 ss.

[4] Art. 16, comma 4° bis, D.lgs. 28/2010.

[5] Trib. Roma, Sezione di Ostia, 22 agosto 2012, cit.; Trib. Firenze, 17 marzo 2014, Giudice Scionti, in Guida dir., 2014, 17, ins. 5, 6; Trib. Cassino, 8 ottobre 2014, Giudice Capuzzi, in www.concilialex.it; Trib. Pavia, 9 marzo 2015, Giudice Marzocchi, in www.mcmmediazione.com.

[6] Trib. Bologna, 5 giugno 2014, in www.adrmaremma.it.

[7] Trib. Verona, 11 maggio 2017, n. 1626, Giudice Vaccari, in www.concilialex.it.

[8] Tra le più recenti, Trib. Vasto, 29 gennaio 2018, Giudice Capuozzo, in www.quotidianogiuridico.it.

[9] Così, Trib. Siracusa 17 gennaio 2015, Giudice Muratore, www.mcmmediazione.com.

[10] Trib. Bologna, 11 novembre 2014, Giudice Gianniti, www.mondoadr.it.

[11] Illuminante è, in tal senso, C. M. Bianca, Diritto civile, Il Contratto, Milano, Giuffrè, ult. ed., 79 ss.

[12] Si rimanda all’ordinanza del Trib. Como, sezione di Cantù, 2 febbraio 2012, in www.concilialex.it. La tesi dell’inerenza dell’accordo di mediazione all’autonomia negoziale trova oggi un ulteriore argomento, di matrice positiva, nell’art. 2643, n. 12 bis, c.c.

[13] Sul punto, a F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, ESI, ult. ed., 1046 ss.

[14] Tali canoni costituiscono un autonomo dovere giuridico derivante dal principio di solidarietà ritraibile dall’art 2, Cost. (ex multis, Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106).


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Avv. Federica Salvati

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