La “pudicitia violata”: analisi della storia di Virginia e Appio Claudio nel contesto giuridico delle Leggi delle XII Tavole nella Roma Antica

La “pudicitia violata”: analisi della storia di Virginia e Appio Claudio nel contesto giuridico delle Leggi delle XII Tavole nella Roma Antica

Abstract. Questo contributo analizza la stretta connessione tra episodi di violenza, come il tentato stupro di Virginia, e l’emanazione di norme giuridiche, evidenziando come la vis romana sia stata un catalizzatore per lo sviluppo del diritto romano.

Attraverso un’analisi delle fonti storiche e giuridiche, si esamina il contesto politico e sociale dell’epoca, inclusi i conflitti tra patrizi e plebei, che hanno portato alla creazione delle XII Tavole. Particolare attenzione viene data al ruolo di Appio Claudio e alla sua trasgressione delle leggi da lui stesso promulgate, scatenando una reazione di vasta portata all’interno della società romana.

Infine, si esplorano le implicazioni politiche e morali per la difesa della pudicitia di Virginia, che si estende oltre l’ambito individuale, incarnando il valore politico della libertà per l’intera civitas romana.

 

Sommario: 1. Introduzione – 2. Il contesto storico-giuridico – 3. Le figure di Virginia ed Appio Claudio alla luce delle fonti storiche ‒ 4. Considerazioni sulla vicenda

 

1. Introduzione

Nel panorama della storia romana, emergono temi significativi, carichi di simbolismo ed intrinsecamente legati a considerazioni politiche.

La stretta connessione tra racconti di violenza e l’emanazione di norme è una caratteristica evidente nell’ambito romano e numerose sono, infatti, le storie tramandate o le fabulae, il cui tema principale è un atto di forza, talvolta anche atroce, che porta alla creazione o all’applicazione di un principio di diritto, rappresentato dal concetto romano di ius.

In questa dinamica, la violenza diventa un catalizzatore per la definizione di norme giuridiche che cercano di regolare e di limitare gli eccessi di potere nell’ambito della civitas romana.

 La lex, nata spesso in risposta a episodi violenti o ingiusti, mirava a stabilire un equilibrio sociale e a garantire la Iustitia all’interno della comunità ed in tal senso, il rapimento ed il tentato stupro di Virginia svolge un ruolo fondamentale nell’abbattimento dei poteri dei decemviri.

In particolare, il suddetto evento – nonostante sia intriso di narrazione mitologica – fornisce un substrato simbolico dell’evoluzione politica di Roma, riflettendo l’immaginario collettivo romano che incorpora lo stupro come una pratica moralmente disapprovata, ma non ancora formalmente riconosciuta come illegale.

La ricostruzione storica dello stupro come reato nel mondo romano è ostacolata dalla scarsità di fonti giuridiche dirette che trattino specificamente questa categoria criminale e gli antichi testi romani, di frequente, affrontano il tema in modo vago e marginale, fornendo solo pochi dettagli specifici o chiare definizioni giuridiche.

In aggiunta, sia la nozione di “violenza sessuale” che quella di “stupro” mancavano di una chiara autonomia concettuale nel contesto dello ius romanum.

La parola vis, utilizzata comunemente per indicare “violenza”, assumeva un significato di più ampia portata e non necessariamente riconducibile, in modo univoco, alla “violenza sessuale” nel senso moderno.

Il termine “vis” tendeva ad essere interpretato in una varietà di contesti, senza darne una definizione giuridica specifica che lo riconducesse in modo inequivocabile allo stupro.  Pertanto, l’evoluzione della percezione e della condanna dello stesso, come crimine nell’antica Roma, rappresentava un processo complesso, influenzato da una serie di fattori sociali, culturali e politici.

Nel mondo romano, il rapimento, lo stupro o qualsiasi altro crimine sessuale consumato con violenza, veniva considerato come parte integrante della categoria più ampia dei “crimen vis publicae vel privatae”, concetto ‒ questo ‒ che si riferiva ad una serie di casi criminali che coinvolgevano la violenza contro una persona o i suoi beni, sia da parte di agenti statali (vis publicae) che privati (vis privatae).

All’interno di questa serie di casistiche, il crimine sessuale consumato con violenza rappresentava un atto grave e, poiché coinvolgeva un’aggressione fisica e una violazione dell’integrità personale e sessuale della vittima, esso veniva considerato un crimine di natura pubblica o privata, a seconda delle circostanze specifiche del caso e della posizione dell’aggressore. E, sebbene gli elementi mitologici e simbolici abbiano svolto un ruolo significativo nell’immaginario collettivo romano, la trasformazione dello stupro da pratica accettata a crimine riconosciuto ha richiesto un cambiamento, sia nelle norme sociali che nella concezione giuridica della violenza sessuale.

Il rapporto intrinseco tra violenza e ius, si manifesta attraverso la centralità di un atto cruento, più o meno estremo, diretto sia verso sé stessi ‒ nell’identificazione con i membri della propria familia ‒, sia verso gli altri individui. Tale atto può essere perpetrato con l’intento di interrompere una situazione di stasi stagnante, oppure essere motivato da una necessità di autodifesa o di difesa del sistema valoriale nel quale ci si colloca.

La violenza rappresenta, di conseguenza, un’espressione che, a seconda del contesto e del ruolo che viene assegnato, può essere considerata giustificata o condannabile.

In particolare, la dimensione della violenza intrinseca al concetto di ius assume una rilevanza fondamentale nell’ambito dell’analisi sociologica e giuridica.

Il diritto, infatti, non può essere disgiunto dal fenomeno della violenza, poiché spesso le norme giuridiche si configurano come strumenti volti a regolare e mediare conflitti che possono sfociare in atti violenti.

La struttura stessa del diritto, con le sue istituzioni ed i suoi meccanismi di applicazione, è modellata in risposta alle dinamiche sociali e alle esigenze di gestione della violenza all’interno della società. La violenza, dunque, si presenta come una realtà complessa e multiforme, la cui interpretazione varia in base al contesto culturale, storico e normativo.

2. Il contesto storico-giuridico

Intorno al 450 a.C., l’evoluzione storica del diritto romano fu caratterizzata dalla creazione della Legge delle Dodici Tavole (Lex Duodecim Tabularum).

Questo corpus normativo, noto anche come “Legge decemvirale”, fu redatto dai decemviri, ossia una commissione di dieci uomini incaricati di redigere un codice legale che stabilisse norme chiare e accessibili per la popolazione romana.

Storicamente, la sua promulgazione ebbe luogo in un periodo caratterizzato da profonde turbolenze politiche e sociali, ovvero quando la giovane Repubblica romana si trovò coinvolta in conflitti interni tra le classi patrizie e plebee, mentre affrontava anche minacce esterne dai vicini latini.

Prima della loro emanazione, lo ius romanorum arcaico consisteva, inizialmente, in norme consuetudinarie non scritte. Quando sorgeva una questione giuridica, spettava al collegium Pontificum dare una risposta autorevole e, poiché i membri di questo collegio, come tutti i magistrati statali, erano all’epoca esclusivamente patrizi, è ragionevole supporre che i plebei, in diverse circostanze, si sentissero defraudati dei loro diritti e che li accusassero, soventemente, di mostrare pregiudizi di classe nelle loro decisioni.

Il richiamo della plebe affinché il diritto trovi la sua fonte nel populus, anziché nell’arbitrario potere giurisdizionale dei magistrati patrizi, riflette una tensione sociale significativa nell’antica Roma. Questa tensione emergeva dall’aspirazione della plebe a una maggiore partecipazione e influenza nel processo decisionale e normativo della società romana, in contrasto con il dominio dei magistrati patrizi, che talvolta esercitavano il loro potere in modo discrezionale e autocratico.

Non deve, infatti, sorprendere che una delle principali richieste della plebe fosse quella di mettere per iscritto e rendere pubblica la legge consuetudinaria in vigore, in modo che non potesse più essere applicata arbitrariamente dai pontefici e dagli altri magistrati, incaricati dell’amministrazione della giustizia. Dopo diversi anni di lotte, si decise di redigere un codice scritto di leggi applicabili a tutti i cittadini. I Romani, presumibilmente, si ispirarono ai Greci per la stesura di una codificazione scritta, poiché quest’ultimi avevano stabilito colonie nell’Italia meridionale e in Sicilia.

È in questo quadro che si inserisce la nascita delle XII Tavole (duodecim Tabulae), la prima compilazione “codificata” – e la sola fino all’età postclassica – su varie materie, quali: forme del processo privato, dei contratti e delle obbligazioni, diritti successori, curatela e tutela, rapporti di vicinato, delitti e pene.

Secondo il racconto tradizionale, prima di intraprendere il lavoro di codificazione, nel 461 a.C., il tribuno Gaio Terentilio Arsa propose una legge (Lex Terentilia) per l’istituzione di una commissione, formata da cinque membri, per la redazione di un corpo di leggi scritte. Tale proposta fu disattesa sino al 451 a.C., quando la commissione si recò ad Atene per lo studio delle “leggi di Solone”.

Al suo ritorno, fu sospesa e monopolizzata dal decemvirato (formato da patrizi), per formulare un corpus definitivo di leggi scritte. Ma, alla fine di quell’anno, dichiarando di non aver ancora portato a termine la redazione delle leggi, pur avendo approntato dieci Tavole, approvate dai comizi centuriati, venne formata una nuova commissione (nel 450 a.C.) presieduta dal rieletto Appio Claudio, con l’inserimento di tre nuovi membri di classe plebea. La seconda commissione avrebbe aggiunto altre due Tavole, dette “inique”, alle precedenti dieci, che sfavorivano la plebe. Quest’ultima, secondo la tradizione romana, con un atto di protesta (secessio plebis), si ribellò alla tirannia decemvirale.

Alla fine, però, i decemviri furono deposti, ripristinando così, di fatto, l’ordine costituzionale della Repubblica. Le XII Tavole furono distrutte dall’incendio gallico del 390 a.C. e il loro contenuto è stato tramandato da molteplici fonti.

La loro creazione ha rappresentato il primo tentativo dei romani di registrare in modo definito le loro leggi, ponendo il fondamento di tutto il diritto pubblico e privato.

In tale contesto, si inseriscono le vicende di Appio Claudio, i cui aspetti della vita sono importanti per capire le conseguenze che hanno avuto alcune sue azioni su degli eventi accaduti in questo – specifico ‒ arco di tempo di storia romana.

3. Le figure di Virginia ed Appio Claudio alla luce delle fonti storiche

L’ immagine di Appio Claudio viene ritratta come un individuo autorevole o meglio, secondo la visione machiavellica, come  uomo sagace ed inquieto[1], che inutilmente aveva cercato di sedurre la giovane Virginia con doni e lusinghe (pretio ac spe[2]), tanto che convinse, sotto sue direttive, uno dei suoi clienti, Marco Claudio, a rivendicare la giovane Virginia (promossa sposa del tribuno della plebe Lucio Icilio) come schiava, con l’intento di metterla a disposizione del suo patrono, non controllante della sua irrefrenabile libido[3].

Il modus agendi fa emergere l’impiego della procedura giuridica nota come manus iniectio, ossia una pratica che comportava un gesto simbolico di appropriazione fisica del soggetto nei confronti del quale si avanzavano rivendicazioni di diritto.

Questo rituale prevedeva che il reclamante, o cliens, posasse la propria mano sul soggetto in questione di fronte a testimoni, segnalando così la sua rivindicatio. Nel caso specifico, Marco Claudio, agendo come cliens, esercitò questo gesto nei confronti della giovane, costringendola a seguirlo davanti al tribunale presieduto dallo stesso Appio Claudio.

L’atto di “chiamare la ragazza in giudizio”[4] (vocat puellam in ius), mediante tale procedura, suscitò un’accesa reazione da parte della folla, che manifestò la propria indignazione di fronte all’apparente ingiustizia subita da Virginia. Tuttavia, Marco Claudio difese le proprie azioni sostenendo di agire nel rispetto del diritto e non con violenza[5] (se iure grassari, non vi).

Appio Claudio, da sagace patrizio quale era, si servì della c.d. pratica della causa liberalis, per determinare lo status di libertà o schiavitù di un individuo.

In questo contesto processuale, Virginia assume un ruolo particolare: formalmente, non figura come parte in causa, bensì come oggetto della disputa. Da segnalare, in tal senso, che nonostante Virginia fosse filia, donna e individuo libero, la sua capacità di comparire in giudizio era limitata, così come il suo potere decisionale e la sua capacità di agire, autonomamente, erano vincolati dalla patria potestas del padre. Pertanto, sebbene Virginia potesse teoricamente essere considerata capace di agire come soggetto autonomo, la sua dipendenza legale dal padre limitava la sua autonomia giuridica e la sua capacità di esercitare i propri diritti senza il consenso paterno.

Le parti coinvolte nel processo furono il presunto dominus, ovvero Marco Claudio, e l’adsertor in libertatem, colui che rappresenta gli interessi della persona il cui status giuridico era contestato.

La ragione per cui Virginia non poteva essere direttamente coinvolta nel processo risiedeva nella sua condizione di schiava o meglio, presunta tale. Gli schiavi, secondo la legge romana, non godevano della capacità giuridica propria dei cittadini liberi, in quanto considerati oggetti, assimilabili alle res. Il principio fondamentale del diritto romano stabiliva che per poter partecipare ad un processo giudiziario era necessario essere liberi, poiché gli schiavi, essendo sotto la potestà del dominus e privi di autonomia giuridica (sui iuris), non avevano la facoltà di difendersi autonomamente.

Inoltre, la pratica della causa liberalis non solo rifletteva le disuguaglianze sociali del tempo, ma metteva in discussione la dignità e l’autonomia giuridica degli individui sottoposti alla schiavitù, sollevando interrogativi etici e morali che ancora oggi suscitano riflessioni sulla giustizia e l’uguaglianza nel contesto giuridico.

Virginia era figlia dell’illustre Lucio Virginio, definito da Tito Livio vir exempli recti domi militiaeque[6]. Egli, aveva un grande rispetto per le leggi e i costumi romani, tant’è che nel mentre del processo era impegnato nella difesa della patria sull’Algido.

 In ossequio a quanto summenzionato, in mancanza del pater, unico soggetto legittimato a difendere la libertà della giovane, la questione non poteva essere risolta sino al suo ritorno, pertanto ‒ in risposta alle pressioni dell’assemblea ‒, Appio Claudio concedette una libertà provvisoria a Virginia, in conformità delle Leggi delle XII Tavole, da lui stesso promulgate. Tuttavia, si introduce una distinzione cruciale durante il processo: coloro che sono rivendicati in libertà, possono godere delle vindiciae secundum libertatem e, quindi, della libertà provvisoria, mentre chi è soggetto alla potestas paterna non può essere assegnato a nessuno se non al pater stesso.

La sentenza stabiliva l’ordine di richiamare il padre e che nel frattempo la ragazza venisse data in possesso a Marco Claudio, in modo da evitare una lesione dei suoi diritti.

Si prometteva, inoltre, che la questione fosse riesaminata al ritorno del “padre presunto”.

La concessione della libertà provvisoria a Virginia rifletteva l’applicazione delle leggi vigenti, mentre la decisione di rimandare il giudizio al ritorno del “padre presunto” dimostrava la considerazione delle norme patriarcali e delle dinamiche familiari nell’antica Roma. Tuttavia, il “processo-farsa” si discostava da tale fine, in quanto nonostante l’appello del promesso della giovane, il tribuno della plebe Lucio Icilio, e del popolus, Appio Claudio mitigava l’aizzata folla rinviando la decisione al giorno successivo, senza ‒ de facto ‒ perdere la momentanea potestas su Virginia.

Nel mentre, presso il campo militare, l’ignaro padre ricevette dei messi: il fratello di Icilio ed il cugino, figlio di Numitorio (zio del tribuno) che lo informarono dell’accaduto e quelli inviati da Appio, per tentare di trattenerlo. Nonostante i tentativi del decemviro di impedirne l’arrivo, Virginio fa il suo ingresso nel Foro il giorno seguente, accolto da un’attesa solenne da parte della città, implorando il sostegno dei presenti.

Egli si prepara a esporre le proprie ragioni, ma prima che possa pronunciarsi, Appio interviene con fermezza, annunciando la sua decisione di assegnare Virginia a Marco Claudio come schiava[7]. Qui, si inserisce il punto cruciale della vicenda, ovvero un evidente sopruso dal punto di vista giuridico, incarnato dallo stesso Appio Claudio, il quale, in qualità di capo dei decemviri e artefice della nuova legislazione, viòla apertamente le norme da lui stabilite[8], al fine di perseguire i propri interessi personali.

Come sottolinea Pomponio[9], egli si rende colpevole di una clamorosa trasgressione del diritto che lui stesso ha contribuito a istituire.

Questo comportamento viene nitidamente riportato anche da Livio, il quale non esita a manifestare il proprio disappunto di fronte alla plateale violazione del diritto compiuta da un giudice romano. Livio, infatti, rimarca il fatto che Appio Claudio avrebbe dovuto, in linea con la legge da lui stesso promulgata, emettere una sentenza provvisoria a favore della libertà di Virginia. Tuttavia, la sua ambizione personale e la sua mancanza di scrupoli lo spinsero ad ignorare le disposizioni giuridiche.

In una prospettiva “moderna ed attuale”, tale condotta incarna una grave perversione dell’autorità giuridica e rappresenta un’evidente deviazione dal principio stesso del rule of law, secondo cui tutti, inclusi i governanti e i giudici, devono sottostare alle leggi che essi stessi contribuiscono a formulare e applicare.

L’azione di Appio Claudio non solo mina la fiducia nell’integrità del sistema giudiziario romano, ma getta un’ombra sull’ordinamento giuridico, dimostrando il pericolo intrinseco quando il potere giudiziario viene manipolato a fini personali e politici.

Ma la dissolutezza appiana supera il limite “morale” nel momento in cui egli emana l’ordine ai suoi littori  di spianare la strada, tra la folla, al fine di consentire al dominus di prendere possesso della schiava, liberamente: “lictor, submove turbam, et da viam domino ad prendendum mancipium[10]”. Nelle sue parole viene utilizzato il termine giuridico “mancipium”, con riferimento a Virginia, divenuta oggetto di proprietà del dominus.

Le parole di Appio, cariche di autoritarismo, risuonano nell’aria, costringendo la folla a sgomberare. Virginio implora il tirannico Appio, invano. Dopo le varie vicissitudini, il pater, per salvare la virtù e rivendicare la libertà della figlia, preferì ucciderla, trafiggendole il petto.

«hoc te uno, quo possum, modo, filia, in libertatem vindico[11]»

«Figlia, con l’unico mezzo che mi è consentito, io ti restituisco la libertà».

 Nell’atto estremo di uccidere sua figlia di fronte al giudice e all’intera comunità,  Virginio intende ribadire la superiorità della sua autorità paterna, che comprende anche il diritto di disporre della vita dei propri figli, rispetto al decreto del magistrato.

Questa azione, è possibile interpretarla dalla percezione di Virginio secondo cui, di fronte all’ingiustizia e all’arbitrarietà delle leggi dello Stato, è il diritto patriarcale della famiglia a prevalere.

Il suo gesto si inscrive in una tradizione giuridica e culturale che conferisce al capofamiglia un’autorità quasi assoluta sulla propria progenie.

La potestas, incarnazione del potere paterno, infatti, includeva originariamente il diritto di vita e di morte sui membri della famiglia, compresi i figli.

In questa prospettiva, Virginio è disposto a compiere un atto estremo per difendere l’onore e la dignità della sua famiglia contro l’ingiustizia subita dalla filia.

In extremis, rivolgendosi ad Appio Claudio, fa una dichiarazione tanto solenne quanto accorta:

«te, Appi, tuumque caput sanguine hoc consecro[12]»

«con questo sangue, Appio, maledico te e la tua testa».

Questo evento portò all’esilio dei decemviri più iniqui, con il successivo ripristino delle magistrature ordinarie e, per paura di una condanna, al suicido, in carcere, di Appio Claudio. Quest’ultimo, infatti, venne lui stesso sottoposto a processo, poiché divenne un privatus, senza autorità né sul popolo né sui littori[13].

Di fronte alla sua iniqua condotta, Appio Claudio, divenne soggetto ad un atto di coercizione tribunizia e, nonostante abbia tentato un’istanza d’appello all’auxilium tribunizio senza successo, egli invocò persino lo ius provocationis[14].

Quello che prima era un decemviro, venne poi accusato da Virginio[15] di non aver rispettato le leggi, affermando che quest’ultimo aveva rifiutato, contro la legge stessa, [16]la libertà provvisoria a un cittadino libero reclamato come schiavo, prima che il suo stato giuridico fosse verificato.

4. Considerazioni sulla vicenda

L’intreccio intrinseco tra la vicenda di Virginia e la promulgazione della Legge delle XII Tavole costituisce un capitolo cruciale nella storia politica e giuridica dell’antica Roma. Da una prospettiva strettamente giuridica, la sua storia concretizza un evento storico-sociale fondamentale nel V secolo a.C., poiché evidenzia non solo le tensioni esistenti tra patrizi e plebei, ma anche la lotta per l’uguaglianza e la giustizia sociale.

La storia di Virginia è narrata principalmente da Tito Livio nei suoi “Ab Urbe condita libri”, nel Libro III, e da Dionigi di Alicarnasso nella sua opera “Antichità Romane”, nel libro XI, fornendo un quadro approfondito delle fonti storici a cui fare riferimento. Sebbene ci siano alcuni accenni a questa vicenda, anche in opere di autori come Cicerone[17], Valerio Massimo[18], Diodoro[19] e Pomponio[20], è importante notare che essi non trattano la suddetta storia con la stessa enfasi e rilevanza riscontrata nelle prime due testimonianze.

L’atto del padre nel difendere la pudicitia (la castità e l’onore) della figlia rappresenta un atto di difesa dei diritti del popolo e della libertà (libertas).

La pudicizia, concepita come una virtù di fondamentale importanza nell’antica Roma, non era soltanto un principio etico, ma assurgeva ad un ruolo di venerazione divina nella psiche collettiva romana. Livio, in tal senso, ricorda che nel 296 a.C., i Romani istituirono un culto dedicato alla Pudicizia, elevandola al rango di divinità e celebrandola attraverso la costruzione di due templi distinti: uno per la Pudicitia Patritia e uno per la Pudicitia Plebeia. Questo atto istituzionale sottolinea l’importanza attribuita alla pudicizia nella società romana dell’epoca, trasformandola da semplice virtù individuale a principio collettivo su cui fondare rituali pubblici e venerazioni religiose.

Secondo tale virtù, la donna, come soggetto giuridico, era sempre sotto la tutela di un uomo, solitamente il padre o il marito.

La pudicitia imponeva una serie di doveri e responsabilità alle donne romane. In primo luogo, il padre aveva il potere di determinare il matrimonio della figlia, di solito intorno ai dodici anni di età. La donna doveva poi mantenere la sua castità per il marito. Ma la pudicitia non si limitava solo a ciò; essa richiedeva che le donne sposate (le matronae) mantenessero una condotta irreprensibile durante il matrimonio.

Il concetto di pudicitia rappresentava un aspetto centrale della morale romana, connotato da significati e implicazioni distinti per uomini e donne.

La pudicitia era principalmente associata alle donne, fungendo da pilastro fondamentale della loro virtù e reputazione sociale e, contrapposta al pudor maschile, essa si concentrava principalmente sulla castità e sulla modestia femminile, incarnando così l’ideale della donna romana come custode della purezza e dell’onore familiare.

Mentre gli uomini romani potevano conseguire fama e prestigio attraverso varie vie, come la carriera militare, per le donne romane il principale mezzo per guadagnarsi rispetto e ammirazione sociale era mediante tale virtù.

Nel tessuto narrativo di Tito Livio, la tutela della pudicitia emerge come un’ancora legata all’idea stessa di libertas[21]. L’episodio della difesa della castità di Virginia rappresenta non solo la protezione di un bene individuale, ma si estende a incarnare il concetto più ampio di libertà per l’intera plebe romana.

L’atto estremo compiuto dal padre di Virginia, ovvero il privarla della vita per difendere la sua castità, non può essere compreso soltanto come un gesto di paternalismo, ma piuttosto come un’espressione di un valore intrinsecamente politico che coinvolge e, de facto, protegge l’intera civitas. Pertanto, la libertà di Virginia si intreccia con la libertà della plebe, poiché l’incolumità e l’integrità morale di un membro della societas riflettono l’aspirazione più ampia della libertà collettiva.

La mano del padre che infligge il mortale colpo non è solo un atto individuale, quanto un atto carico di valenza politica, simboleggiante la difesa dei princìpi fondamentali che governano la vita pubblica della civitas romana.

Come racconta Livio[22], il parricidium liberum è un gesto carico di dolore, ma fine ultimo del tentativo di oppressione da parte dei potenti patricii, rappresentati idealmente da Appio Claudio Crasso.  Lucio Verginio agisce come un eroe tragico che sacrifica la propria figlia per difendere i principi fondamentali della libertà e della giustizia per l’intera comunità plebea. La storia, dunque, deve essere interpretata non solo come un evento storico isolato, bensì come una narrazione che incarna le lotte e le aspirazioni di un intero gruppo sociale per la dignità e la libertà.

Il tumulto causato dall’ingiustizia subita dalla giovane ebbe ripercussioni di vasta portata sulle istituzioni repubblicane romane.

La reazione della plebe alla vicenda di Virginia si manifestò anche attraverso un atto di protesta nel quale i plebei si ritirarono dalla vita pubblica. Questo movimento di massa esercitò una pressione significativa sull’élite dirigente, che fu costretta a riconoscere i diritti e le aspirazioni della plebe, concedendo loro una maggiore rappresentanza politica e una più equa partecipazione nel governo della Respublica. Le conseguenze politiche della ribellione popolare si concretizzarono in alcune leggi[23], tra le quali spicca la Leges Valeriae Horatiae (449 a.C.), un insieme di provvedimenti legislativi volti a mitigare le tensioni sociali e a garantire una maggiore giustizia e uguaglianza all’interno della società romana.

 

 

 

 

 

 


Bibliografia
MACHIAVELLI N., Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1531.
Fontes iuris romani
  • Leges Xll tabularum
  • Leges Valeriae Horatiae
  • Lex Canuleia
  • Leges Liciniae Sextiae
  • Lex Publilia Philonis
  • Lex Hortensia de plebiscitis
 Principali fonti romanistico-letterarie
  • Livio, ab Urbe condita libri.
  • Dionigi, Antichità romane.

[1] Vd. N. MACCHIAVELLI, Discorsi, I. I. c. II.
[2] Liv., ab Urbe condita libri, 3.44.4.
[3] Liv., ab Urbe condita libri, 3.44.1: «A. Claudium verginis plebeiae stuprandae libido cepit».
 [4] Liv., ab Urbe condita libri, 3.44.9.
[5] Liv., ab Urbe condita libri, 3.44.8.
[6] Liv., ab Urbe condita libri, 3.44.1.1.
[7] Liv., ab Urbe condita libri, 3.47.5.
[8] Liv., ab Urbe condita libri, 3.44.11-12.
[9] P. dig. 1.2.2.24.
[10] Liv. 3.48.
[11] Liv. 3.48.5.
[12] Liv. 3.48.6.
[13] Liv. 3.49.3: «Iam circa Icilium non solum multitudo sed duces quoque multitudinis erant, L. Valerius et M. Horatius, qui repulso lictore, si iure ageret, uindicare se a priuato Icilium aiebant; si uim adferre conaretur, ibi quoque haud impares fore».
[14] Lo “ius provocationis” era il diritto garantito ai cittadini romani di appellarsi contro le decisioni arbitrarie o ingiuste dei magistrati. Mediante esso, si consentiva ai cittadini di chiamare in causa l’assemblea del popolo (comitia populi) affinché valutasse e decidesse sulla validità della decisione presa dal magistrato. Questo processo garantiva una sorta di controllo sul potere dei magistrati e contribuiva a preservare il principio dell’equità nella giustizia romana.
Nel contesto del periodo storico romano, lo “ius provocationis” era un importante strumento di tutela dei diritti dei cittadini contro eventuali abusi di potere da parte dei magistrati. La sua esistenza rifletteva l’importanza attribuita alla giustizia e alla protezione dei diritti individuali nella società romana.
[15] Liv. 3.56.5.
[16] Liv. 3.56.4: «te ab libertate in servitutem contra leges vindicias non dedisse».
[17] Cic., rep., 2.63; de fin., 2.66 e 5.64.
[18] Val., Max., 6.1.2.
[19] Diod. 12.24.
[20] Pomp., dig., 1.2.2.24.
[21] Lo stesso termine “libertas”, come il termine “liberi”, che indica i figli, sia intimamente connesso all’aggettivo “liber” e alla sua declinazione, “libera” e “liberum”, che, quando sostantivato, dà origine al termine astratto di “libertas”. Ciò suggerisce uno stretto legame tra la libertà individuale e la responsabilità di garantire la libertà delle generazioni future. La capacità di mantenere i propri figli liberi diviene, quindi, un pilastro della libertà stessa, poiché contribuisce alla perpetuazione di una società libera e autonoma.
[22] Liv. 3.44-3.50.
[23] Nel periodo successivo alla promulgazione della Legge delle Dodici Tavole, la legislazione da parte dell’assemblea popolare si evolse come fonte di diritto generalmente riconosciuta. Degne di menzione, in particolare, furono alcune leggi, quali: la lex Canuleia (445 a.C.), che eliminava la norma che vietava i matrimoni tra patrizi e plebei; le leges Liciniae Sextiae (367 a.C.), che ammettevano i plebei alla carica di console e istituivano il pretorio; la lex Publilia Philonis (339 a.C.), che eliminò la norma secondo cui le leggi delle assemblee popolari dovevano ottenere l’approvazione del Senato e la lex Hortensia de plebiscitis (287 a.C.), che rendeva le delibere dell’assemblea (plebisciti) plebea vincolanti per tutti i cittadini.

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