La successione “mediata” delle norme penali

La successione “mediata” delle norme penali

La successione di leggi nel tempo rappresenta un fenomeno fisiologico del nostro ordinamento giuridico, in ragione del quale un’identica situazione viene ad essere disciplinata da due norme in rapporto diacronico, ovvero, non contestualmente vigenti.

Il legislatore risponde alla costante necessità di adeguamento del diritto al divenire della realtà sociale proprio tramite una rivalutazione della disciplina esistente.

Ferme restando le normali regole di risoluzione delle antinomie normative, si pone il problema di individuare specifici criteri di determinazione del regime intertemporale della norma penale.

In ambito penalistico, a differenza degli altri rami del diritto, il fenomeno successorio è particolarmente pregnante ed è governato da due fondamentali principi interni, ad oggi, di rilievo anche sovranazionale: il principio di irretroattività della norma incriminatrice e il principio della retroattività della lex mitior.

Il primo è espressamente sancito dall’art. 25, co. 2 Cost., si tratta di un principio avente valore assoluto e non sacrificabile, posto a garanzia della libertà di autodeterminazione del singolo rispetto al precetto penale, in modo tale che lo stesso possa calibrare la propria condotta nella piena consapevolezza delle conseguenze derivanti dall’agire criminoso, senza possibilità alcuna di essere “sorpreso” da una nuova incriminazione o dall’applicazione di un trattamento sanzionatorio deteriore, rispetto a quello vigente al momento del fatto.

Spostandoci al di fuori dei confini nazionali, il principio trova fonte nell’art. 7 CEDU e nell’art. 49 della Carta di Nizza (che, a seguito del Trattato di Lisbona, lo “comunitarizza”).

Il secondo, il principio di retroattività della lex mitior, lungi dal rinvenire il suo fondamento nell’art. 25, co. 2 Cost. – non ponendosi un problema di tutela della libertà di autodeterminazione del singolo – avvenuta precedentemente alla sopravvenienza normativa favorevole – trova fonte nel principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost.

Infatti, applicare retroattivamente la legge più mite, al fatto commesso prima della sua entrata in vigore, evita una disuguaglianza, ovvero, che due soggetti che si siano resi responsabili di uno stesso fatto siano puniti diversamente, l’uno più severamente dell’altro, soltanto sulla base dei diversi contesti temporali di riferimento.

Tuttavia, poiché l’uguaglianza non è un valore assoluto che va perseguito ad ogni costo, bensì, a parità di condizioni, ci sono dei casi in cui la diversità del contesto temporale giustifica ragionevolmente una diversità di trattamento (si pensi, ad esempio, alle leggi temporanee o eccezionali di cui all’art. 2 co. 5 c.p.). Non si tratta, quindi, di un principio assoluto, bensì, derogabile.

Occorre però dare atto che, a partire dal noto Caso Scoppola del 2011, la CEDU ha sostenuto che il principio di legalità include anche quello di retroattività favorevole, ricavandolo implicitamente dall’art. 7  della Convenzione e che, inoltre, lo stesso è richiamato dalla Carta di Nizza.

La stessa Corte di Giustizia Europea ha riconosciuto il principio de quo come appartenete alle tradizioni costituzionali e comuni degli Stati membri, quindi, come principio generale dell’ordinamento comunitario.

Tutto ciò ha portato taluno a ritenere che il fondamento del principio di retroattività della lex mitior non sia più l’art. 3 Cost. ma l’art. 117 Cost.

Da ciò, l’importantissima conseguenza per cui non si tratterebbe più di un principio derogabile, laddove si evidenzino buone ragioni che giustifichino una disparità di trattamento ma, al contrario, un valore assoluto e non sacrificabile (al pari della irretroattività sfavorevole).

Tuttavia, nonostante il progressivo riconoscimento che il principio ha avuto da parte delle fonti internazionali, la nostra Corte Costituzionale non è d’accordo nel ritenere che lo stesso abbia ottenuto un riconoscimento come principio assoluto: esso continua a valere come principio derogabile.

In realtà, la Corte EDU ha detto due cose, ovvero, che la legge più mite non può non essere applicata solo perché sopravvenuta e che la stabilità del giudicato prevale rispetto alla retroazione in melius.

Anzitutto, per negare l’applicazione retroattiva della legge più mite non è sufficiente che la stessa sia sopravvenuta ma è necessario che sussistano buone ragioni, altrimenti la deroga non può che risultare irragionevole.

Ma ciò che più rileva è che, facendo salvo il giudicato, la Corte Edu riconosce una deroga al principio stesso, un’ipotesi in cui lo stesso può essere sacrificato, confermandone la non assolutezza.

Questi due principi trovano collocazione, a livello di legge ordinaria, negli artt. 1 (irretroattività) e 2 c.p., quest’ultimo declina l’operatività e i limiti del principio della retroattività della legge più favorevole.

L’art. 2 c.p., nel disciplinare l’operatività del principio, introduce una distinzione tra mutatio e abolitio criminis: la norma sopravvenuta più mite può semplicemente modificare la disciplina di un fatto che ha sempre costituito reato e continua ad essere considerato tale, ad esempio, mutandone il trattamento sanzionatorio (mutatio), oppure, può privare il fatto di rilevanza penale (abolitio).

La differenza è rilevante, perché in caso di mutatio, in base all’art. 2 co. 4 c.p., il reo avrà diritto all’applicazione della norma più favorevole tra quelle “sopravvenute”, fermo restando che l’uso del plurale permette di comprendere anche la lex intermedia più mite, nel frattempo abrogata, ma non dichiarata incostituzionale.

Inoltre, laddove sia intervenuto il giudicato, questo resta fermo, con l’unica eccezione dell’art. 2 co. 3 c.p., che permette di travolgere il giudicato attraverso la conversione della pena, in caso di condanna a pena detentiva per un fatto per il quale, a seguito della modifica normativa, sia prevista esclusivamente la comminazione della pena pecuniaria.

Al contrario, l’abolitio criminis ha una forza tale da travolgere il giudicato ex art. 673 c.p.p., cosicché, se il soggetto non è stato condannato non potrà esserlo in futuro perché quel fatto non costituisce più reato e, laddove sia intervenuto il giudicato di condanna, questo è revocato e ne cessano tutti gli effetti penali.

Tra i vari criteri elaborati dalla dottrina al fine di porre in rilievo il discrimen tra abolitio e mutatio, quello adottato è il criterio strutturale che ha natura formale e richiede di operare un raffronto in astratto tra la vecchia e la nuova formulazione della fattispecie.

All’esito di tale raffronto, laddove le due norme in successione si pongano in un rapporto di specialità unilaterale (non reciproca), per aggiunta o per specificazione, si avrà mutatio criminis, in caso contrario abolitio, con conseguente inapplicabilità sia della nuova norma ai giudizi in corso, perché si tratta di nuova incriminazione che non può retroagire, sia della vecchia norma ormai abolita.

Il criterio strutturale, più certo e prevedibile, è privilegiato rispetto ai criteri sostanziali che danno valore a concetti opinabili come il bene protetto.

Può verificarsi un’ipotesi di mutatio  con, contestuale e parziale abolitio crimins, qualora la nuova norma abbia un ambito applicativo più ristretto della precedente per via dell’elemento specializzante e il fatto concreto non possieda tale elemento, in tal caso, infatti, la condotta non sarà sussumibile né sotto la vecchia né sotto la nuova incriminazione.

In caso di mutatio, ove il giudizio sia in corso (giudice di cognizione), occorre fare una contestazione suppletiva che modifichi l’imputazione e tenga in considerazione dell’elemento specializzante (es. rapporto di causalità rispetto alla bancarotta fallimentare).

La situazione è maggiormente problematica, nel caso in cui la sentenza sia passata in giudicato: ci si chiede, infatti, se il giudice dell’esecuzione debba limitarsi a guardare al fatto, per come è stato descritto nella sentenza di condanna o se possa condurre un’ulteriore indagine, andando a vedere se il fatto concreto presentasse l’elemento specializzante, a prescindere dal modo in cui è stato descritto nella sentenza di condanna.

La tesi preferibile ritiene che il giudice dell’esecuzione debba limitarsi a guardare il fatto per come definito nella sentenza di condanna e, se dalla stessa non emerge la sussistenza in concreto dell’elemento specializzante, allora, si avrà abolitio e revoca del giudicato.

La dottrina si è più volte interrogata in merito alla possibilità di estendere queste regole, che presiedono la successione cd. immediata delle leggi penali – che si verifica ogni volta in cui l’intervento legislativo incida direttamente sulla struttura della fattispecie incriminatrice – anche in caso di successione mediata, ossia, quando la sopravvenienza abbia ad oggetto gli elementi normativi richiamati dalla norma penale stessa.

Più precisamente, nel redigere la norma e, quindi, nel descrivere in modo preciso e puntuale la condotta penalmente rilevante, nulla vieta al legislatore di far ricorso ad elementi tanto naturalistici quanto normativi.

I primi fanno riferimento ad una realtà fisica o psichica, materiale o immateriale, percepibile con i sensi, si pensi al concetto di “uomo” nel reato di omicidio di cui all’art. 575 c.p.

Mentre, gli elementi normativi, attraverso un rinvio mobile, mutuano alcuni concetti previsti da altre norme penali (concetto di “reato” nella calunnia) o norme extrapenali (l’altruità della cosa nel furto, concetto ripreso dal diritto civile).

Infatti, la norma penale, spesso, a causa della sua tendenziale staticità, non è in grado di rispondere alle istanze di difesa avanzate dalla collettività e proprio il richiamo a concetti “elastici” – purché, non vaghi o indeterminati – permette di adeguarla ai mutamenti sociali.

Nulla quaestio, laddove il mutamento sopravvenuto modifichi in peius l’elemento normativo, infatti, lo stesso non potrà retroagire stante il carattere generale del principio di irretroattività (comune a tutti i rami del diritto) di cui all’art. 11 delle preleggi.

Il vero problema si è posto con riguardo alle modifiche extrapenali favorevoli, infatti, ci si è chiesti se le stesse, pur non toccando la fattispecie che resta immutata, possano comunque essere regolate dall’art. 2 commi 2 e 4 c.p. e, in particolare, se possano acquisire efficacia abolitrice retroattiva.

La dottrina, nel tentativo di fornire all’interprete, una risposta sufficientemente attendibile, ha elaborato due diverse teorie.

Per la prima, nota come “tesi della doppia punibilità in concreto”, qualsiasi elemento richiamato dalla norma, che concorra alla descrizione del fatto tipico o dei presupposti fattuali della condotta, viene assorbito dal precetto mutuandone la natura penale.

In modo tale che, a prescindere da un confronto tra fattispecie astratte, se il fatto concreto risulta punibile e sussumibile sotto entrambe le norme in successione, allora, si avrà continuità con conseguente applicazione della regola di cui all’art. 2 co. 4 c.p.

Qualora, invece, il fatto non risulti più punibile dalla norma, a seguito del mutamento extrapenale, si avrà discontinuità e abolitio ex art. 2 co. 2 c.p.

Diversa dottrina, superando la suddetta tesi, ritiene necessario accertare la continuità rispetto al tipo di illecito.

In altre parole, a seguito della sopravvenienza normativa extrapenale, spetterà all’interprete accertare se lo stesso abbia o meno scalfito il disvalore penale del fatto che il legislatore ha inteso perseguire.

Quindi, si prescinde da un confronto strutturale in astratto, a favore di una verifica della continuità del bene giuridico tutelato.

Sul punto, le SS.UU. della Cassazione, con la nota sentenza Magera, 16 gennaio 2008, n. 2451, hanno aperto la strada ad un orientamento maggiormente condivisibile.

In tale occasione, la giurisprudenza di legittimità ha escluso l’operatività dell’art. 2 c.p. a favore di un cittadino rumeno, imputato del reato di cui all’art. 14 co. 5ter  T.U. immigrazione, nonostante, l’intervenuta adesione del suo Paese di origine all’Unione Europea.

Nel motivare la propria decisione, le SS.UU. hanno superato la tesi della doppia punibilità in concreto, non trascurando di sottolineare la necessità di un confronto strutturale tra fattispecie astratte, al fine di stabilire se, effettivamente, la sopravvenienza extrapenale possa in qualche modo incidere sulla struttura del reato.

Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, infatti, un accertamento in concreto avrebbe, senza alcun dubbio di sorta, condotto all’assoluzione del reo, non più punibile alla luce dell’intervenuto ingresso della Romania nell’Unione Europea e della perdita della qualifica di “straniero”.

I giudici hanno poi precisato che, affinché possa rinvenirsi un fenomeno di successione mediata, occorre valutare il “ruolo” che l’elemento extrapenale ricopre a livello di previsione incriminatrice.

Infatti, solo l’elemento normativo idoneo ad integrare il precetto penale, nel caso di un suo mutamento, potrà incidere sulla struttura della fattispecie e – condividendone la natura – potrà dar luogo ad una successione di norme governata dalle regole vigenti in materia penale.

Ciò è quanto si sarebbe verificato laddove il legislatore fosse intervenuto direttamente sul significato del termine “straniero”, rinvenibile nell’ambito di una norma richiamata implicitamente dalla norma penale.

Al contrario, nel caso in esame, oggetto di modifica è stato il solo presupposto di fatto della condotta incriminata, con inoperatività dell’art. 2 c.p.

L’impossibilità di riscontrare un successione mediata, in questi casi, esclude che il cittadino di uno Stato in procinto di aderire all’Unione Europea possa liberamente delinquere, nella consapevolezza di andare esente da pena.

La norma extrapenale integra il precetto solo quando potrebbe essere idealmente inserita nello stesso senza che nulla cambi ed è solo per ragioni di stile o di tecnica legislativa che viene collocata al di fuori del precetto.

Quanto argomentato ha permesso di riscontrare con certezza un fenomeno di successione mediata quando a mutare è una norma definitoria.

In un’ottica di economia legislativa, la norma definitoria determina la sostituzione ideale di un termine con la sua definizione, tramite un rinvio a quest’ultima, che ne permette l’assorbimento nella norma penale.

Ciò fa sì che il legislatore possa evitare di ripetere pedissequamente il dettato definitorio nel testo normativo.

Se la definizione resta inalterata e un soggetto non rientra più nell’ambito di applicazione della norma, si ha una modifica del fatto e non del precetto.

Le SS.UU. della Cassazione, con la sentenza Niccoli, 15 maggio 2008, n. 19601, si sono interrogate su un ulteriore profilo di interferenza tra reati propri e modifiche cd. mediate, con riferimento ai reati di bancarotta,  a seguito e per effetto del mutamento del concetto di “piccolo imprenditore”, assoggettabile a fallimento.

Posto che il reato di bancarotta può essere commesso soltanto dal fallito, quando il legislatore ha esteso il novero di soggetti non fallibili, a seguito della modifica dell’art. 1 del R.D., 16 marzo 1942, n.267, ci si è chiesti se, in realtà, abbia inciso in via mediata anche sulla fattispecie, in senso favorevole al reo.

Le SS.UU. hanno risposto negativamente, evidenziando come in questo caso la norma penale non richiami la norma definitoria extrapenale, bensì, la dichiarazione di fallimento nella sua natura di provvedimento giurisdizionale.

Il giudice penale non può che prendere atto della sentenza dichiarativa di fallimento, non potendo in alcun modo sindacarne il contenuto (la sentenza è sindacabile solo di fronte al giudice civile, con gli ordinari mezzi di impugnazione).

Pertanto, i nuovi contenuti dell’art. 1 L. Fall. non incidono su un dato strutturale del paradigma della bancarotta ma sulle condizioni di fatto per la dichiarazione di fallimento, sicché non possono dirsi norme extrapenali che interferiscono sulla fattispecie penale.

Diverso è il caso in cui la norma incriminatrice evochi un reato, tramite un elemento normativo (es. calunnia o reato scopo ex art. 416 c.p.) e quella stessa fattispecie venga poi abrogata.

Secondo alcuni, la norma abolitrice sarebbe dotata di una “retroattività propria” in quanto, in materia penale, vale il principio per cui l’abolitio è retroattiva; si tratterebbe di una retroattività che opera a prescindere dal fatto che la norma integri o meno il precetto.

Ciò porterebbe alla conclusione per cui, ogniqualvolta la norma incriminatrice evoca un reato e quel reato viene meno, si avrebbe sempre abolitio criminis con revoca dei giudicati.

La Cassazione, rendendosi conto che tale assunto porterebbe ad esiti pratici deleteri, ha attuato una distinzione che introduce un chiaro elemento valutativo connesso alla teoria della permanenza del disvalore del fatto: occorre verificare se, all’esito della modifica normativa, il fatto abbia mantenuto il proprio disvalore o meno.

In altre parole, occorre stabilire l’incidenza che tale reato ha sull’economia della fattispecie e, quindi, se rilevi solo per la qualificazione di un elemento formale o abbia incidenza sostanziale.

Ad esempio, in caso di calunnia, il venir meno del reato del quale il calunniato sia stato ingiustamente accusato, non fa venir meno il disvalore della fattispecie, trattandosi di un reato a plurioffensività alternativa.

Mentre, nell’associazione a delinquere, il venir meno del reato scopo esclude il disvalore penale del fatto.

Al di là del caso analizzato, il fenomeno di successione mediata può scaturire anche dal mutamento della norma extrapenale chiamata ad integrare la norma penale in bianco.

Anzitutto, con il nomen “norma penale in bianco”, gli interpreti sono soliti riferirsi ad una norma a sanzione determinata ma a precetto generico, tant’è che taluno spesso parla di “norma senza precetto”, riconoscendo alla stessa una funzione meramente sanzionatoria.

Altri, invece, la considerano una “norma a precetto completo”, ritenendo sufficiente a tal fine il richiamo a fonti secondarie con funzione integratrice come, ad esempio, atti amministrativi o giudiziari.

Risulta imprescindibile stabilire a quali condizioni l’inosservanza di un provvedimento amministrativo possa integrare una norma penale in bianco, per poter poi analizzare la disciplina del relativo fenomeno successorio.

A tal fine, occorre distinguere tra atti amministrativi che non integrano il precetto, ma si pongono rispetto allo stesso alla stregua di meri presupposti di operatività, agendo sul piano dei presupposti di fatto, e atti amministrativi che integrano il precetto.

Soltanto, i provvedimenti a carattere generale ed astratto, con funzione propriamente normativa, sono considerati idonei ad integrare il precetto penale, purché il loro richiamo avvenga ai soli fini di specificazione tecnica di elementi della fattispecie che il legislatore ha già individuato nelle loro linee essenziali, ma che richiedono di essere specificati e aggiornati.

Infatti, il contrasto con il principio di riserva di legge sarebbe evidente qualora la norma rimettesse, tout court, alla fonte secondaria la determinazione del precetto: l’esecutivo andrebbe ad arrogarsi il diritto di compiere scelte politico-criminali di esclusivo appannaggio del Parlamento, quale organo munito di legittimazione democratica.

In tal caso, l’eventuale sopravvenienza che coinvolga l’atto normativo della P.A. non potrà che dar luogo ad una successione mediata.

Classico esempio è quello in materia di stupefacenti: il legislatore decide di incriminare determinate condotte, dettando tutti gli elementi della fattispecie, poi la concreta individuazione delle tipologie di sostanza stupefacente, della soglia drogante, della quantità di principio attivo, avviene ad opera di una fonte secondaria con funzione di specificazione tecnica.

Qualora, ad esempio, il soggetto si sia reso responsabile del reato di cessione a terzi di una determinata sostanza prevista dalle tabelle ministeriali (alle quali fa rinvio il D.PR. 309/1990) e, in seguito, la stessa venga espunta dall’elenco a causa di una modifica favorevole sopravvenuta – riduttiva del novero di condotte incriminate – lo stesso dovrà essere assolto o, in caso di condanna dovranno cessarne gli effetti penali, alla luce di una successione mediata e dell’operatività dell’art. 2 co. 2 c.p.

Diverso è il caso in cui la norma penale sanzioni l’inosservanza di un provvedimento amministrativo individuale e concreto.

In questi casi, il precetto sta tutto nella legge, perché il legislatore descrive in astratto e in generale la condotta penalmente rilevante senza rinviare ad alcuna fonte integratrice solo che, per stabilire in concreto quando quella condotta è integrata, bisogna confrontarsi anche con regolamenti, leggi regionali o atti amministrativi.

In altre parole, il provvedimento amministrativo non concorre a descrivere, in via generale ed astratta, cosa è reato integrando il precetto, ma serve semplicemente ad accertare se il fatto si sia concretamente realizzato.

Ad esempio, la norma che punisce l’inosservanza dei provvedimenti legalmente dati per ragioni di giustizia, sicurezza, etc., ovvero, l’art. 650 c.p. è indicato quale norma penale in bianco.

Nella fattispecie di cui all’art. 650 c.p., il provvedimento non descrive il comportamento penalmente rilevante (tale comportamento non è ciò che ordina il provvedimento stesso, ovvero, lo stare in casa, l’abbattere il muro, l’andare in questura, etc.) ma quegli aspetti concreti che servono a capire se ciò che il legislatore punisce in astratto si è concretamente realizzato.

Il comportamento punito è il non osservare i provvedimenti amministrativi, emanati per certe ragioni, quello che in concreto l’atto prescrive sta al di fuori del precetto.

In altre parole, il precetto, in quanto norma generale ed astratta, non può essere integrato da un provvedimento individuale e concreto, la cui inosservanza non appartiene alla descrizione del fatto tipico ma rappresenta un presupposto di operatività.

Così, se un indomani muta il provvedimento e la condotta prevista dallo stesso diviene legittima, non si avrà alcuna abolitio criminis, nessuna successione mediata, perché a cambiare è una norma che non integra il precetto ma che opera come mero presupposto fattuale della fattispecie.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Articoli inerenti