L’abuso del processo penale

L’abuso del processo penale

Con la sentenza n. 43593 resa in data 2 ottobre 2018, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha delineato gli elementi costitutivi della patologia inquadrata, da un angolo prospettico di natura concettuale, nell’àmbito della categoria dell’abuso del processo che si realizza ogniqualvolta l’esercizio di un diritto riconosciuto dal codice di rito risulti essere solo in apparenza conforme alla finalità legittima in relazione alla quale viene attribuito rappresentando, viceversa, uno sviamento dalla funzione tipica con esiti meramente dilatori ed ingiustificatamente paralizzati l’iter procedimentale.

Il caso pratico giunto sino alla giurisprudenza di legittimità riguarda, in breve, un uso arbitrario dei termini a difesa riconosciuti dall’art. 108 c.p.p., determinato dall’avvicendamento di difensori, reiterato sino alla chiusura del dibattimento e senza alcuna reale esigenza difensiva, al solo scopo di ottenere una dilatazione dei tempi processuali.

Il ricorrente, tra i quattro motivi di ricorso, riteneva affetto da nullità a regime intermedio in forza della norma generale posta dall’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), il provvedimento di rigetto – poi confermato dalla territoriale Corte di Appello – emesso dal Tribunale ed avente ad oggetto la richiesta di (un ennesimo) termine a difesa giusta nuova nomina intervenuta prima dell’udienza di discussione.

Nel confermare la motivazione resa in parte qua dal Giudice di secondo grado, la Corte di Cassazione argomenta come il continuo avvicendamento di difensori, realizzato a chiusura del dibattimento, secondo uno schema reiterato e non giustificato da alcuna reale esigenza difensiva, non realizza altra funzione che ottenere una dilatazione dei tempi processuali, talché, con peculiare riferimento al diritto del termine a difesa previsto dall’art. 108 c.p.p., trattasi di abuso degli strumenti difensivi del processo penale per ottenere non garanzie processuali effettive o realmente più ampie, ovvero migliori possibilità di difesa, ma una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali.

Di conseguenza, deve ritenersi conforme a diritto il diniego di termini previsti dall’art. 108, comma 1, c.p.p.., quando nessuna lesione o menomazione ne derivi, in assoluto, all’esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica.

L’interessante esegesi dogmatica offerta dalla nomofilachia trae spunto da categorie di matrice civilistica in seno alle quali si riconosce la nascita ed il compimento ad evoluzione dell’istituto dell’ “abuso del diritto” il quale, rispetto all’abuso del processo, si pone in evidente rapporto di genere a specie.

Ontologicamente l’abuso del diritto – in contrapposizione al quale è stata mutuata dal diritto romano la categoria dell’exceptio doli generalis – si appalesa un principio generale tanto del diritto interno quanto di quello comunitario, laddove non si apprezzano distonie classificatorie, essendo comunemente riconducibile al paradigma dell’utilizzazione per finalità oggettivamente non già solo diverse, ma collidenti rispetto all’interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto.

Individuata negli inderogabili princìpi di autotutela ed ordine pubblico la fonte ex qua oritur, si rende viva la necessità di evitare che situazioni di diritto soggetto perfetto vengano sviate dalla propria funzione (in misura del tutto assimilabile al detournement de pouvoir di matrice amministrativa) talché l’uso distorto del diritto di agire o reagire in giudizio, rivolto alla realizzazione di un vantaggio contrario allo scopo per cui il diritto stesso è riconosciuto, non possa ammettere tutela.

In tal senso si esprime la giurisprudenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili n. 4090 del 16 febbraio 2017, qualificando negativamente (e perciò nulla) per abuso del diritto, la parcellizzazione del credito in difetto di un concreto interesse ad agire in giudizio mediante azioni separate.

Trascendendo in ámbito sovranazionale, l’orientamento della CGUE è nel senso di interpretare l’art. 35, p. 3 (a) (già art. 35, p. 3, e prima 27) della Convenzione Europea dei diritti umani nel senso di ritenere abusivo (e dunque irricevibile) il ricorso quando la condotta ovvero l’obiettivo del ricorrente siano manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto.

Ancora, in senso sostanziale, invocare un interpretazione delle disposizioni dell’ordinamento Comunitario in senso apertamente ed irrazionalmente contrastante con gli obiettivi previsti dalle fonti sovranazionali comporta la reiezione di ogni richiesta di tutela (ex pluribus, cfr. sentenza 21 febbraio 2006, causa C 255/02, Halifax e al.).

Conclusivamente, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, conferma il proprio orientamento secondo il quale: “’…l’uso arbitrario trasmoda poi in patologia processuale, dunque in abuso, quando l’arbitrarietà degrada a mero strumento di paralisi o di ritardo e il solo scopo è la difesa dal processo, non nel processo: in contrasto e a pregiudizio dell’interesse obiettivo dell’ordinamento e di ciascuna delle parti a un giudizio equo celebrato in tempi ragionevoli. In questo caso non soltanto la norma non legittima ex post eccezioni di nullità, ma va escluso, in radice, che il diritto in essa previsto possa essere riconosciuto”.


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