Verso la legittimità del “patto di quota lite”?

Verso la legittimità del “patto di quota lite”?

Sommario: Premessa – 1. Ante D.L. n. 223/2006 (c.d. Legge Bersani) – 2. L’evoluzione dopo il D.L. n. 223/2006 (convertito in Legge n. 248/2006 – Legge Bersani) – 3. La riforma forense sulla pattuizione dei compensi: L. 31 dicembre 2012 n. 247 – 4. Le argomentazioni della Suprema Corte

Premessa

Un tema da sempre dibattuto è quello connesso alle modalità di pagamento della prestazione professionale, soprattutto quando si fa riferimento all’accordo generalmente conosciuto come “patto di quota lite”.

Ma di cosa si tratta?

Non è altro che un accordo raggiunto da un avvocato ed il proprio cliente a mezzo del quale il compenso spettante al professionista viene quantificato in una “quota” di beni o diritti in lite: pertanto, il calcolo verrà eseguito in percentuale o proporzione al risultato raggiunto al termine della causa.

Questo principio, in apparenza di lineare applicazione, ha generato non pochi problemi a livello pratico, e non solo. Il dibattito, non ancora del tutto assopito, prende le mosse dalla dubbia applicabilità dell’istituto stante il decoro, la dignità ed il prestigio di cui da sempre si fregia la professione legale.

Quindi, il cliente può concludere questo “patto” con il proprio Avvocato?

1. Ante D.L. n. 223/2006 (c.d. Legge Bersani)

Prima dell’entrata in vigore della c.d. Legge Bersani, il nostro Codice Civile nella sua precedente formulazione vietava in toto la stipula del patto di quota lite, stabilendo che “gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e di danni” (art. 2233, comma 3).

Non solo, accogliendo lo stesso indirizzo, anche il previgente Codice Deontologico si mostrava “ai ferri corti” con questa tipologia di pattuizione, vietandola ove diretta ad ottenere una percentuale del bene oggetto di controversia o, comunque, rapportata al valore della medesima quale corrispettivo della prestazione professionale (art. 45).

2. L’evoluzione dopo il D.L. n. 223/2006 (convertito in Legge n. 248/2006 – Legge Bersani)

Aderendo ad un’impostazione più strettamente concorrenziale, ed al fine di favorire la “libera circolazione” dei servizi professionali, l’intervento legislativo apportava le prime sostanziali modifiche all’assetto tariffario eliminando il principio dell’inderogabilità dei minimi tariffari e legittimando la stipula del patto di quota lite. Quanto sopra si rendeva evidente anche a mezzo della nuova formulazione adottata del terzo comma dell’art. 2233 c.c. che recita “sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali“.

3. La riforma forense sulla pattuizione dei compensi: L. 31 dicembre 2012 n. 247

La vera ventata rivoluzionaria giunge poi a mezzo della Legge di conversione del D.L. 1/2012 che ha definitivamente condotto all’abrogazione del sistema tariffario professionale regolamentato nel sistema ordinistico. La novella legislativa introduce una nuova disciplina dei compensi, con particolare riferimento alla professione forense, venendo così meno non solo i minimi ma anche i massimi tariffari.

L’indirizzo adottato trova culmine nella previsione secondo cui “la pattuizione dei compensi è libera” (art. 13), seppur vincolati ad alcuni indici di riferimento: “è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione“.

Pur aderendo in via generale al principio della libera pattuizione dei compensi, il legislatore del 2012 pone un vero e proprio freno alla possibilità di usufruire o, comunque, abusare del patto quota lite enunciando, nel comma 4, il divieto di quelle pattuizioni con le quali “l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa“; indirizzo legislativo, questo, che veniva collaudato e confermato anche dall’attuale Codice Deontologico forense.

4. Le argomentazioni della Suprema Corte

Trattasi di una tematica che ha creato non poche perplessità, atteso che allo stato dei fatti la possibilità di concordare con il proprio cliente il compenso in percentuale sembrerebbe cozzare con il vigente divieto imposto sulla stipula del patto a mezzo del quale l’avvocato ed il proprio cliente dispongono del presente compenso intendendolo quale “quota” del bene in contestazione.

Sul punto, la Suprema Corte non si è di certo esentata dal prendere posizione a mezzo di un recente orientamento. Nella specie, la questione esaminata trovava fonte nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dall’avvocato a titolo di propri compensi professionali. Atteso che la controversia veniva ricondotta al quadro legislativo del D.L. n. 223/2006 in virtù dell’arco temporale in cui il patto veniva stipulato, non sorgeva alcun dubbio in merito alla applicabilità del medesimo, espressamente consentito dalla norma, ma solo in relazione alla possibilità di superare o meno il massimo tariffario.

Dunque, sulla falsariga della “gerarchia” che può agevolmente evincersi dalla norma di riferimento in tema di compensi, vale a dire l’art. 2233 comma 3 c.c., gli ermellini ribadiscono che il criterio di determinazione dell’onorario professionale fondato sulle tariffe massime ricoprirebbe un ruolo sussidiario rispetto all’accordo tra le parti, risultando obbligatorie solo nelle ipotesi di mancata conclusione di quest’ultimo. E proprio in tale direzione, La Suprema Corte insiste nel riferire che la previsione di cui al comma 1 lett. a) dell’art. 2 del D.L. 226/2006 non impone l’osservanza dei massimi tariffari, eliminando il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti (C. Cass., III Sez. Civ., n. 17726 del 6.07.2018).

Dunque, la posizione ad oggi ricoperta dal patto quota lite non risulta ancora pienamente definita, potendosi piuttosto giungere ad un’ipotetica e duplice valutazione: da un lato, potranno considerarsi validi ed efficaci quei patti conclusi tra professionista e cliente in forma scritta che siano comunque proporzionati ai risultati raggiunti, per converso risulterà illecitamente concluso quell’accordo relativo ad una “quota” del bene oggetto della res litigiosa.

Auspicabile, dunque, una maggiore apertura verso il patto di quota lite? Restiamo in attesa di un intervento chiarificatore che ponga finalmente termine all’annoso dibattito.


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