La colpa della P.A. nello spoils system costituzionalmente illegittimo: riflessioni

La colpa della P.A. nello spoils system costituzionalmente illegittimo: riflessioni

Nota a Cass. civ., Sez. VI, ord. 8 ottobre 2019 n. 25189

In caso di illegittima risoluzione anticipata d’un incarico dirigenziale in base a norma poi dichiarata costituzionalmente illegittima, al dirigente spetta il risarcimento del danno; tale danno, considerato che la colpa dell’agente è elemento essenziale dell’illecito, è risarcibile solo dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, ove l’amministrazione non si sia conformata alla sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale e a condizione che a detta data non fosse già decorso anche il termine finale previsto nel contratto di conferimento dell’incarico.

Sommario: I. Premessa – II. Il caso – III. La soluzione della Suprema Corte – IV. Spunti di riflessione. Conclusioni

 

I. Premessa

Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione ritorna su un tema di particolare importanza e frequenza: la configurabilità di un illecito da parte della Pubblica Amministrazione nel caso di sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità della disciplina sul c.d. spoils system. Con tale ultimo termine si indica, come noto, una fattispecie di decadenza automatica dagli incarichi dirigenziali, connessa al cambio dell’esecutivo[1].

L’interrogativo che si pone è il seguente: dato che la sentenza di accoglimento del Giudice delle Leggi è destinata a produrre effetti ex tunc, eliminando la norma incostituzionale dal momento della sua entrata in vigore, potrebbe configurarsi un comportamento dell’Amministrazione – che comunica la scadenza dall’incarico al dirigente – anch’esso illecito ex tunc, in quanto sin dall’inizio non più conforme ad alcuna norma dell’ordinamento?

II. Il caso

La pronuncia in questione prende le mosse da un contenzioso decennale afferente all’Avvocatura Generale dello Stato, relativo a una fattispecie di spoils system verificatasi con il passaggio dalla XV alla XVI Legislatura della Repubblica. A un dirigente dell’Istat, che aveva ottenuto l’incarico quinquennale per il coordinamento della Direzione generale per il volontariato, l’associazionismo e le formazioni sociali del Ministero per la solidarietà (l’odierno Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) il 31 luglio 2007, veniva comunicata la scadenza ope legis del suo incarico il 13 agosto 2008 in base alla disposizione dell’art. 19 comma 8 d.lgs. 165/2001.

Tale articolo, nella formulazione anteriore alla modifica intervenuta con l’art. 40 d.lgs. 150/2009, prevedeva che venissero dichiarati decaduti decorsi 90 giorni dal voto di fiducia alla nuova compagine governativa[2] non solo gli incarichi dirigenziali di carattere apicale (quindi inevitabilmente connessi con il potere politico, come ad esempio il “Segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente”[3]), ma anche quelli attribuiti a soggetti “esterni” non incardinati nei ruoli dirigenziali previsti dalla stessa amministrazione di appartenenza – fossero soggetti comunque inquadrati nelle Amministrazioni pubbliche, come il dirigente dell’Istat nel caso in analisi, o selezionati tra coloro con esperienza di almeno cinque anni in funzioni analoghe nel settore privato oppure con particolare formazione professionale.

L’ormai ex dirigente per il coordinamento della Direzione generale per il volontariato, l’associazionismo e le formazioni sociali ricorreva al Tribunale di Roma per ottenere l’annullamento della revoca dell’incarico, con conseguente reintegrazione anche in una funzione equivalente e la condanna del Ministero alla corresponsione delle differenze retributive tra il compenso per la mansione svolta presso il Ministero e quanto percepito presso l’Istat fino alla reintegra, oltre al risarcimento del danno professionale subito. Con il ricorso chiedeva anche al giudice di rilevare una questione di legittimità costituzionale del citato art. 19 comma 8, in quanto applicabile alla fattispecie in causa.

Nel frattempo, il legislatore interveniva sull’art. 19 con il d.lgs. 150/2009, espungendo dal comma 8 il riferimento ai soggetti che non rivestissero posizioni dirigenziali di tipo apicale. Stante la mancanza di una espressa clausola di retroattività, il problema continuava a porsi per i soggetti che fossero stati dichiarati decaduti antecedentemente alla riforma, come l’ex dirigente del caso di specie. Il Tribunale di Roma, nel frattempo, riteneva la questione rilevante e non manifestamente infondata, rimettendola alla Corte Costituzionale. Il Giudice delle Leggi, con sentenza dell’11 aprile 2011, n. 124 dichiarava l’incostituzionalità dell’art. 19 comma 8 precedente versione, nella parte in cui disponeva che gli incarichi di funzione dirigenziale generale (limitatamente al personale non appartenente ai ruoli della stessa amministrazione) cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo.

La Corte rilevava che “questa Corte ha più volte affermato l’illegittimità costituzionale di meccanismi di spoils system riferiti ad incarichi dirigenziali che comportino l’esercizio di compiti di gestione, cioè di «funzioni amministrative di esecuzione dell’indirizzo politico» (sentenze n. 224 e n. 34 del 2010, n. 390 e 351 del 2008, n. 104 e n. 103 del 2007), ritenendo, di converso, costituzionalmente legittimo lo spoils system quando riferito a posizioni apicali (…) Non vi è dubbio che la disposizione censurata si riferisca ad incarichi che comportano esercizio di funzioni di gestione amministrativa.”. D’altra parte, il Giudice delle Leggi aveva precedentemente affermato che “la natura esterna dell’incarico non costituisce un elemento in grado di diversificare in senso fiduciario il rapporto di lavoro dirigenziale, che deve rimanere caratterizzato, sul piano funzionale, da una netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie”, concludendo che “anche per i dirigenti esterni il rapporto di lavoro instaurato con l’amministrazione che attribuisce l’incarico deve … assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione”[4]. La pronuncia n. 124/2011 traeva dunque le fila del discorso osservando che, vista la precedente dichiarazione di incostituzionalità dello spoils system transitorio per gli incarichi dirigenziali dello stesso tipo di quello svolto dall’ex dirigente, la disposizione in esame era da considerarsi illegittima[5].

Il ricorrente riassumeva quindi il giudizio e il Tribunale, con sentenza n. 18287/2011, condannava il Ministero alla reintegra nell’incarico del dirigente fino alla scadenza originariamente prevista per il 31 luglio 2012, nonché al risarcimento del danno in misura pari alla differenza tra il trattamento retributivo percepito a seguito del conferimento dell’incarico, poi cessato per effetto dello spoils system, e quello percepito presso l’Istat in seguito alla nuova immissione nei ruoli.

Il Ministero e lo stesso dirigente impugnavano la sentenza per profili diversi di fronte alla Corte d’Appello di Roma che, in parziale accoglimento dell’appello incidentale proposto dal privato, condannava l’Amministrazione al risarcimento del danno in misura pari alle differenze stipendiali e sin dalla data di messa in mora del 28 ottobre 2008, fino all’effettiva reintegrazione dell’incarico o, in mancanza, fino al 31 luglio 2012.

Contro tale assunto proponeva ricorso per cassazione il Ministero del Lavoro, sostenendo che il momento iniziale per il calcolo del risarcimento del danno dovuto dall’Amministrazione fosse da individuare nel giorno successivo a quello della pubblicazione della pronuncia della Corte Costituzionale (e dunque il 12 aprile 2011) e non prima, stante l’effettiva vigenza fino a quel tempo della disposizione di cui all’art. 19 comma 8 d.lgs. 165/2001, seppure intrinsecamente illegittima.

III. La soluzione della Suprema Corte

La questione arrivata all’analisi della Cassazione imponeva un aut-aut: la prima possibilità era ritenere perfezionato l’illecito del Ministero sostanzialmente fin dal momento della risoluzione anticipata del rapporto lavorativo, in quanto la pronuncia del Giudice delle leggi avrebbe reso illegittimo l’art. 19 comma 8 d.lgs. citato ex tunc, in ossequio alla costante ricostruzione dottrinale e giurisprudenziale dell’efficacia delle sentenze della Corte Costituzionale; l’altro esito era, fermo restando l’effetto caducatorio della sentenza della Corte Costituzionale sulla norma, ritenere verificato l’illecito dal momento in cui veniva proclamata l’illegittimità del sopra menzionato articolo.

La scelta della Suprema Corte è stata in questo secondo senso, traendo spunto da un orientamento già espresso dalle Sezioni Unite negli anni ’70 e più recentemente ripreso proprio in tema di decadenza automatica dalle funzioni dirigenziali successivamente dichiarata incostituzionale (Cass. civ, sez. lav., n. 29169/2018; Cass. civ, sez. lav., n. 20100/2015; Cass. civ., sez. lav., n. 355/2013). Gli effetti retroattivi della pronuncia di incostituzionalità riguardano la sola illegittimità delle norme, ma non l’eventuale configurabilità della colpa in capo ai soggetti, requisito soggettivo dell’illecito. Proprio perché la colpa è uno stato soggettivo meritevole di un effettivo accertamento, che non può essere sostituito da una mera fictio juris, la responsabilità dell’Amministrazione è stata configurata dalla pronuncia di incostituzionalità (rectius, dal giorno successivo alla pubblicazione della stessa, ex art. 136 Cost.). Da quel momento, infatti, l’Amministrazione era resa edotta dell’invalidità della norma ed aveva la possibilità di immettere nuovamente nelle sue funzioni l’ex dirigente, il cui incarico non era scaduto.

IV. Spunti di riflessione. Conclusioni

Come si è avuto modo di analizzare sub punto III, la soluzione dei Giudici di legittimità non si caratterizza per innovatività rispetto ai precedenti orientamenti, ma fornisce l’occasione per fare un’osservazione sulla responsabilità dell’Amministrazione.

L’atto di revoca dalle funzioni dirigenziali è stato considerato, nel caso di specie, avente natura privatistica[6] e ciò ha legittimato il richiamo ai concetti di responsabilità disciplinati dal codice civile. Quid juris se, accedendo alla tesi opposta esistente sul tema[7], si volesse considerare la revoca come un provvedimento amministrativo? Il cambiamento della disciplina a cui l’atto è sottoposto avrebbe fondato una responsabilità dell’Amministrazione indipendentemente dall’elemento soggettivo (in questo caso, la colpa)? Si ritiene che i risultati a cui la Suprema Corte perviene non sarebbero affatto cambiati.

In dottrina[8] e in giurisprudenza[9], successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 500/99, si è ritenuto che la responsabilità dell’Amministrazione necessariamente integrasse un momento oggettivo ed uno soggettivo. In particolar modo, è stata ricostruita la colpa come violazione dei parametri dell’imparzialità, della correttezza e del buon andamento, ovvero come inescusabile negligenza, omissione o errore interpretativo di norme, non potendo ritenersi (generalmente) in re ipsa nell’adozione di un provvedimento invalido. Nonostante permangano orientamenti contrari[10], l’illegittimità dell’atto adottato è solamente un indizio della colpa, la quale deve però essere apprezzata come vero e proprio status soggettivo.                                                                                      Fondamentale a questo proposito è la distinzione tra le categorie dell’illegittimità e dell’illiceità dell’atto amministrativo.

Con il termine illegittimità (o invalidità) si indica l’atto in contrasto con lo schema legale: si tratta di una ampia categoria, che comprende le patologie della nullità, dell’annullabilità e (per chi ne ammette la separata esistenza rispetto alla nullità) dell’inesistenza. Con illiceità si intende invece il comportamento dell’Amministrazione, lesivo di una posizione giuridica soggettiva tutelata dall’ordinamento. Le due situazioni possono coesistere nella prassi, come anche rimanere distinte[11].

Il caso qui in esame costituirebbe un esempio di entrambe le ipotesi. Si deve ritenere che, in un primo momento, l’Amministrazione non avrebbe compiuto un illecito per difetto dell’elemento soggettivo, pur avendo adottato un atto illegittimo in quanto contrastante con i dettami costituzionali[12]. Successivamente alla pronuncia della Corte Costituzionale, con il mancato reintegro nel posto di lavoro dell’ex dirigente, all’illegittimità dell’atto si sarebbe raccordata l’illiceità del comportamento dell’Amministrazione. Il risarcimento al privato spetterebbe solamente in quest’ultimo momento, e ciò costituisce esattamente la stessa conclusione alla quale si addiviene considerando l’atto di revoca come atto avente natura privatistica.

Da quanto precede discende che, a prescindere dall’opzione per la tesi della natura privatistica o pubblicistica della revoca dell’incarico dirigenziale, le conclusioni in tema di responsabilità della P.A. sono le medesime.

 


Di seguito, il testo dell’ordinanza:
Cass. civ., Sez. VI, ord. 8 ottobre 2019 n. 25189Pres. P. Curzio, Rel. A. Doronzo; Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (Avv. Gen. Stato) c. N.Z. (avv. T. Di Nitto) e nei confronti di S.G.M..
Rilevato che:
N. Z., dirigente di ricerca di primo livello professionale, in organico nei ruoli dell’Istat, aveva ottenuto con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 31/7/2007, ai sensi dell’art. 19, commi 4 e 5 bis, del d.lgs. n. 165/2001, l’incarico dirigenziale della durata di cinque anni per il coordinamento della Direzione generale per il volontariato, l’associazionismo e le formazioni sociali del Ministero per la solidarietà (attualmente Ministero del lavoro e delle politiche sociali);
a seguito dell’insediamento del nuovo governo, con nota del 21/7/2008 il Capo di gabinetto del Ministro in carica pro tempore aveva comunicato che l’incarico al dottor Z. sarebbe venuto a scadenza ope legis il 13/8/2008 ai sensi dell’art. 19, comma 8, d.lgs. cit., e, con successiva nota del 24/7/2008, la revoca era stata comunicata all’Istat e all’interessato;
lo Z. adiva pertanto il Tribunale di Roma per ottenere l’annullamento della revoca, con conseguente reintegrazione nell’incarico o in una funzione equivalente, e la condanna del Ministero alla corresponsione delle differenze retributive tra quanto spettantegli come dirigente e quanto percepito presso la amministrazione di appartenenza fino alla reintegra, oltre al risarcimento del danno professionale subito;
il Tribunale sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 8, del decreto legislativo n. 165/2001;
con sentenza n. 124/2011 la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità della norma; riassunto il giudizio, il Tribunale accoglieva la domanda e condannava il Ministero alla riassegnazione dell’incarico allo Z. fino alla sua naturale scadenza (31/7/2012), nonché al risarcimento del danno, pari al pagamento dell’importo medio mensile della differenza tra il trattamento retributivo percepito a seguito del conferimento dell’incarico poi revocato e quello percepito presso l’amministrazione di appartenenza dal 5/11/2008 al 9/4/2009, mentre rigettava la domanda di risarcimento danni per la lesione della dignità professionale;
la Corte d’appello di Roma, con sentenza pubblicata il 29/4/2016, rigettava l’impugnazione del Ministero e, in accoglimento dell’appello incidentale dello Z., condannava il Ministero alle differenze stipendiali dalla data di messa in mora, contenuta nell’istanza del tentativo di conciliazione del 28/10/2008, fino all’effettiva reintegrazione dell’incarico, o, in mancanza, fino al 31/7/2012;
contro la sentenza ricorre il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e articola un unico motivo, illustrato da memoria, al quale resiste con controricorso lo Z.; è rimasto invece intimato il S.;
la proposta del relatore sensi dell’art. 380 bis cod.proc.civ. è stata notificata, alle parti unitamente al decreto presidenziale di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata alle parti.
Considerato che:
con l’unico motivo di ricorso il Ministero denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1218, 1256 cod.civ., in relazione all’art. 19, comma 8, del d.lgs. n. 165/2001, e censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto illecita la condotta dell’amministrazione, che pure si era conformata al disposto della norma citata, anche per il periodo precedente alla declaratoria della sua illegittimità costituzionale; precisa al riguardo che solo con la sentenza della Corte costituzionale dell’11/4/2011, n. 124, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma, nel testo vigente prima dell’entrata in vigore dell’art. 40 del d.lgs. 27/10/2009, n. 150, la sua condotta poteva ritenersi contra ius e richiama il precedente delle Sezioni Unite del 21/8/1972, n. 2697 (oltre a Cass. Sez.Un. 37 due 1993, n. 8478);
il motivo è fondato alla luce dei principi più volte affermati da questa Corte (Cass. 07/10/2015, n. 20100; Cass. 13/11/2018, n. 29169 e, prima ancora, Cass. 9/1/2013, n. 355) secondo cui la retroattività delle pronunce di illegittimità costituzionale riguarda l’antigiuridicità delle norme investite, non più applicabili neanche ai rapporti pregressi non ancora esauriti, ma non consente di configurare retroattivamente e fittiziamente una colpa del soggetto che, prima della declaratoria di incostituzionalità, abbia conformato il proprio comportamento alle norme solo successivamente invalidate dalla Corte costituzionale;
si tratta di un indirizzo giurisprudenziale che ha origini remote, atteso che già con la sentenza n. 2697/72 le S.U. di questa Corte avevano sostenuto che, se può riconoscersi efficacia retroattiva alla cosiddetta antigiuridicità, non può ammettersi che si configuri retroattivamente la colpa intesa quale atteggiamento psichico del soggetto, che non può ravvisarsi, neppure sotto forma di una sorta di fìctio iuris, riguardo ad un comportamento imposto da una norma cogente, anche se incostituzionale, fino a che essa sia in vigore;
applicando questi principi alle domande aventi ad oggetto pretese risarcitorie in caso di illegittima risoluzione anticipata d’un incarico dirigenziale in base a norma poi dichiarata costituzionalmente illegittima, al dirigente spetta il risarcimento del danno, ma tale danno, considerato che la colpa dell’agente è elemento essenziale dell’illecito, è risarcibile solo dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale – e non dalla data di cessazione del rapporto – ove l’amministrazione non si sia conformata alla sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale e a condizione che a detta data non fosse già decorso anche il termine finale originariamente previsto nel contratto di conferimento dell’incarico (in tal senso, Cass. n. 29169/2018);
a questi principi la corte territoriale non si è attenuta, avendo riconosciuto il risarcimento del danno dal momento della costituzione in mora, ovvero dalla richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione del 28/10/2008, mentre la sentenza della Corte costituzionale risulta pubblicata in data 11/4/2011;
nel controricorso lo Z. assume che la revoca dell’incarico dirigenziale era già di per sé illegittima, e che pertanto sussisteva una colpa dell’amministrazione a prescindere dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 19 cit.;
ciò sul presupposto che vi erano state altre pronunce della Corte costituzionale che avevano dichiarato illegittimo il meccanismo dello spoils system previsto da altre norme, nonché per vizi che inficiavano l’atto di revoca (mancanza di valutazioni negative sul suo operato, mancato rispetto di norme procedimentali);
si tratta di affermazioni che non trovano riscontro nella sentenza impugnata, la quale ha confermato la sentenza del tribunale che – dopo aver ritenuto rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 e sollevato la stessa dinanzi alla Corte costituzionale (ove infatti avesse ritenuto il provvedimento già viziato la questione di legittimità costituzionale non sarebbe stata rilevante) – ha ritenuto illegittima la revoca per l’unica ragione data dalla intervenuta caducazione dell’art. 19, comma 8, d.lgs. cit.;
né il ricorrente specifica quando, in che termini e con quale atto gli altri profili di colpa nell’amministrazione o gli altri vizi di legittimità del provvedimento sarebbero stati dedotti in giudizio, le ragioni del loro eventuale rigetto da parte del tribunale e la riproposizione degli stessi dinanzi al giudice d’appello, e ciò al fine di evitare una statuizione di inammissibilità delle questioni in quanto nuove (Cass. 09/08/2018, n. 20694);
in conclusione il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, che si uniformerà al principio di diritto su indicato e alla quale è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 8 maggio 2019

 

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[1] Si veda anche la corrispondente voce in Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/spoi/ls-system
[2] Sulla ricostruzione dell’evoluzione normativa di tale disposizione, per la verità piuttosto travagliata, si veda la sentenza della Corte Costituzionale n. 124/2011.
[3] Art. 19 comma 3 d.lgs. 165/2001.
[4] C. Cost., sent. n. 161/2008.
[5] È da rilevare che il Giudice delle Leggi sarebbe tornato sul punto pochi mesi dopo (sent. 25 luglio 2011, n. 246), dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 19 comma 8 d.lgs. 165/2001 anche nella parte in cui disponeva l’operatività dello spoils system per i dirigenti provenienti dal settore privato oppure con particolare formazione professionale (art. 19 comma 6 d.lgs. cit.).
[6] In adesione all’orientamento prevalente nella giurisprudenza ordinaria: Cass. civ., SS.UU., n. 21671/2013; Cass. civ., SS.UU., n. 6330/2012.
[7] Che privilegia la distinzione tra atto che conferisce l’incarico (e la speculare revoca) e contratto che regolamenta l’incarico, nonché l’espressa definizione di “provvedimento” usata dal Legislatore per il primo atto nell’art. 19 comma 2 d.lgs. 165/2001.
[8] R. Garofoli (A cura di), Compendio di Diritto Amministrativo. Parte Generale e Speciale, Molfetta 2019, p. 791.
[9] Cass. civ., sez. III, n. 31567/2018; Cass. Civ., sez. I, n. 16196/2018; Cons. St., sez. III, n. 3134/2018.
[10] Di matrice eurounitaria, che ravvisano nell’illegittimità “grave” dell’atto (considerati i vizi dell’atto, il margine di discrezionalità della P.A., i precedenti giurisprudenziali) riprova della colpa della P.A..
[11] In giurisprudenza, sostanzialmente conforme (pur in relazione alla sola culpa in eligendo/in vigilando), Cons. St., sez. IV, n. 1808/2016, che afferma la responsabilità per colpa della P.A. pur in assenza di un atto illegittimo.
[12] In dottrina è concorde Garofoli (op. cit., p. 792) che, relativamente ad atti adottati seguendo disposizioni successivamente dichiarate incostituzionali, ha affermato che si sarebbe di fronte ad un errore scusabile da parte dell’Amministrazione.

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Gabriele Luzi

Praticante avvocato specializzato in difesa del personale militare e delle forze dell'ordine. Già praticante presso l'Avvocatura Generale dello Stato, militare in congedo, cultore di diritto del lavoro e di diritto amministrativo.

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