Nesso di causalità: la responsabilità del datore di lavoro per il danno da esposizione a polveri di amianto

Nesso di causalità: la responsabilità del datore di lavoro per il danno da esposizione a polveri di amianto

Tema caldo e dibattuto ormai da anni e anni nella giurisprudenza è quello riguardante il nesso di causalità, ovvero la correlazione dell’insorgere di patologie polmonari (quale il mesotelioma pleurico) a seguito di esposizione a polveri nocive, come quelle dell’amianto. In particolare, il problema si è posto con riguardo agli ambiti lavorativi, ad esempio le fabbriche, dove questo rischio è più presente, e i lavoratori sono esposti per tempi prolungati a queste polveri nocive.

È un tema molto controverso questo dell’ esposizione all’ Eternit, perché molto spesso viene ritenuto responsabile il datore di lavoro consapevole della presenza delle polveri all’interno della fabbrica, ma manchevole di assicurare le dovute precauzioni ai lavoratori. Per questo motivo è molto facile non capire bene come configurare la responsabilità in capo al datore. E’ opportuno, infatti, tenere ben distinti il nesso di causalità dalla colpa.

Ci si chiede allora, di cosa risponderà un datore di lavoro che non ha attuato le dovute misure generiche di prudenza per la tutela dei lavoratori?

Dunque, prima di addentrarci nel nocciolo di questa spinosa questione partiamo dall’ inizio, esaminando diverse sentenze che si sono succedute nel tempo e che hanno affrontato la questione.

Nel 2002 la sentenza Franzese si espresse in tema del nesso di causalità (Cassazione civile , SS.UU, sentenza 11.09.2002 n° 30328) in materia di responsabilità professionale di un medico chirurgo.

Essa sanciva che: “Il giudice, pur dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette generalizzazioni causali e sulla base dell’intera evidenza probatoria disponibile, che la condotta dell’agente “è” (non “può essere”) condizione necessaria del singolo evento lesivo, è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di “certezza processuale”, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da “alto grado di credibilità razionale” o “conferma” dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di “elevata probabilità logica” o “probabilità prossima alla – confinante con la – certezza”.

Si noti che la novità principale rappresentata dalla sentenza Franzese è quella di avere introdotto l’accertamento causale e contestualmente il concetto di elevata probabilità logica o alto grado di credibilità razionale.

Tuttavia, secondo i critici, le interpretazioni giurisprudenziali derivanti dalla sentenza Franzese si limitano ad indicazioni troppo generiche per quanto riguarda il decorso causale ipotetico e in un processo non ci si può basare sulla genericità o sull’ incertezza probatoria.

Successivamente, è intervenuta la sentenza n. 38991 del 4 novembre 2010, IV sez. pen. della Cassazione, la quale sottolinea che: “sulle dinamiche causali del mesotelioma pleurico si contendono il campo due leggi scientifiche alternative: da un lato quella che considera il mesotelioma come una patologia dose-dipendente, dall’altro quella che lo considera come conseguenza di esposizioni anche bassissime al momento dell’innesco (la dose-killer) e sostanzialmente indifferente alle successive esposizioni”.

Secondo la prima teoria cioè, l’evoluzione della patologia è condizionata dall’ “ingente quantità” e dalla continuativita’ dell’esposizione, cioè esporsi ad una quantità elevata e continuativa alle polveri di Eternit comporta una maggiore probabilità di contrarre la malattia; per la seconda teoria, invece, una volta assunta la dose killer, l’evoluzione della malattia è indifferente alle altre esposizioni alla sostanza nociva, perché ormai è stata contratta a seguito della dose killer.

È chiaro che le due leggi scientifiche appena esaminate, hanno conseguenze molto diverse in tema di nesso causale e delle conseguenti responsabilità.

Se si accetta la tesi della dose killer, per configurare la responsabilità è necessario individuare il soggetto datore di lavoro presente nel periodo dell’esposizione che ha innescato la malattia; se si accetta la tesi della patologia dose-dipendente, saranno chiamati a rispondere tutti i datori di lavoro che hanno provocato l’esposizione del lavoratore all’amianto, anche successivamente all’innesco della patologia.

I giudici finora, sulla scorta di numerose rilevazioni epidemiologiche, hanno concluso che è possibile contrarre la malattia anche in presenza di piccole dosi, (e quindi non necessariamente deve ricorrere la continuatività dell’ esposizione), e in periodi diversi e non necessariamente all’inizio dell’esposizione lavorativa.

Riguardo al tema della colpa, il legislatore dovrà valutare discrezionalmente la prevedibilità dell’evento. Se, cioè, il datore di lavoro era a conoscenza e poteva prevedere quelle conseguenze.

Quali misure dovrà adottare allora il datore di lavoro per prevenire l’esposizione a polveri nocive dei lavoratori? E come potrà dimostrare la sua esenzione da colpa?

Il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell’art. 2087 c.c., a garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili, sicché, con riferimento alle patologie correlate all’amianto, ha l’obbligo, di prevenire le malattie derivabili dall’inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od ultrafini) di cui si deve necessariamente conoscere l’esistenza (artt. 174 e 175 del d.P.R. n. 1124 del 1965 all’art. 21 del d.P.R. n. 303 del 1956).

In conclusione, ai fini dell’onore probatorio del datore di lavoro, non è sufficiente, ai fini dell’esonero da responsabilità, affermare di non conoscere la nocività dell’amianto a basse dosi, ma è necessario dimostrare di aver adottato in positivo tutte le necessarie cautele dovute nei confronti dei lavoratori.


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