L’evoluzione del rapporto alle dipendenze della pubblica amministrazione: linee evolutive

L’evoluzione del rapporto alle dipendenze della pubblica amministrazione: linee evolutive

Sommario: 1. Il rapporto di lavoro pubblico in generale – 2. La “privatizzazione” del settore pubblico – 3. La privatizzazione: i principali interventi legislativi – 4. Il rapporto alle dipendenze della P.A. prima della riforma – 5. Il pubblico impiego prima della privatizzazione: differenze e criticità – 6. Il percorso del legislatore ante riforma organica (legge Brunetta) – 7. Gli interventi del legislatore prima della riforma “Brunetta” – 8. Le sanzioni disciplinari dalla riforma “Brunetta” alla riforma “Madia” – 9. Il principio di strumentalità del potere disciplinare: il codice disciplinare

 

1. Il rapporto di lavoro pubblico in generale

Il lavoro è divenuto nelle sue multi forme, elemento prezioso e importante della nostra società. Nel mondo giuridico attuale la maggior parte della società, ritiene che il mondo del lavoro sia destinato ad evolversi nel continuo cambio generazionale che ci interessa. Come insegnato nelle Università da Secoli, la posizione dei dipendenti pubblici è caratterizzata due profili, uno a carattere organico o di ufficio e uno a carattere di servizio. Sotto il primo profilo, i dipendenti si presentano come l’alter ego dell’ente per cui lavorano. Il rapporto di lavoro organico o di ufficio, è strettamente correlato alla nostra carta costituzionale in particolare  agli articoli 28, 54, 97 e 98 della Costituzione[1]. L’art. 28 della Costituzione afferma che i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge[2]. La sacramentalità del loro ruolo ha portato da tempo il legislatore a configurare tale ruolo come quello di un soggetto istituzionale.

In quest’ottima il D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 “Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello stato” ha dato fatto si che il dipendente pubblico venisse automaticamente configurato come soggetto speciale rispetto a quello del settore privato. Cambiando la  società, il legislatore ha incominciato a meditare la sua riforma, a piccoli passi, cercando di riequilibrare gli assetti.

2. La “privatizzazione” del settore pubblico

Il settore pubblico è stato sempre visto come un livello autonomo ed indipendente, dal lavoro privato, di lavoro, di trattamento, di visione del suo ruolo. Da qui, anche dietro uno stimolo dell’UE il legislatore ha iniziato un’opera di “privatizzazione”, operando così il superamento della separazione del rapporto di impiego pubblico dal diritto civile[3].

Il nostro ordinamento ha però conosciuto delle fasi alterne dove il legislatore, da un lato voleva variare la sua rotta, dall’altro voleva trattenere una disciplina che aveva un sapore antico. Sin dal codice Pisanelli ai giorni nostri il rapporto di lavoro è sempre stato visto come una locatio operarum. Intendendo con tale temine, quella cessione a titolo di detenzione della propria opera che in senso ampio comprendeva la locatio operis, considerata una sorta di sottotipo della prima, vale a dire una locazione pur sempre di operae (TESCARO, op. cit., p. 12 ss).

Secondo la Suprema Corte di Cassazione il rapporto di lavoro provato va inteso quale contratto oneroso a prestazioni corrispettive un tipo di “contratto di scambio”( Cass. Sent. 5 settembre 2012, n. 14905 – Cass., sent.  25 gennaio 1992, n. 824). Tale concetto però non ha mai valicato i confini del diritto civile, lasciando fuori da ogni sforzo ermeneutico il rapporto di lavoro con la P.A.. Questo forzato esilio del rapporto di lavoro pubblico è dovuto a motivi di tipo storico-culturale, dove ed in virtù degli artt. 28 – 97 della Costituzione, il dipendente pubblico rientrando quale servitore dello stato, occupa un ruolo di maggiore preminenza rispetto al privato, avendo lo stesso una maggiore responsabilità nell’esercizio delle proprie funzioni.

Tale concetto ha lasciato spazio ad una forma primordiale ed ibrida di rivoluzione sociale, dove il primo passo è da contare ed individuare nell’attribuzione al Consiglio di Stato del potere di decidere in materia lavorativa nella P.A., ricamando una competenza ad hoc per quest’ultimo. La pubblica potestà, quale esercizio del potere da parte dello stato si evidenzia anche nelle scelte normative optate dal legislatore. Nonostante un sistema democratico che delinea una compartecipazione dei diversi interessi in gioco, cercando ove possibile un equilibrio, la vera e propria rivoluzione si è avuta grazie all’intervento dell’Unione Europea che ha ben scalfito la corazza del nostro ordinamento dando il la alle successive riforme.

L’idea della prima Comunità poi Unione Europea, di un mercato libero da vincoli, dove lo stato funge da vigilante e garante si è concretizzato nella privatizzazione graduale di tutti i settori, compreso quello del lavoro nel pieno rispetto dell’art. 45 TFUE.

Il nuovo rapporto con la P.A, si presenta, quindi, rimodulato dal D.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (definito testo unico sul pubblico impiego) che dando una maggiore spinta e incisività ai CCNL ha voluto riequilibrare gli assetti. La trasformazione è iniziata ritenendo applicabili le norme di diritto civile ai rapporti di lavoro alle dipendente della P.A., giustamente con qualche adeguamento tenuto conto del ruolo ricoperto.

3. La privatizzazione: i principali interventi legislativi

Gli interventi normativi posti dal legislatore hanno la conseguenza di modificare non solo la natura del rapporto di lavoro ma anche il rapporto che pone in relazione il datore/dirigente e il lavoratore/dipendente.  Uno dei primi interventi in tal senso è rinvenibile nella Legge-quadro 93/1983.

Un primo tentativo timido di riforma fu fatto dalla Legge Delega n. 421 del 1992 [8], la Legge delega n. 59 del 1997[9] e i decreti attuativi. Questi interventi avevano il compito di avvicinare i due settori, quello pubblico e privato, senza però stravolgerne gli assetti. Questa timida riforma è stata oggetto di innumerevoli critiche, ivi compreso l’intervento della Consulta.

La Corte Costituzionale intervenne con le sentenze n° 313 del 1996 e n° 309 del 1997. In merito, è giusto dare risonanza a quanto affermato ed in particolare, la Consulta affermò che “La violazione si concreterebbe, in particolare, nella previsione d’un “regime di recesso dal rapporto di lavoro, incentrato nell’area contrattualistica privata sul venir meno del rapporto di fiducia nei confronti del dirigente, e nell’affidamento a nuclei di valutazione, anche esterni all’amministrazione, della verifica dei risultati raggiunti. In proposito il rimettente esprime il dubbio che “il novero di attribuzioni, ampie e significative, assegnate ai dirigenti dall’art. 17 …, possa essere condizionato” da una tale scelta legislativa, non correlata esclusivamente all’imparziale ed efficiente svolgimento delle attribuzioni stesse e non limitata da una forte stabilità del rapporto d’impiego pubblico.  Per quanto concerne la lesione dell’art. 3 Cost., essa viene prospettata sotto il profilo dell’irragionevolezza della differenziazione del regime giuridico afferente al rapporto di lavoro relativo a due categorie – quella dei dirigenti e quella dei dirigenti generali – da considerare quali mere articolazioni interne di una figura concepita come sostanzialmente unitaria. Tanto più irragionevole apparirebbe tale differenziazione considerando che – a seguito di essa – delle garanzie proprie del rapporto di impiego pubblico, assicurate ai dirigenti generali, sarebbero privati gli altri dirigenti, maggiormente esposti al condizionamento del potere politico. In definitiva, secondo il giudice a quo, il nuovo assetto colliderebbe con il principio della separazione tra amministrazione e politica, ribadito anche dalla sentenza n. 68 del 1980 di questa Corte. Ulteriore profilo di contrasto con l’art. 3 Cost. starebbe nella esclusione dalla privatizzazione imposta ai dirigenti, di altre categorie di dipendenti pubblici (peraltro non indicate nella legge di delega): esclusione non giustificabile, trattandosi di soggetti pure esercenti funzioni riconducibili allo Stato e connotate da un alto grado di imparzialità, senza peraltro essere dotate di alcuna “copertura costituzionale” (C. Cost. 313 del 25 luglio 1996), confermando e dichiarando l’incompatibilità di tale asset. A seguito delle pronunce, il legislatore dovette intervenire con le Leggi Delega n° 59 del 1997 e il conseguente D.lgs. 31 marzo 1998 n°80.

4. Il rapporto alle dipendenze della P.A. prima della riforma

Il rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione si caratterizzava dall’assunzione tramite un provvedimento amministrativo unilaterale che non consentiva assolutamente l’intervento della lavoratore del processo di creazione ed elaborazione delle clausole al suo interno.

Proprio per la natura dell’atto fonte alla base del rapporto di lavoro la giurisdizione apparteneva esclusivamente al giudice amministrativo salvo per i casi di risarcimento danni. Tutto questo ha avuto una sua trasmutazione a seguito del testo unico dei pubblici dipendenti  d.lgs 165/2001 che in particolare all’art. 5, co. 2, dispone che «le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte […] con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro».

Secondo alcuni studiosi la riforma vera e propria si è avuta in merito al rapporto che lega il datore di lavoro al dipendente in quanto tenuto conto lo stesso datore di lavoro è anche sul dipendente in un ruolo dirigenziale, a seguito delle riforme, rapporto si è quasi parificato in quanto allo stesso vengono conferiti più poteri di organizzazione amministrativa anziché veri e propri poteri che lo statuto dei lavoratori riconosce ad ogni datore di lavoro  come lo è stato l’art 55 [10]. 

Dopo il testo unico quindi il rapporto di lavoro diviene di diritto privato con applicazione delle norme del caso con configurazione contrattuale dell’atto-fonte del rapporto[11].

5. Il pubblico impiego prima della privatizzazione: differenze e criticità

Il mondo del lavoro pubblico come lo conosciamo oggi non era quello ante riforma. In una fase iniziale il rapporto di lavoro si instaurava solo ed unicamente attraverso atti amministrativi di tipo unilaterale. La pubblica amministrazione, quale detentrice della potestà d’imperio esercitava un influenza particolarmente lesiva della posizione del lavoratore, elevandosi al dì sopra dello stesso in forma del tipo di atto/fonte.

Questo particolare rapporto si riverberava anche sul piano disciplinare, creando una continua forma di squilibrio all’atmosfera lavorativa. Secondo un orientamento generale, il potere disciplinare diverso dagli altri poteri, è strumentale agli stessi e al ruolo ricoperto dal datore di lavoro. In tale ottica la privatizzazione non ha fatto altro che uniformare la normativa con quella privata, sia in modalità che in tempi.

Dopo la riforma del 2001, il rapporto si instaurava con un contratto e non più con atto unilaterale, comunque lasciando inalterato il vincolo dell’accesso tramite concorso. Il rapporto, governato dalle norme del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato, come disposto dall’art. 2, co. 2, d.lgs. n. 165 del 2001, si affianca alla contrattazione, individuale e collettiva (ex art. 2, co. 3, d.lgs. n. 165 del 2001). Tale mutamento ha trasfigurato la natura giuridica dell’intero rapporto, da amministrativo a privatistico.

Nel contesto in cui ci troviamo va dato risalto all’art. 5, co. 2, d.lgs. n. 165 del 2001, secondo il quale “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte […] con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”. Tale norma va posta, in merito al potere disciplinare, all’art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001[10] secondo comma che prevede espressamente l’applicabilità a tali rapporti degli artt. 2106 cod. civ. e 7, commi 1, 5 e 8 dello Statuto dei Lavoratori, demandando, la gestione di determinati aspetti contrattuali alla contrattazione collettiva.

Questo rinvio non è una novità in quanto già l’articolo 59 del d.lgs. n. 29 del 1993 (ora confluito nel citato art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001) con il d.lgs. n. 546 del 1993, contenevano una siffatta configurazione. Queste norme però avevano il difetto di non essere state coordinate a dovere con l’intero sistema, sicché l’art. 59 del d.lgs. n. 29 del 1993 sulla falsa riga dell’art. 28 Cost. disciplinava il rapporto sotto una veste pubblicistica in tema di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile, tralasciando la responsabilità disciplinare.  Il rapporto di lavoro da pubblico a privato, quindi, ha ottenuto una configurazione giuridica di tipo contrattuale ex art 2094 c.c..

Tornando al TU l’art. 5, D.lgs. n. 165 del 2001[11],  dispone che i poteri datoriali devono soggiacere alle norme di diritto civile e alle clausole contrattuali, dando allo stesso il compito di erigersi ad atto/fonte del potere disciplinare[12].

6. Il percorso del legislatore ante riforma organica (legge Brunetta)

Nelle idee del legislatore, vi era una riforma di settore graduale e sedimentata che si sarebbe messa in moto dal “Testo Unico sul pubblico impiego” emanato con la legge 15 luglio 2002 n° 165 e i successivi interventi [13]. Di seguito intervenne quella sarebbe stata denominata “riforma Brunetta” con D.L 115 del 2005 convertito con la legge 168 del 2005. Questa normativa, per alcuni molto labile nel suo intervento, a differenza del testo unico, rimodulò il ruolo del dirigente, scindendo il suo ruolo in dirigente di 1° livello e di 2° livello, adattando i poteri al livello assegnato.

7. Gli interventi del legislatore prima della riforma “Brunetta”

Dopo il “Testo Unico sul pubblico impiego” viene emanata la legge 15 luglio 2002 n° 145. Quest’ultima ha apportato significative modifiche alle norme in materia di dirigenza pubblica in controtendenza al progetto iniziale, tanto da essere qualificata, da una parte della dottrina[13], come una vera “contro-riforma”. In particolare, la riforma incide sul delicato rapporto tra politica e amministrazione, prevedendo il conferimento degli incarichi dirigenziali mediante provvedimento unilaterale dell’amministrazione. Ancor più incisivo risulta l’intervento in merito alla durata degli incarichi mediante atto unilaterale della P.A. con abolizione del ruolo unico. Quest’ultimo intervento abroga direttamente il “principio di rotazione degli incarichi” con la ridefinizione della fattispecie di responsabilità dirigenziale. Successivamente il legislatore è intervenuto con D.L 115 del 2005 convertito con la legge 168 del 2005. Questo intervento mira nelle sue pieghe normative a contenere la spesa pubblica attraverso una serie di limiti alla contrattazione integrativa per garantire il rispetto dei vincoli di bilancio delle singole amministrazione con il conseguente blocco delle assunzioni in “turn-over”. In particolare, riducendo l’utilizzo dei contratti di collaborazione con stabilizzazione dei lavoratori che si avrà successivamente con la riforma “Brunetta”.

8. Le sanzioni disciplinari dalla riforma “Brunetta” alla riforma “Madia”

Il sistema disciplinare nella pubblica amministrazione è stato sempre caratterizzato da una forma di impunità celata dietro la funzione svolta dagli stessi dipendenti. Un primo iniziale tentativo lo si è ottenuto con l’art. 55 novies del d.lgs. n.165 del 2001 ai quali sono stati aggiunti 8 articoli dal 55-bis al 55 novies che ne rafforzano l’incisività, cristallizzate dalla inderogabile da parte dei contratti collettivi.in una prima configurazione della normativa la legge Brunetta conferiva nelle mani del dirigente, quale alter ego della pubblica amministrazione, il compito di erogare le sanzioni disciplinari nei confronti dei dipendenti lasciati sotto la sua supervisione. Successivamente a tale riforma, incominciarono ad intravedersi una serie di comportamenti che sfuggivano dalle competenze del dirigente, cioè l’assenteismo il quale diverrà, a vista del governo, la causa della cattiva gestione della cosa pubblica riconoscendo alle stesse una valenza penale. Nella generalità dei casi, dalla lettura delle norme e dei contratti collettivi si possono elencare le seguenti sanzioni disciplinari:  il rimprovero verbale o scritto; la multa fino a un massimo di quattro ore di retribuzione; la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di dieci giorni; la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da undici giorni fino ad un massimo di sei mesi; il licenziamento, con o senza preavviso;

Secondo l’art.55 comma 2° del D.LGS, N. 165 del 2001[14] è applicabile, al pari del settore privato, l’art 2106 c.c., il quale concentra l’intera azione disciplinare sul principio di proporzionalità fra sanzione ed infrazione, lasciando in sede giudiziale l’analisi, l’accertamento e la condanna in caso di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile. Il richiamo all’art 2016 c.c. comporta il richiamo automatico dell’art. 7 della L. 300/1970 ove tutte le sanzioni, escluso il rimprovero verbale, possono essere emesse e applicate solo attraverso il procedimento disciplinare disposto dalla legge. La stessa norma dispone l’obbligo di garantire una forma di pubblicità idonea al codice disciplinare, attraverso l’affissione nei luoghi accessibili a tutti i lavoratori. In tale ottica, nel settore pubblico è prevista l’affissione o la pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione secondo quanto disposto dall’art., 55, comma 2° del D.LGS. 30 marzo 2001, n.165. La vera e propria innovazione in materia, rispetto al sistema congeniato nel settore privato è la scissione della posizione del titolare del potere disciplinare, che nel privato è individuato nell’imprenditore  e nel settore pubblico, con la riforma Brunetta, era il dirigente, e con la riforma Madia è ripartita fra dirigente e l’Ufficio per il procedimento disciplinare. A questo pro, salvo il rimprovero verbale, di competenza del dirigente di struttura, secondo l’art. 55., bis del D.LGS. N. 165 del 2001: “Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento e nell’ambito della propria organizzazione, individua l’ufficio per i procedimenti disciplinari competente per le infrazioni punibili con sanzione superiore al rimprovero verbale e ne attribuisce la titolarità e responsabilità. 3. Le amministrazioni, previa convenzione, possono prevedere la gestione unificata delle funzioni dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, senza maggiori oneri per la finanza pubblica”. L’UPD tra le sue competenze ha quella di dare impulso alla procedura con la contestazione scritta dell’addebito immediata, entro e non oltre i trenta giorni dalla segnalazione. La lettera di contestazione dell’addebito, contiene la convocazione del lavoratore, con un preavviso di almeno venti giorni, per essere ascoltato nel pieno rispetto del contraddittorio (memorie scritte) con facoltà di farsi assistere da un procuratore o da un rappresentante sindacale. Secondo l’art. 55 bis, comma 6 e 7, l’UPD può chiedere informazione, alle amministrazioni coinvolte, nel corso dell’istruttoria purché tale attività non influenzi i termini stabiliti dalla legge, dall’altro, nel corso dell’istruttoria il dipendente coinvolto ha l’obbligo di riferire qualsiasi informazione richiesta pena la sospensione della retribuzione fino a 15 gg. Conclusa la fase istruttoria il procedimento si conclude con provvedimento di irrogazione o di archiviazione da parte dell’UPD, con comunicazione a mezzo pec o raccomandata A/R. Va precisato infine che il procedimento è posto in pregiudizialità dipendenza con il rapporto di lavoro, cioè, la cessazione del rapporto di lavoro comporta l’estinzione del procedimento disciplinare per cessata materia.

Secondo l’intervento successivo della riforma Madia, invece, è stato disposto un dispositivo di conservazione del procedimento disciplinare. Secondo quest’ultimo, la violazione dei termini, ad esclusione di quelli per la contestazione dell’addebito e di conclusione del procedimento) non determinano più la decadenza dell’azione disciplinare escludendo l’invalidità degli atti e della sanzioni disciplinari irrogate[15]. In tale ottica, il lavoratore non è lasciato senza tutele, in particolare l’art 55, comma 3° prevede l’opportunità di ricorrere contro la sanzione con ricorso giudiziario oppure attingere ad una modalità di “patteggiamento” attraverso una procedura conciliativa. Quest’ultimo comporta che la sanzione concordata non possa essere superiore a quella statuita per quell’infrazione dalla legge e CCNL. La procedura conciliativa comporta la sospensione dei termini fino al suo esito conclusivo, i quali verranno di nuovo riazionati con il suo esito negativo.

9. Il principio di strumentalità del potere disciplinare: il codice disciplinare

Il codice disciplinare è quell’insieme di linee guida che regolano il comportamento del lavoratore, predisposto dal datore di lavoro quale regolamento interno ai luoghi di lavoro. Nel mondo del lavoro, in generale, il codice disciplinare rappresenta una conquista dello statuto dell’lavoratori che in particolare prevede esso debba contenere «quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano», ex art. 7, co. 1, L. n. 300 del 1970.  Questa disposizione normativa trova la sua efficacia sulla base del principio di necessaria pubblicità del codice. Secondo la Suprema Corte di Cassazione “ l’affissione del codice disciplinare costituisce requisito essenziale per la validità delle sanzioni o del licenziamento solo quando l’infrazione non riguardi doveri previsti dalla legge o comunque appartenenti al patrimonio deontologico di qualsiasi persona onesta” (Cass, sez. lav., 10 maggio 2010, n. 11250). Secondo questo orientamento quindi, il codice disciplinare rappresenta, non un regolamento di comportamento, bensì, un’esplicazione, in termini comportamentali, dei diversi doveri del lavoratore così come disposti dalla legge.

Secondo la vecchia formulazione dell’art. 55, d.lgs. n. 165 del 2001, l’articolo 7 dello statuto dei lavoratori è applicabile anche al settore pubblico, con i suoi doveri e modalità. Per molto tempo si è ritenuto che il tenore letterale di tale norma richiedesse la presenza di accordi di natura sindacale o contratti collettivi che regalassero le tipologie e le cornici edittali. In particolare, secondo l’art. 55 comma 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 “la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”.  Dal contenuto della norma non viene menzionato in alcun comma il termine “codice disciplinare”, cosa peraltro non atipica in quanto neanche lo statuto dei lavoratori né il codice civile ne hanno mai menzionato il termine, cosa che è comparsa per la prima volta con la riforma apportata dal d.lgs. n. 150 del 2009. Tale riforma ha sostituito alcuni commi dell’art. 55, co. 2, d.lgs. n. 165 del 2001, lasciando il richiamo all’art. 2016 c.c. ma aggiungendo il termine “codice disciplinare” per la prima volta. La riforma che prenderà il nome dal ministro che l’ha prodotta “Brunetta”, modifica forme e termini del procedimento, nell’intento di semplificarne l’iter, modificando le competenze, aggiungendo nuove causali alla base del licenziamento per giusta causa. Con la riforma viene resa equivalente la pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione del codice a quella dell’affissione nella sede di lavoro. Grazie a questa modifica, si può ritenere che la contrattazione collettiva assuma una rilevanza particolare tenuto conto della procedura di formazione, dell’intervento dell’ ARAN e della sua validità attribuitagli.

La pubblica amministrazione, nonostante le continue riforme, mantiene comunque i poteri di organizzazione degli uffici e di gestione dei rapporti di lavoro così come disposto dall’art. 5, co. 2, d.lgs. n. 165 del 2001. In quest’ottica il richiamo all’art. 7 da parte dell’art. 55 TUPD comporta la sua applicabilità integrale, tale che, va precisato che il comma 1 disciplina non solo la forma di pubblicità del codice, ma anche un rinvio espresso alla regolamentazione differita alla CCNL così come da lettura “devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano” e quindi si può ritenere tale norma applicabile allo stato attuale ancora al settore pubblico nonostante le modifiche poste dalla riforma Brunetta e Madia[16]. In ultimo, a tema, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che “ in tema di licenziamento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, le fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, introdotte dall’art. 55 quater del d.lgs 164/2001, costituiscono ipotesi aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva – le cui clausole, ove difformi, vanno sostituite di diritto ai sensi della’rt. 1339 e 1419, comma 2, c.c. – per le quali compete soltanto al giudice, ex art. 2106 c.c., il giudizio di adeguatezza delle sanzioni” (Cass., sez. lav., 1° dicembre 2016, n. 24574).

 

 

 

 


[1] Così l’art. 28 Cost., i funzionari e i dipendenti dello stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità si estende allo Stato e agli enti pubblici; e l’art 54 Cost., comma 1°, Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la costituzione e le leggi;
[2] Art. 97 della Cost. comma 1°, le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea, assicurano l’equilibro dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. Al secondo comma invece, si sostiene che i pubblici uffici sono organizzati secondo le disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Comma 4°, agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge; nonché l’’art 98 Cost., i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione.  “i cittadini cui sono affidate le funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento ne casi stabiliti dalla legge”.
[3] Cioè quella che da sempre regola il lavoro alle dipendenze delle imprese private
[4] Del resto, come acutamente evidenziato da Mario Nigro ben 40 anni fa, la scelta di regime giuridico – pubblico o privato – dell’attività della p.a. è un dato essenzialmente storico, non potendosi accettare una visione “ontologica” del necessitato regime pubblicistico del pubblico impiego – Mario Nigro, “Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione”, Giuffrè Editore, 1966;
[5] Luisa Galantino, Massimo Lanotte, Diritto del Lavoro pubblico, G. Giappichelli editore,2017;
[6] Nel diritto romano, la locatio operarum indicava un particolare tipo di concessione in godimento (locazione) in cui un soggetto (locatore) metteva a disposizione di un’altra persona (conduttore) i propri servizi contro pagamento di un corrispettivo. Caratteristica della  Locatio operàrum e locatio operis  era la subordinazione del locatore alle direttive del datore di lavoro. Alla contrapposizione tra Locatio operàrum e locatio operis  e locatio òperis [vedi] si riconduce ancor oggi, la distinzione, nell’ambito dei rapporti di lavoro, tra lavoro subordinato [vedi] e lavoro autonomo.La locatio operis è un istituto del diritto romano caratterizzato dal lavoro, da parte di un soggetto (cd. artifex), di trasformazione su materie prime in beni di utilità per il locatore, contro pagamento di un corrispettivo. Alla Locatio operàrum e locatio operis  è ricondotta la nozione di lavoro autonomo.
[7] In particolare: R.D. 11 novembre 1923, n. 2395 sull’ordinamento gerarchico del personale civile dello Stato, R.D. 30 dicembre 1923, n. 2960, riguardante lo stato giuridico dello stesso personale, t.u. 26 giugno 1924, n. 1054 sul Consiglio di Stato e T.U. 26 giugno 1924, n. 1058 sulla Giunta provinciale amministrativa;
[8] D.Lgs 3 febbraio 1993 n°29 che stabilisce “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I titolo II del libro IV del codice civile e dalle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa”;
[9] Cosiddetta “Legge Bassanini”;
[10] Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all’articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all’articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2. Ferma la disciplina in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile, ai rapporti di lavoro di cui al comma 1 si applica l’articolo 2106 del codice civile. Salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi. La pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione del codice disciplinare, recante l’indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all’ingresso della sede di lavoro. 3. La contrattazione collettiva non può istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari. Resta salva la facoltà di disciplinare mediante i contratti collettivi procedure di conciliazione non obbligatoria, fuori dei casi per i quali e’ prevista la sanzione disciplinare del licenziamento, da instaurarsi e concludersi entro un termine non superiore a trenta giorni dalla contestazione dell’addebito e comunque prima dell’irrogazione della sanzione. La sanzione concordemente determinata all’esito di tali procedure non può essere di specie diversa da quella prevista, dalla legge o dal contratto collettivo, per l’infrazione per la quale si procede e non e’ oggetta ad impugnazione. I termini del procedimento disciplinare restano sospesi dalla data di apertura della procedura conciliativa e riprendono a decorrere nel caso di conclusione con esito negativo. Il contratto collettivo definisce gli atti della procedura conciliativa che ne determinano l’inizio e la conclusione. Fermo quanto previsto nell’articolo 21, per le infrazioni disciplinari ascrivibili al dirigente ai sensi degli articoli 55-bis, comma 7, e 55-sexies, comma 3, si applicano, ove non diversamente stabilito dal contratto collettivo, le disposizioni di cui al comma 4 del predetto articolo 55-bis, ma le determinazioni conclusive del procedimento sono adottate dal dirigente generale o titolare di incarico conferito ai sensi dell’articolo 19, comma 3; [10] ora confluito nel citato art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001 – Art. 5. Potere di Organizzazione. Le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare l’attuazione dei princìpi di cui all’articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. ([6]) Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’articolo 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatta salva la sola informazione ai sindacati, ove prevista nei contratti di cui all’articolo 9. Rientrano, in particolare, nell’esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la direzione, l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici. Gli organismi di controllo interno verificano periodicamente la rispondenza delle determinazioni organizzative ai princìpi indicati all’articolo 2, comma 1, anche al fine di proporre l’adozione di eventuali interventi correttivi e di fornire elementi per l’adozione delle misure previste nei confronti dei responsabili della gestione.  3-bis. ([7])Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle Autorità amministrative indipendenti.
[11] Art. 5. Potere di Organizzazione. Le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare l’attuazione dei princìpi di cui all’articolo 2, comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’articolo 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatta salva la sola informazione ai sindacati, ove prevista nei contratti di cui all’articolo 9. Rientrano, in particolare, nell’esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la direzione, l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici. Gli organismi di controllo interno verificano periodicamente la rispondenza delle determinazioni
organizzative ai princìpi indicati all’articolo 2, comma 1, anche al fine di proporre l’adozione di eventuali interventi correttivi e di fornire elementi per l’adozione delle misure previste nei confronti dei responsabili della gestione. 3-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle Autorità amministrative indipendenti.
[12] Luisa Galantino, Massimo Lanotte, Diritto del Lavoro pubblico, G. Giappichelli editore,2017
[13] Luisa Galantino, Massimo Lanotte, Diritto del Lavoro pubblico, G. Giappichelli editore,2017;
[14] Così dispone: Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all’articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all’articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2. Ferma la disciplina in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile, ai rapporti di lavoro di cui al comma 1 si applica l’articolo 2106 del codice civile. Salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi. La pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione del codice disciplinare, recante l’indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all’ingresso della sede di lavoro. La contrattazione collettiva non può istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari. Resta salva la facoltà di disciplinare mediante i contratti collettivi procedure di conciliazione non obbligatoria, fuori dei casi per i quali e’ prevista la sanzione disciplinare del licenziamento, da instaurarsi e concludersi entro un termine non superiore a trenta giorni dalla contestazione dell’addebito e comunque prima dell’irrogazione della sanzione. La sanzione concordemente determinata all’esito di tali procedure non può essere di specie diversa da quella prevista, dalla legge o dal contratto collettivo, per l’infrazione per la quale si procede e non e’ oggetta ad impugnazione. I termini del procedimento disciplinare restano sospesi dalla data di apertura della procedura conciliativa e riprendono a decorrere nel caso di conclusione con esito negativo. Il contratto collettivo definisce gli atti della procedura conciliativa che ne determinano l’inizio e la conclusione. Fermo quanto previsto nell’articolo 21, per le infrazioni disciplinari ascrivibili al dirigente ai sensi degli articoli 55-bis, comma 7, e 55-sexies, comma 3, si applicano, ove non diversamente stabilito dal contratto collettivo, le disposizioni di cui al comma 4 del predetto articolo 55-bis, ma le determinazioni conclusive del procedimento sono adottate dal dirigente generale o titolare di incarico conferito ai sensi dell’articolo 19, comma 3;
[15] Francesco Buffa, Cinzia de Giorgi, “Il potere disciplinare” , Halley Editrice, 2007; Serena Stacca, “Il potere disciplinare: Dalla protezione della comunità alla protezione dell’individuo”, Franco Angeli Editore, 2018;
[16] Serena Stacca, “Il potere disciplinare: Dalla protezione della comunità alla protezione dell’individuo”, Franco Angeli Editore, 2018;

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