Profili sostanziali e processuali del risarcimento del danno da provvedimenti inoppugnati

Profili sostanziali e processuali del risarcimento del danno da provvedimenti inoppugnati

Sommario: 1. La risarcibilità degli interessi legittimi – 1.1. Origini della risarcibilità degli interessi legittimi – 1.2. La tesi pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all’azione del danno – 1.3. La tesi dell’autonomia della domanda di annullamento rispetto all’azione risarcitoria – 1.4. La tesi della rilevanza sostanziale alla pregiudizialità – 2. Risarcibilità e risvolti processuali – 2.1. L’art. 30 c.p.a  – 2.2. Sul termine decadenziale – 2.3. La “dilatazione” delle tecniche di protezione – 2.4. Risarcibilità e condotte processuali negligenti

 

 

1. La risarcibilità degli interessi legittimi

1.1. Origini della risarcibilità degli interessi legittimi

La storica sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 22 luglio del 1999 n. 500 ha riconosciuto l’ammissibilità della tutela risarcitoria degli interessi legittimi.

L’art. 7 della legge del 21 luglio del 2000 n. 205 ha inoltre stabilito che in tali casi, la tutela degli interessi legittimi va richiesta al giudice amministrativo, aggiungendosi così allo strumento di tutela classica di natura demolitoria.

Prima della suesposta pronuncia, veniva negato riconoscimento della responsabilità in capo alla p.a. sia per motivi di natura sostanziale: il danno ingiusto veniva a coincidere in virtù di una “concezione soggettiva” dell’illecito aquiliano con la lesione del diritto soggettivo; sia di natura processuale: solo il giudice ordinario poteva condannare al risarcimento del danno ma per i soli diritti soggettivi  per contro, il giudice amministrativo poteva conoscere dell’interesse legittimo, ma non poteva condannare al risarcimento del danno, in virtù della struttura bifasica del sistema di giustizia amministrativa allora vigente.

A seguito della sentenza n. 500/1999 dunque, la Cassazione ha aperto la strada alla risarcibilità degli interessi legittimi, affermando che l’art. 2043 c.c. , racchiude una clausola generale primaria, che attribuisce il diritto al risarcimento del danno ogni qual volta sia cagionato un danno ingiusto, riconoscendo la risarcibilità del danno ingiustamente lesivo di qualsiasi interesse considerato meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico. La stessa Cassazione ha inoltre precisato che la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ma, è necessario che risultino integrati tutti i requisiti oggettivi e soggettivi dell’illecito.

In questo quadro, l’elaborazione delle condizioni processuali e sostanziali, che governano la tutela risarcitoria degli interessi legittimi, è stata al centro di un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

1.2. La tesi pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all’azione del danno.

E’ stato in particolare oggetto di approfondita analisi  il tema della pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all’azione del danno.

E’ adesso  agevole comprendere le implicazioni derivanti dall’adesione alla tesi dell’autonomia delle due azioni, prima fra tutte l’esposizione dell’amministrazione per il lungo periodo prescrizionale al possibile esercizio della pretesa risarcitoria da parte di non abbia proposto domanda di annullamento, non meno rilevanti sono le conseguenze derivanti dalla condivisione della diversa tesi della pregiudizialità, comportante per i privati la necessità di impugnare nel termine di decadenza l’atto pur non avendo un reale interesse alla sua demolizione , essendo dunque solo finalizzata ad assolvere ad una condizione meramente processuale richiesta per l’ammissibilità della successiva o anche contestuale azione risarcitoria.

La tesi della pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto alla tutela risarcitoria è stata confermata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel 2011, in virtù di diverse argomentazioni: l’esigenza di certezza e di stabilità dell’atto e il rischio di elusione del termine decadenziale previsto per l’impugnazione degli atti amministrativi, per l’assenza di un potere di disapplicazione in capo al giudice amministrativo abilitato a conoscere il provvedimento amministrativo solo in via principale. A sostegno della tesi della pregiudizialità si è spesso addotto un ulteriore argomento, volto a valorizzare la funzione necessariamente sussidiaria del rimedio risarcitorio rispetto a quello demolitorio, non vi sarebbe infatti ragione per cui il breve termine decadenziale per l’impugnazione degli atti amministrativi dovrebbe solo quando si chiede l’annullamento dell’atto, mentre non sarebbe applicabile quando la stessa posizione di interesse legittimo viene tutelato in via risarcitoria in un giudizio in cui la legittimità del provvedimento fonte di danno, costituisce sempre oggetto di cognizione da parte del giudice amministrativo. Inoltre la inopportuna scelta lasciata all’interessato, dettata da esigenze di convenienza fra le due forme di tutela, ripristinatoria e risarcitoria finirebbe per esporre l’amministrazione al rischio di dover sostenere i costi dei danni evitabili attraverso il tempestivo esercizio del rimedio pubblicistico. Infine tale facoltà di scelta del privato contrasterebbe con il principio di legalità espresso dall’art. 97 Cost. e della ragione stessa dell’interesse legittimo, che è finalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico mediante l’eliminazione di singole patologie nei singoli casi concreti.

1.3. La tesi dell’autonomia della domanda di annullamento rispetto all’azione risarcitoria

A contrario, la tesi dell’autonomia delle due domande, è stata sostenuta dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione.  Si è osservato che il termine in questione è previsto per garantire in tempi rapidi la certezza dell’intangibilità alla fattispecie provvedimentale, mentre la regolazione degli interessi in gioco non è messa in discussione da un’azione solo risarcitoria, nella quale la verifica di legittimità dell’atto è operata solo incidentalmente. Quanto all’argomento riguardante l’assenza di un  espresso potere di disapplicazione in capo al giudice amministrativo, si è osservato che tale assenza è giustificata in considerazione della sussistenza del più penetrante potere di annullamento. A sostegno dell’assunto, le Sezioni Unite hanno addotto l’equiparazione sul piano sostanziale delle posizioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo e la necessità quindi di assicurare la stessa pienezza di tutela risarcitoria approntata in favore della prima senza che l’accesso alle stesse sia quindi subordinata al termine decadenziale.

Si è dunque fatto notare che in rapporto alla tutela risarcitoria è venuta meno sul piano del diritto sostanziale la differenza tra le situazioni che nell’ordinamento trovano protezione.

1.4. La tesi del rilievo sostanziale alla pregiudizialità

La tesi del rilievo sostanziale( e non processuale) della mancata impugnazione è stata infine seguita dal Consiglio di Stato nel 2009 e nel 2011 sostenendo che la domanda del risarcimento del danno derivante da provvedimento non impugnato(o impugnato tardivamente), è ammissibile ma è infondata nel merito, in quanto la mancata impugnazione dell’atto fonte del danno consente a tale atto di operare in modo precettivo dettando la regola del caso concreto, autorizzando la produzione dei relativi effetti ed imponendo l’osservanza ai consociati ed impedisce che il danno possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dall’amministrazione in esecuzione dell’atto inoppugnato. La domanda risarcitoria dunque deve essere respinta nel merito nel caso in cui il fatto produttivo del danno non sia suscettibile di essere qualificato come illecito.

Per questa terza e più ragionevole posizione, seguita anche in giurisprudenza, l’omessa impugnazione dell’atto lesivo, lungi dal comportare l’inammissibilità dell’azione risarcitoria, assumerebbe rilievo nel momento successivo in cui il giudice esamina la fondatezza della pretesa imponendogli di respingerla allorché processualmente emerge che il ricorso di annullamento avrebbe consentito di evitarli o limitarli.

Dottrina e giurisprudenza ritengono, infatti, che il dovere di evitare il danno costituisce espressione del più generale dovere di correttezza che informa la vita di relazione. Tuttavia, questo impegno di solidarietà, concretizzato nel dovere di cooperare per limitare la responsabilità del danneggiante deve essere adempiuto nei limiti dell’apprezzabile sacrificio. La tesi del rilievo sostanziale della mancata impugnazione  è stata condivisa dal Consiglio di Stato nel 2011 che ha inoltre chiarito che tali operazioni sono inserite nell’ambito del Codice del processo amministrativo, in cui opera una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità giuridica e del principio di autoresponsabilità.

Dunque, ferma restando la condivisibilità delle ragioni sottese all’adesione del principio di autonomia della proposizione dell’azione risarcitoria, restano comunque i problemi, inizialmente esposti, riguardanti la necessità di evitare oneri economici eccessivi per la P.A..

2. Risarcibilità e risvolti processuali

2.1. L’art. 30 c.p.a 

Si è avvertita pertanto l’esigenza  in sede legislativa di costruire attorno all’azione risarcitoria pura una c.d. “rete di protezione”. A tal riguardo, l’art. 30  c.p.a., nel disciplinare l’azione di condanna nei confronti della P.A., al comma 3 consente la possibilità di azionare la pretesa risarcitoria anche indipendentemente dal previo annullamento dell’atto lesivo, assegnando a tal fine all’interessato un termine d decadenza di centoventi giorni.

Diversamente , nel caso in cui sia stata precedentemente proposta l’azione di annullamento la domanda può essere formulata: in corso di causa con lo strumento dei motivi aggiunti, o separatamente entro e non oltre centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza, art. 30 comma 5 c.p.a.

La proponibilità  in forma autonoma della domanda risarcitoria è confermata dall’art. 34 comma 2 c.p.a..

Dal combinato disposto dell’art. 30 comma 3 e dell’art. 34 comma 2 c.p.a. viene sancita dunque l’autonomia sul versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio, nonchè i poteri cognitori  assegnati al giudice amministrativo in sede risarcitoria. Viene  infatti precluso al giudice amministrativo il potere di disapplicazione dei provvedimenti e dunque la preclusione  di un accertamento incidentale dell’illegittimità, salvo che ai fini della decisione sulla domanda risarcitoria. A tal riguardo, nel caso in cui secondo l’art. 34 comma 3 c.p.a. l’azione di annullamento sia divenuta improcedibile, il giudice amministrativo si limita ad accertare l’illegittimità dell’atto al solo fine dell’accoglimento della domanda risarcitoria.

Inoltre, il riconoscimento di tale autonomia in punto di rito, della tutela risarcitoria, si inserisce in un ordito normativo che, portando a compimento un lungo  e costante processo evolutivo tracciato dal legislatore e dalla giurisprudenza amplia le tecniche di tutela dell’interesse legittimo mediante l’introduzione del principio della pluralità delle azioni. Si sono infatti aggiunte alla tutela di annullamento, la tutela di condanna(risarcitoria e reintegratoria), la tutela dichiarativa, e nel rito in materia di silenzio-adempimento, l’azione di condanna pubblicistica all’adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio.

Non vi è dubbio, come summenzionato, che un’azione risarcitoria svincolata dal termine di decadenza dell’azione impugnatoria determina, insieme alla riapertura di un consistente contenzioso da tempo definito, un aggravio ed un’imprevedibilità di costi, impedendo una corretta programmazione della spesa pubblica. Infatti il primo tassello della ‘rete di protezione’ del  Codice del processo amministrativo ha introdotto, consiste nella previsione di un termine breve fissato a centoventi giorni per la proposizione della domanda risarcitoria.

Il termine decadenziale di centoventi giorni previsto opera solo per la proposizione della domanda di risarcimento del danno per lesione degli interessi legittimi, quando invece viene in rilievo la lesione di un  diritto soggettivo, si applica l’ordinario termine di prescrizione.

2.2. Sul termine decadenziale

Discussa è la legittimità di tale previsione normativa: la tesi della legittimità del termine decandenziale afferma, secondo il più diffuso orientamento, che al previsione di un termine decadenziale per l’azione risarcitoria non è compatibile con il diritto interno e neanche con il diritto comunitario, in quanto rientra nel potere di disponibilità del legislatore la fissazione di un termine decadenziale; per contro la tesi della sottoposizione del termine di prescrizione afferma che il risarcimento del danno può essere sottoposto solo a termine di prescrizione, quest’ultimo può essere ridotto ma non eliminato a favore della decadenza.

Quanto alla decorrenza del termine decadenziale di centoventi giorni, l’art 30 comma 3 considera il giorno in cui il fatto si è verificato ovvero alla conoscenza del provvedimento se il danno viene direttamente da questo.

Problemi si pongono nel caso di inadempimento, infatti il termine non inizia a decorrere fintanto che perdura la stesso, dunque se si assume il carattere permanente all’inadempimento così come stabilisce la Relazione al codice, sarebbe sempre esperibile, così non sussistendo nel caso in esame un onere di diligenza analogo a quello richiesto a colui che lamenta di avere subito un danno da provvedimento espresso. Ulteriori problemi  processuali vengono in rilievo,  nei riguardi dell’applicabilità del termine decadenziale previsto dall’art. 30 comma 2 c.p.a. agli illeciti consumati in epoca anteriore all’entrata in vigore dello stesso articolo.

Sul punto si è registrata una contrapposizione tra una tesi maggioritaria che facendo leva sul principio dell’inapplicabilità retroattiva di una disciplina limitativa del diritto di azione, conclude per la risposta negativa e l’opposta opzione in applicazione del principio processuale tempus regit actum.

L’Adunanza Plenaria nel 2015 ha stabilito che il termine decadenziale di centoventi giorni previsto per la domanda di risarcimento per lesioni di interessi legittimi dell’art. 30 comma 3 del c.p.a. non è applicabile ai fatti illeciti anteriori all’entrata in vigore della norma, per diverse ragioni: l’art. 11 e l’art 14 delle Preleggi al codice civile, impediscono in assenza di una prescrizione esplicita in tal senso, l’applicazione di retroattività di una norma sfavorevole. Detta norma infatti si risolve in una compressione del potere di azione giudiziale in quanto restringente della cornice temporale entro la quale è dato agire in giudizio nei confronti dei soggetti titolari di un potere pubblico con la creazione di una clausola anticipata della pretesa risarcitoria.

Inoltre una soluzione diversa finirebbe per frustare in modo irragionevole e imprevedibile le aspettative di tutela ed il legittimo affidamento in merito alla disciplina vigente al momento del fatto, in violazione dei principi costituzionali comunitari ed  europei in tema di pienezza, effettività della tutela giurisdizionale ed uguaglianza come disciplinati dagli artt. 3, 24 e 111 Cost..

Infine l’onnicomprensività del riferimento letterale ad ogni tipo di tema non consente la differenziazione del regime a seconda della natura processuale , sostanziale o mista del rilievo.

2.3. La “dilatazione” delle tecniche di protezione

In definitiva, il disegno codicistico, in coerenza con il criterio di delega fissato dall’art. 44, comma 2, lettera b, n. 4 della legge del 18 giugno del 2009, n. 69, ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell’interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l’esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.

Di qui la trasformazione de giudizio amministrativo, da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliare la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso, e con salvezza del riesercizio de potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa azionata.

Alla stregua di tale dilatazione delle tecniche di protezione,  viene confermata e potenziata la dimensione sostanziale dell’interesse legittimo con la centralità che il bene della vita assume nella struttura di detta situazione giuridica.  Come osservato, dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 500/1999, l’interesse legittimo va in teso come la posizione di vantaggio riservata ad un oggetto in relazione ad un bene della vita interessato all’esercizio del potere pubblicistico, che si compendia nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del poter, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difese dell’interesse al bene.

In questo quadro normativo, sensibile all’esigenza di una piena protezione dell’interesse legittimo, come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, risulta coerente che la domanda risarcitoria, ove si limiti alla richiesta di ristoro patrimoniale senza mirare alla cancellazione degli effetti prodotti dal provvedimento, sia proponibile in via autonoma rispetto all’azione impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di detto ultimo rimedio secondo una logica gerarchica che il codice del processo ha con chiarezza superato.

2.4. Risarcibilità e condotte processuali negligenti

Da ultimo, ma non meno importante, va analizzato il problema riguardo alle condotte processuali negligenti, se non addirittura maliziose. A tal proposito, non è mancato chi in dottrina e in giurisprudenza pur ammettendo la riproponibilità in via autonoma della pretesa risarcitoria ha sostenuto che il giudice dovesse tener conto in sede di merito dell’imputabilità della condotta negligente e maliziosa dell’istante della mancata proposizione del rimedio costitutivo sì da escludere la responsabilità dell’amministrazione o il ridimensionamento della portata allorché emergerebbe che il creditore avrebbe evitato il pregiudizio sofferto o parte dello stesso usando l’ordinaria diligenza nella difesa del proprio interesse.

Fonte di tale impostazione prima dell’intervento del Codice del processo amministrativo, è l’applicazione dell’art. 1227 comma 2 c.c., che prevede l’imputazione al creditore di quella parte di danno che avrebbe potuto essere evitata, usando l’ordinaria diligenza, nella difesa del proprio interesse. In coerenza con la stessa ratio, conseguentemente all’entrata in vigore del codice, quest’ultimo, pur negando la sussistenza di una pregiudizialità di rito, ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza eziologica dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso.  Nello specifico,  l’art. 30 c.p.a. al comma 3 prevede che nella determinazione del risarcimento il giudice possa valutare tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e comunque esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, o anche con altri mezzi di tutela previsti dall’ordinamento. Il riferimento non è esplicitato ma è riferibile al previo esperimento dell’azione di annullamento. L’art. 30 c.p.a., pur non rimandando espressamente all’art. 1227 comma 2, prevede che l’omessa impugnazione non più come preclusione di rito ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini della sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.

Più in generale va apprezzata l’omissione di ogni altro comportamento esigibile quanto non  eccedente la soglia del sacrifico significativo  sopportabile anche dalla vittima di una condotta illecita alla stregua di un  generale divieto di abuso del diritto di posizione soggettiva, che ai sensi dell’art 2 Cost. e degli artt. 1175 e 1375 c.c. permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto.

Il divieto di abuso del diritto allora si applica anche in chiave processuale: il creditore deve evitare di evitare di esercitare un’azione con modalità tali da implicare un aggravio della sfera del debitore, sì che il divieto di abuso del diritto diviene anche divieto di abuso del processo. Ai fini che ci interessano, assume particolare rilievo la circostanza, sottolineata dalle Sezioni Unite, che il divieto di abuso concerne, oltre che la fase eziologia del rapporto, anche quella patologica: il creditore cioè deve, cooperare con il debitore non solo per agevolare l’adempimento, ma anche per non aggravare la sua posizione una volta che si è verificata la violazione dell’impegno obbligatorio.

Applicando tale criterio interpretativo, si deve allora ritenere che la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo possa essere ritenuta un comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno.

Ne deriva che l’utilizzo del rimedio appropriato coniato dal legislatore  proprio al fine di raggiungere gli obiettivi di tutela specifica delle posizioni incide e della prevenzione del danno possibile, costituisce, in linea di principio, condotta esigibile alla luce del dovere di solidale cooperazione di cui all’art. 1227 c.c. .

Il giudice amministrativo è dunque chiamato a valutare se il presumibile esito del ricorso di annullamento e dell’utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo un giudizio di causalità ipotetica, basata su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale ( ossia più probabile che non)  del ricorrente  evitato in tutto o in parte il danno, integrando così la violazione dell’obbligo di cooperazione, che spessa il nesso causale, e per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Si deve, infatti, considerare,  che il ricorso per annullamento finalizzato a rimuovere la fonte del danno, pur non essendo più l’unica tutela esperibile, è il mezzo di cui l’ordinamento giuridico processuale dota i soggetti lesi da un provvedimento illegittimo proprio per evitare che quest’ultimo produca conseguenze dannose. Un rilievo significativo è destinato ad assumere l’utilizzo del mezzo di prova delle presunzioni ex artt. 2727 e ss. c.c., che consente di valutare se l’apprezzamento dell’illegittimità dell’atto operato in sede risarcitoria avrebbe portato anche l’annullamento dello stesso, in modo da impedire, anche alla luce delle  misure provvisorie adottabili in corso di giudizio o ante causam, di mitigare o ridurre il danno.  Sotto questo profilo, il giudice amministrativo, dovrà escludere la fondatezza dell’azione risarcitoria laddove risulti che la decisione del ricorrente di non utilizzare lo strumento impugnatorio sia frutto di un’opzione discrezionale ragionevole  non sindacabile in quanto l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in generale, non sia adeguatamente suscettibile di valutazione.

Quanto alla consistenza della diligenza richiesta al danneggiato, non pare condivisibile la tesi secondo cui la stessa sarebbe non quella ordinaria ma quella professionalmente qualificata, sulla falsariga del criterio di valutazione offerto dall’art. 1176 comma 2 c.c., infatti mentre questo tipo di tutela può essere richiesta ad un operatore professionale, non può parimenti esigersi dal comune cittadino.


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